Il Caffè avvelenato dei Grami Fratellini

Vado molto lungo con questo post – mi scuso preventivamente? No, non mi scuso. Il conformismo, la premessa che ammorbidisce non tanto le critiche, quanto la mia paura delle critiche, oppure la piccola giustificazione di una grande immoralità: non sono elementi che fanno per lo scrittore, che è sempre un miserabile e un cinico, ma deve esserlo di una grande miseria e di un grande cinismo. Questa reazione all’esistente, reazione che è del tutto inesistente, almanacca definitivamente Massimo Gramellini tra i grandi immoralisti di questa stagione e rilancia il dado che è stato lanciato molti anni orsono: da millenni, praticamente, il conformismo è il nemico pubblico e il pubblico stesso, la modalità aereo della coscienza, il sagrestismo untuoso e criminogeno che si converte in pedagogia del male. Poiché è necessario, in qualunque consistenza dell’età che si vive, schierarsi a partire dall’ambigua polarità che oppone il bene al male, appoggiandosi all’evidenza che il bene non è mai feroce, mentre il male è divoratore sbranante, allegoria zannuta dell’inferno in terra, proposito istituzionale che occhieggia alla tirannide del securitarismo per tradursi in norma condivisa dell’assalto a ogni insicurezza: un mesmerismo dell’indecenza, in cui l’ipnotizzatore è l’ipnotizzato e non oppone resistenza all’ipnosi di massa. Dovrei forse pelosamente pentirmi a priori di usare un simile lessico, una sintassi ridondante ed eventualmente pesante per l’occhio dei più e dei contemporanei? No. Differentemente capita a Gramellini, che assume la premessa maggiore e quella minore di un sillogismo che conduce a una conclusione implicita, urgentissima per il conformista, il rovesciamento diamentrale di ciò che l’etica pubblica e la morale storica indicano come valore umano, perenne dal momento in cui è stato rivendicato qualche secolo fa: la pulsione alla fraternità sta accanto a quella della libertà e dell’eguaglianza tra spiriti e corpi, ovunque e comunque. Anche il conformismo vive di una sua perennità, è metastorico, è uno dei disvalori umani, di cui si intuisce sempre l’evoluzione e mai l’estinzione. Che a Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya, si riservi l’allucinante trattamento che fu comminato a Enzo Baldoni, alle “due Simone”, a Giulio Regeni, compone una storia dell’idiozia tanto quanto una vicenda universale (e quindi molto italiana) della malvagità e della distruzione di qualunque alterità. Accade nel giorno in cui il ministro dell’interno mette a modo di gogna sui social il volto delle minorenni che hanno protestato contro le sue antipolitiche, ricordando che alla fine del tunnel c’è sempre un piazzale Loreto che attende i Re Probi mai reprobi – come ha giustamente affermato Wu Ming, una lezione di storia impartita su un cartello, che non è né insulto né minaccia, ma pura constatazione storica. La Colonna Infame ha una colonna in Salvini e in tutti quelli come lui. “Questi qua”, come li chiama il grande cronista politico Filippo Ceccarelli, nel suo fondamentale “Invano”, edito da Feltrinelli: ecco, “questi qua” sono i rappresentanti della folla, del qualunquismo come forma di ferocia privata e pubblica, dell’ignoranza come valore fondante di una comunità di uguali, l’autentica anticamera a qualunque totalitarismo, totemico o dinamico che sia. La preda Silvia Romano è stata rapita due volte e speriamo che non venga uccisa due volte: dai rapitori fisici e dai sequestratori immorali che ieri hanno esercitato la propria vocazione alla crudeltà, insultando il partito sempiterno e ubiquitario a cui sono iscritte le genti che agirono agiscono e agiranno per il bene. Questo linciaggio vergognoso, questo sproloquio dei più orrendi archetipi del borghese di cui si è appropriato il lumpenproletario, è un’opera costruita col fango dell’ignominia, l’empietà del meschino che si nasconde nella folla, dell’urlatore di improperi contro il diritto nemmeno acquisito, ma continuamente da acquisire: io devo acquisire il diritto all’aiuto della sorella e del fratello, questo è il surreale impegno che bisogna affrontare ogni volta che la storia sgrana i giorni cupi, i rovesci dell’epoca, i drammi individuali e collettivi. C’è poi un elemento da sottolineare: Silvia Romano è attaccata con un furore e uno sdegno più facile in quanto è donna e giovane. Accade senza interruzione di continuità con tutte le vittime, ma qui colpisce proprio l’assalto (e l’assalto è la categoria antropologica e politica del momento) al fatto che sia donna e giovane. Donne e giovani sono precisamente le funzioni sociali che i generalisti immorali temono maggiormente, a partire dal signor Salvini, che è proprio signore nel senso che è un maschio di mezz’età bianco. Sono le donne e i giovanissimi che porranno fine allo sbruffonismo politico di “questo qua”. Verranno aggrediti i diritti femminili e l’intera cultura sociale propria dei bambini di oggi – e donne e giovanissimi risponderanno, liquidando il questoquaismo, ovvero il qualunquismo atro di cui sono portatori i vari e fantasiosi ministri che governano l’oggi in Italia. Se la sinistra sembra non accorgersi di questa evidenza, che costituisce il primo passo di una facile profezia, ovvero la scontata previsione di un piazzale Loreto più metaforico che materiale, accadde oggi che ci pensi il Giornalista Ammorbidente, il quale non avverte minimamente il peso del compito che si assume, cioè il killeraggio morale, l’assenso all’assassinio digitale, la rappresentanza dell’idra che sempre tiene in ostaggio non soltanto Silvia Romano, ma la società tutta. Che iddio ce la mandi buona e Silvia torni dove vuole tornare, a casa o in Africa, il che per lei è la medesima cosa – che iddio la mandi buona ai GramI Fratellini che hanno dato ospitalità allo straniero autentico che è in tutte e tutti noi: il volto in ombra, la malvagità perpetrabile, l’orrore attestato sulla soglia e che si fa presente, attivo, efficace e giornalistico.

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