Ieri ho visto “Non essere cattivo”, il film del povero Caligari. Non è il povero Caligari a indignarmi, ovviamente, bensì tutto il resto: cioè tutto. La recitazione, gli attori, il casting, la sceneggiatura, ma soprattutto il sistema che ha partorito l’indegnità stessa, la creazione di un caso, l’ipocrisia dei critici, la romanità della romanità, il baillamme, le firme, gli elogi, i nomi. Non Valerio Mastrandrea: mi pare l’unico puro, mi pare l’unico che è stato realmente investito dall’affetto. Faccio un esempio *milanese*, traendolo da Wikipedia, nell’incredibile voce che concerne il film: Emiliano Morreale, critico de L’Espresso, parla del film come «un oggetto indefinibile, insieme raffinato e popolare. E soprattutto è un film vero, di un vero regista». Elogia il montatore il cui lavoro «tiene in piedi tutto con efficacia», la recitazione di Marinelli e Borghi definita «una delle migliori performance d’attori del cinema italiano recente», per come danno «forza [al] film [e riescano] creare scene forti». No, ma avete presente cosa è l’onestà intellettuale e il gusto estetico e il rigore e il criterio? Perché, se non si hanno presenti queste inezie, col cavolo che puoi permetterti di sembrare cialtronesco e utilizzare la retorica del paradosso. Cosa direi alla coralità che ha montato il caso, che ha pensato bene di candidare all’Oscar questa pellicola onesta all’origine e disonestamente ingrandita a sproposito? Ricorre oggi il decennale di un discorso fondamentale, un discorso civile, un discorso paradossale e retorico: quello di Alberto Malesani in Grecia. Eccovelo, ecco cosa direi in faccia alle singole persone responsabili dello sfacelo italiano negli ultimi trent’anni, tra cui tutte coloro che ho visto e letto nel gorgo allucinante intorno a questo sottoprodotto tipicamente sfacelo e tipicamente italiano.