Tra i fumi di un’influenza bronchiale abbastanza devastante, misuravo ierisera come alla mente continuano a tornare folate di immagini, rappresentazioni della vita e del presente, di cui ho fatto esperienza esponendomi a un’opera cinematografica, che è “Knight of cups” di Terrence Malick. E’ un film impressionante, che può annoiare mortalmente, ma per me è il capostipite di una narrazione che non smette di impressionarmi: non di interrogarmi, ma semplicemente di impressionarmi. E’ come se il regista americano mi avesse attivato recettori cerebrali in stato di latenza. La prima volta che ho visionato KoC, mi sono chiesto se Malick fosse impazzito. Non tolleravo un’immagine di più. Desideravo che un drappello di Schutzstaffeln entrasse nella pellicola e prendesse a calci nel culo i protagonisti, le loro espressioni corrucciate o enfaticamente stupefatte dal nulla delle loro vite. Soltanto un maoismo potrebbe salvarci da questa teatralità cazzuta e decadente – la semplice pronuncia di questo aggettivo, “decadente”, a cui mi sono sforzato di oppormi nella vita, mi fa sentire in colpa, mi schiaccia nella congerie del reazionariato, che considero un nemico, interiore ed esteriore, da quarantasette anni. Tuttavia è questo passaggio verso un’umanità astratta, che trascorre le sue giornate occidentali fottendosene della realtà e del politico, a essere oggettivamente decadente. Rispetto a quando? Rispetto a prima. Poi ho compreso quanto mi stessi sbagliando. Le immagini del film non mi uscivano dalla mente. E non mi uscivano dalla mente,perché erano una rappresentazione della mente stessa. La mossa di Malick, geniale ancorché incompresa, è adeguare la narrazione a questa rarefazione angosciante a cui l’uno per cento ha accesso, ma anche all’andamento ondivago e autoreferenziale della mente che dà forma all’esistenza. La camera si muove lenta e ariosa, continuamente, l’accelerazione ha in questo movimento aereo un emblema certo e solido, qualcosa di orripilante e che tuttavia, più o meno misteriosamente, riconosciamo come una cifra nostra: occidentale, appunto. Di fatto è il teatro della mente a essere rappresentato: un palcoscenico ovunque, un palcoscenico interiorizzato, dove prende semivita una zona perturbante, che è il rapporto tra attore e personaggio: recita, in qualche modo, questa unità binaria, l’attore-personaggio, ma è fuori dalle dinamiche del copione e, al contempo, della vita vissuta da parte della persona attore. Donne su donne, storielle su storielle, un padre, la cui potenza è abnorme e ispirata alla tragedia classica, un lutto, un fratello debole, il protagonista vacuo, continuamente vacuo, che spende il tempo frequentando i penetrali alti dell’alto occidente, tra party e erotismi stanchi, tra finti drammi e aborti reali – e tutto ciò non è raccontato, bensì desunto dal grado di atmosfera narrativa, in cui Malick iscrive lo spettatore, un’ulteriore vacuità in rapporto con attori e ruoli. L’espressione astratta del mondo viene a concretezza e sospensione di questo normale delirio mentale soltanto in due momenti: a contatto con la natura – il primo è un terremoto e il secondo è la contemplazione della geologia e dell’orizzonte fisico, privo di elemento umano. Tutto il resto è ciclico: si torna sempre sulla spiaggia, come in uno spot, a correre con le scarpe dentro il mare, si torna in decapottabile a prendere vento tra i capelli, si torna alle feste, si torna a urlare contro il ciclopico padre (all’interprete, Brian Dennehy, dovevano dare l’Oscar, non si ricorda una simile interpretazione nel cinema contemporaneo americano…). Si va in un vento vano, un vento della mente, in una Los Angeles mentale, mai vista, mezza “Gattaca” e mezza Zaha Hadid, un agglomerato dove la gentrificazione è assoluta, persino gli homeless sono elemento di gentrificazione. In tutto il film non si vede un libro. La storia arriva a folate minime e, in quanto minime, potentissime. E’ un altro modo di raccontare, è una scalata a un K2 espressivo, si sale privi di bombole di ossigeno. Il film annoia moltissimo. Ciò accade perché la mente, ciclica, annoia tantissimo: è sempre la stessa storia. L’occidente pone il momento politico nell’accesso: alle tecnologie e alle relazioni non più umane, che prendono forma dal momento politico stesso.
Quindi, mi sono accorto, “Knight of Cups” è il principio generatore del libro che ho consegnato a Mondadori all’inizio del mese: ho raccontato secondo lo stesso principio narrativo impegnato da Malick.