Questo uomo detiene personalmente la responsabilità diretta dell’uccisione di tremila persone. Sono decine di migliaia le vittime di cui è indirettamente responsabile. Si parla di uccisioni, di eliminazioni cruente, sangue necessario a erigere il più importante cartello degli stupefacenti nel mondo. E’ El Chapo, ieri acclamato dalle detenute fan di un carcere statunitense di massima sicurezza, in cui è stato rinchiuso. Le sue fughe hanno fatto impazzire l’immaginario criminale. Qualcuno si è avventurato, al solito, in un’interpretazione politica degli atti esecrabili, di cui è responsabile questo uomo noto per un soprannome. Lo scatto lo ritrae nel momento della transizione oltre il confine Usa. Il suo sguardo è eloquente ed è un allegato mai troppo indagato di quella vertiginosa fola che è il potere, una narrazione vacua a cui mi sembra dedita la specie. A quante cadute di potenti ho assistito nel corso della mia esistenza di quasi cinquentenne? E sempre questo sguardo semifinale, sempre questa creaturalità di chi ha trascorso la vita tra omicidi e tirannia, tra complotti e distanza dall’inermità che è il tratto più angelico del fenomeno umano. Ogni potente è una potente allegoria, un potente emblema. L’ambigua narrazione dei vani sforzi per conquistare e mantenere il potere, un tempo, mi tentava. Al di sotto di questa narrazione, l’interesse poetico andava all’indifferenza della realtà nei confronti di queste sagome intermittenti, che ritenevano di detenere il tempo e il mondo, per un arco né lungo né breve: si confrontavano con la storia e la storia li macinava. Questo sentimento della storia mi interessa sopra tutte le altre possibilità di narrazione. L’empatia verso il colpevole e la sua immersione in una inestricabile dualità si confrontano con un momento storico in cui il controllo sulla storia sembra altissimo e invece è altissimamente inapplicabile alla realtà. Il libro appena consegnato a Mondadori e in uscita nel 2017 affronta questa grande muraglia.