“True detective” e me

Me e “True detective”. Una delle ragioni per cui sono stato tanto affascinato da quella che considero La Serie è di ordine proiettivo e riguarda certe cose che ho scritto quando ero giovane. Pubblicai dei libri “neri”, delle specie di crime e di thriller. Mi interessava lavorare allo sfondamento della nozione di genere e alla struttura stessa di romanzo come unica possibilità di narrazione. Tuttavia, essendo inesperto della scrittura in prosa, mi attaccai a mie personalissime ossessioni. Ecco un parallelo tra i nuceli generativi di “True detective” e un romanzo che si intitolava “Nel nome di Ishmael”:
– l’ambiguità del titolo, che, nel caso della Serie, rimanda alla tradizione della “Quest”, cioè la “Ricerca del Graal”, e non solamente all’indagine in corso, avanzando una domanda implicita che ha a che fare con tutto lo svolgimento della serie (ovvero: chi è il *vero* detective? Quale *verità* cerca?); nel caso di “Ishmael”, il riferimento è a Melville e all’incipit di “Moby Dick” (“Chiamatemi Ishmael”), e quindi è un riferimento scritturale, e avanza domande su chi è la funzione che sopravvive agli eventi testimoniando tutto, sopravvivendo oltre la fine per raccontare;
– nella Serie i detective sono due, così in “Ishmael”;
– nella Serie i due detective si muovono su piani temporali diversi, sfalsati (stessi luoghi in tempi diversi), mentre in “Ishmael” i due detective si muovono separatamente in piani temporali diversi e sfalsati (stessi luoghi in tempi diversi);
– nella Serie si indaga su riti parasatanici, così in “Ishmael”;
– nella Serie ci sono vittime bambine, così in “Ishmael”;
– nella Serie i bambini sono utilizzati come simboli, così in “Ishmael”;
– nella Serie un detective vive l’esperienza di una figlia piccola morta, così in “Ishmael”;
– nella Serie il male è il Male, così in “Ishmael”;
– nella Serie, a coprire e forse motivare il giro di sacrifici umani, è un livello politico alto, così in “Ishmael”;
– nella Serie si fa un percorso in un tempio del Male (Carcosa) fatto di distorsioni percettive e articolazioni umane slogate, così in “Ishmael” (il Cottolengo, una brefiotrofio milanese dove sono in contenzione bambini affetti da aberranti sindromi genetiche);
– nella Serie si arriva al discioglimento attraverso un triangolo, laddove un detective irrompe e risolve il duello tra il Cattivo e l’altro detective, e così accade in “Ishmael”;
– nella Serie c’è la “Scopata squallida orrenda”, così in “Ishmael”;
– nella Serie ci sono i colleghi dei detective che depistano e coprono, così in “Ishmael”;
_ nella Serie viene enunciata, in termini enfatici, una filosofia del vuoto e del nichilismo metafisico, così in “Ishmael”, con la medesima retorica;
– nella Serie c’è un detective impermeabile all’amore e alla femminilità, ostinatamente solitario e ritentivo, così in “Ishmael”;
– nella Serie c’è non l’evocazione, ma la pratica del sadomaso, così in “Ishmael”;
– nella Serie c’è continuamente erba secca, così in “Ishmael”, dalle crete senesi all’erba veccia delle zone di nessuno accanto alle carreggiate delle tangenziali milanesi;
– e così via.
Non intendo asserire di avere raggiunto, con “Nel nome di Ishmael”, l’altezza degli esiti artistici che vanno riconosciuti a “True detective”. Intendo sottolineare come esistano molti snodi canonici della storia “nera”, da un lato; d’altro canto, come siano comuni certe ossessioni personali. Al di là delle intensità artistiche e dei risultati sortiti (davvero, lungi da me qualunque reclamo di un’artisticità del “thriller” che pubblicai nel 2001), la differenza tra il libro e La Serie risiede secondo me in questo: nella Serie non c’è la storia, se non come tradizione magica (gli orripilanti carnevali della Louisiana), mentre nel libro i piani temporali servono a fare percepire il salto tra l’Italia dei Sessanta e l’Italia del 2000.
Chiedo scusa per l’equivocabile slalom parallelo.