Tempo e valore

Il vantaggio delle macchine sugli umani è il tempo: ce ne impiegano di meno. Quindi, il vantaggio degli umani sulle macchine è il tempo: ne impieghiamo di più. Questo, un tempo, ed era un tempo novecentesco, veniva percepito come valore, poiché i soloni avevano letto male gli scritti marxiani (e discutevano sulla differenza aggettivale “marxista-marxiano”): l’umano non è marziano, è marxiano – così pensavano e, in parte, avevano ragione. Il fatto è che Marx statuisce una dinamica del valore, ma un’epoca giunge in cui la dinamica sembra valore, al punto che non esiste più valore, quindi non esiste plusvalore. Adesso, e si tratta di un avverbio dalla durata indefinita, cercheranno il senso del valore, nel momento in cui il valore è vaporizzato, neanche dislocato: proprio non si sa dove percepirlo. Era, infatti, un problema di percezione, poiché prima della sopravvivenza, che sarebbe la prima piattaforma valoriale, esiste la percezione della vita. Questo fatto, non secondario, è sfuggito, materialmente almeno quanto filosoficamente. Tu gli andavi a dire, ai novecenteschi: il capitale è tempo, la sopravvivenza è tempo – ti davano del matto. Poi gli dicevi: il capitale, che è tempo, non è assolutamente valore – eri ancora più matto. Uno psicofarmaco è semplicemente tempo appercepito: non lo capivano e non lo capiscono. Che io possa inghiottire, digerire, metabolizzare tempo: sembra un fatto alieno, marziano appunto. Quando invece è umano. La scimmia è anzitutto geologica: viene dalla pietra: sedimenta. La pietra è impermanente. La permanenza è anzitutto impermanenza, poi è consapevolezza che qualcuno o qualcosa *sente* l’impermanenza o la permanenza, e questo è l’unico fatto permanente, davvero permanente, a qualunque condizione appaia qualcosa, a partire dall’apparire dell’apparenza. Ciò pare a chiunque molto astratto, tremendamente filosofico, quindi irreale, non concreto, per nulla alla mano. E’ una percezione distorta, quindi occidentale, a condizionare il “chiunque”: sbaglia, io cosa devo dire?, cosa posso farci? Nulla, perché mica me lo invento io che il soggetto che percepisce la percezione è l’elemento più concreto e alla mano dell’intera esistenza, per non dire della non-esistenza. La nube della non conoscenza è davvero meravigliosa, quindi curiosa: la curiosità è il suo vezzo, il suo sintomo. Perfino la curiosità è causata, esplicata, retta e conclusa dall’attenzione, che non è sforzo alcuno – infatti il lavoro non esiste. Certamente esiste il lavoro. Prima fai fatica e poi ti rendi conto che non c’è fatica. Prima occupi il tempo, poi tendi a svuotare il tempo, poi ti rendi conto che nel tempo vuoto non riesci a starci, quindi peni, infine ti rendi conto che, tempo o non tempo, c’è qualcosa che è nel tempo e non appartiene al tempo: esso non appare. Realizzare che tutto ciò è vero pare una fatica, ma non si deve fare alcuna fatica, perché tanto è così, che tu aderisca o non aderisca va sempre e comunque così. Questo è il centro e l’esterno e il momento stesso, per dire, della scrittura, così come di qualunque operare. Qual è il senso della scrittura? Rendersi conto che si è nel tempo e non si appartiene al tempo. Il testo è l’apparire, non è che sta per l’apparire: è proprio l’apparire, ogni apparire si determina come un testo, nel senso che esso è il testo, poi dopo si è trovata la scrittura testuale, e via di canoni, ovviamente destinati alla polvere, questo esito magistrale, questa verità dell’apparire, questa analogia di qualunque fine. Si sta dall’inizio, muovendosi o meno non importa. E’ tutto.