La metafisica italiana

Anni fa, il 16 febbraio 2014 alle 11.45, fenomenologizzai Enzo Moavero Milanesi, ministro per gli affari europei nel governo di Mario Monti e poi anche in quello presieduto da Enrico Letta. Stabilivo una perennità del fenotipo spirituale Moavero in Italia. Infatti attualmente Enzo Moavero Milanesi è uno dei candidati alla Farnesina per conto del governo Lega-M5S. Non si uscirà mai dall’incubo italiano, che è un sogno sfinente, una fine che non finisce mai di finire. Ripropongo quella fenomenologia, a vantaggio di chi quell’incubo vuole continuare a secernerlo.

Dal governo Monti a quello Letta a quello Renzi esiste una costante metastorica, antropologica, finzionale e misteriosa, incarnata dal raggrumarsi di una corporeità fatta di neon e geologia, che è propria del volto appartenente al continuativo ministro Enzo Moavero. Egli è gradito all’Europa, sempiternamente. Un esame di precisa quanto allegorica fisiognomonica impone al paziente lettore un sentimento del mondo, una vertigine universale, che è la via italiana a una forma di mistica particolare, qualificata, priva di ritorno, la quale si dice: politica. Si tratta infatti di un sembiante che riassume in sé le caratteristiche somatiche ed emblematiche di tutti i governi italiani, cattolici tecnici riformisti, dalla fondazione della Repubblica a oggi, che conserva memoria della caduta dell’impero romano, di Bisanzio e Persepoli, di San Tommaso e Don Bosco, di Commodo e di Cavour. E’ la forza inerziale che deprime, abbassa, erode: ne furono vittime Cesare e Masaniello, Tutankhamon e Cristo, Romano Prodi e Benito Mussolini, Luigi Tenco e Guido Morselli, Annibale e Cola di Rienzo, Ernesto Che Guevara e Celestino V. Le immagini pubbliche di Enzo Moavero appaiono icone di un silente smottamento privo di origine e di fine, stilema dell’italian way of life and death. E’ la versione nostrana di un “True blood” lento e privo di plasma, la terza via nazionale a una luccicanza stanchissima e letale che nemmeno Stephen King era in grado di prevedere e affrontare, la persistenza dell’atomo teosofico che fa da filo bianco tra Clelio Darida, Paolo Emilio Taviani, Guido Carli, Lamberto Dini e Enzo Moavero stesso. E’ in quella tramatura sottilissima, la quale sconfigge il divenire, che risiede la cifra della modernità italiana. Uno sguardo e tutto è chiaro: ecco la fisionomia del gelido gorgoglìo primordiale, di un big bang strenuamente privo di moto e temperatura; ecco lo sguardo che esprime la vittoria della polvere cosmica o casalinga sulla vita vivente; ecco il rictus del limbo di cui parla “Il libro italiano dei morti”, di cui non esiste copia e che sovrasta per orrore nitido e immobilità faraonica gli omologhi tibetano ed egizio; ecco l’eco sinistra di un’assenza assoluta di polarità o di mutazione. Questa non è una fotografia: è una metopa. C’è qualcosa che surclassa i muti emblemi assiri o micenei in questa cofana sempiministeriale con riporto vaporoso, nemmeno brizzolata, ma cinerea ben oltre la gamma che va da infrarosso a ultravioletto, e che fa evaporare all’istante il ricordo dei crini biancastri di tutti i mandarini della storia repubblicana, da Parri a De Gasperi a Moro a Goria a Scalfaro, ma anche di tutte le pieghe tinte o laccate o brillantinate, da Andreotti ad Altissimo a Berlusconi. Voi siete qui: in quella smorfia che sta tra il rigor tolemaico e il sulfureo sorriso appena accennato di una deità amorfa e cieca nel pieno gorgo della creazione. Nel taglio artico di quello sguardo utracorporeo noi viviamo, respiriamo, ci muoviamo. Non moriremo mai: è la promessa formulata da quell’incarnato pallido, da quel derma cereo, cianotico o epatico a seconda dell’illuminazione e del filtro di un eterno photoshop della percezione. Il naso modello Armani, la facies hippocratica dell’Essere secondo l’italianità, una certa inquietudine della materia che sintetizza l’adolescenza e la vecchiezza in un’unica ambigua fisionomia, la fronte spaziosa che adombra il voluttuoso pensamento e la meditazione sulla gravità delle cose, il lineamento della perennità in forma di decadenza indefinita e priva di un termine o di un confine: ecco il nostro hic et nunc, la proposta che abbiamo avanzato e avanziamo al mondo, il lato oscuro della forza meridiana con cui governiamo le cose sotto il cielo e trapassiamo i parametri della durata vaticana e cinese. Da galassie distantissime osservano la superficie del pianeta azzurro, la scansionano e incappano in questo geroglifico che non appartiene né alla carne né al minerale, bensì al regno dello spirito, indifferentemente santo o laico o credente, l’abbacinante volto della Maya italica, il silenzioso buddhismo mediterraneo di cui siamo da sempre e per sempre pontefici, ineffati, indecrittabili, sfuggenti, al di là del male e del bene, al di là dell’umano troppo umano, al di là del celestiale e del divino, la forma irrevocabile di una stasi che parla con il silenzio e agisce immota, stella fissa che non irradia luce, cecità che tutto vede e non controlla, caos tumido nella calcinata paralisi del tutto, mistero orfico che seppellisce l’orante con miriadi di formule e tautologie, infarto del linguaggio, teurgia del ristagno e della ritenzione, horror vacui che interroga e non risponderà mai.
E’ questa la metafisica italiana.

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