Sviluppiamo la nozione di: illusione. Una delle potenze delle parole, se prese solitarie, è la fioritura della retorica tutta. Per esempio, si potrebbe dire che “gratitudine” è un ossimoro, il che è impossibile per una parola sola, oppure che “amore” è una metafora, il che anche è impossibile: e tuttavia è possibile. “Illusione” esprime una metonimia, in quanto essa sta sempre e comunque per significare il movimento con cui la mente ritiene che qualcosa sia mentre non è. Illusione, dunque, è metonimica della scorretta percezione dell’essere e indica dunque una domanda: cosa è? Per fare un esempio: se mi muovo alla velocità della luce, vedo tutto fermo, statico, consistente e dunque penso che esso sia, mentre in effetti diviene. E’ uno stato illusorio quello in cui percepisco una cosa per un’altra, il che è il movimento stesso della metonimia o, forse, dell’intera retorica, la potenza con cui l’inanellarsi di lessico e grammatica fa sì che essa esprima i movimenti dell’animo, nel momento stesso in cui non si sa cosa sia un animo. Alla base dell’intera mobilitazione linguistica sta l’illusione: unità di codice in luogo di qualcos’altro. Cosa è il qualcos’altro dalle unità di codice? Sono unità di codice le singole parole: cosa c’è di altro dalle parole? Ovviamente qualcosa che è altro dalla parola. Cosa è altro dalla parola? Il silenzio? Quale silenzio? Il silenzio del parlare? Del pensare? Del sentire? Il silenzio rotto dalla parola equivale al silenzio rotto da una nota o da una frequenza? Cosa c’era prima e dopo quella nota? Durante quella nota, se ci stabilizziamo alla velocità del suono, la nota c’è? Ecco, questa è la mente, cioè l’illusione: di questo scrivo da anni, continuo a scrivere: di questo silenzio in cui accade l’illusione, poiché c’è una mente che ritiene di percepire.