Mancandomi circa cento pagine alla fine dello studio (maniacalmente barocco, con appunti e schemi a profusione) del testo che, tra decine, ho scelto come guida fondamentale per attenermi allo sviluppo storico delle vicende narrate nel romanzo – cioè la materia storica su cui esercitare la variazione di sguardo e non fare crescere la finzione della finzione: cioè la finta che maschera o distorce le responsabilità della storia umana -, ecco che giungo a una fase a me nota, ma questa volta straordinariamente intensa, colma di una potenza mai prima affrontata: è il panico. Non si tratta della crisi cosiddetta della “pagina bianca”. E’ una fase della creazione di un organismo, quando le intenzioni abbandonano la forma del calcolo e iniziano a mettere a repentaglio quanto si è teorizzato fino a questo momento. Un panico ubiquitario, una sensazione di impotenza, di non farcela, questa volta esaltata dall’oggettiva sterminatezza della materia da rappresentare (come?, per salti?, tutta?, in parti significative?, venendo a volte a meno rispetto alla precisione che si esige?, cedendo alla sorpresa?, arretrando rispetto al rischio del grottesco della storia umana?). Una forza centripeta e una centrifuga, componenti della narrazione che sono universali e inalienabili, adottano i loro effetti all’interno dello scrittore. Le convinzioni sulla forma, fin qui chiare e distinte, vanno a puttane. Il liquido corteggia l’orlo, io sono imbevuto della materia di studio e ancora così tanto mi manca da studiare (decine di testi: decine…)… E questa materia, che è l’orrore stesso, questa sensazione di oppressione che il Male esercita a distanza su di me? La devo trasmettere? Devo trattenerla? E come ricompensare chi il Male ha falciato? Come dare rappresentazione all’onorato rispetto ed ergerlo a culto dei morti, a silenzio che parla e redime? La letteratura non redime nulla, la mia insufficienza, in quanto scrittore, è stabilita a priori… Ed è un libro che, sia detto come elemento marginale a fronte dell’importanza delle cose da narrare, è tutto contro di me, contro la mia idea di letteratura: sto accingendomi a una morte, o perlomeno a un tentativo di omicidio: di poetiche, di accertate sicurezze finora acquisite a discapito di nulla, mentre qui io devo considerare anzitutto l’Altro, la mia responsabilità verso l’Altro, scrivo per l’Altro, per la massima alterità che vorrei – e non posso – ricompensare, cerco di suturare una ferita che non sarà mai sanabile… E chissà se si capirà che sto facendo questo…
Un critico: “Il problema contemporaneo di fare della bêtise uno strumento di cattura dei frammenti che ci stanno intorno, e fare altresì dei frammenti un elemento di stupore, di interrogazione. Dal Novellino: «E se i fiori, che proporremo, fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia; ché ‘l nero è ornamento dell’oro e, per un frutto nobile e dilicato, vale talora tutto un orto e, per pochi belli fiori, tutto uno giardino»”: questo è ciò che devo in me assassinare, questa poetica che mi è connaturata e per la quale ho tanto lavorato, dai tempi in cui scrivevo versi, vent’anni orsono… E che metrica e prosodia adottare perché passi quello svuotamento a cui miro?
Insufficienza della teoria.
Momento della cecità.
Durata lunga del momento di cecità.
Tutto in metamorfosi, ma gli elementi sono sempre i medesimi: quelli di cui mi sono imbevuto e saturato in questi mesi. Quest’ultima considerazione dovrebbe tranquillizzare: emergerà una forma per ora indicibile, ma fiorirà da ciò che si è faticosamente studiato.
Avere paura è necessario.
La politica dell’appeasement è stata fatale all’Europa e tanto più lo è ora allo scrittore.
Il desiderio ha partorito il progetto, la paura ne è l’attraversamento. Ora, in questo momento preciso, la paura è al suo culmine, la selva oscura, smarrita la retta via: si presentano belve.
E’ quindi contro belve sconosciute che mi trovo a fronteggiare la possibilità del cammino.
Finché non si presenta il Bene, in forma di Maestro. E mi guida al limitare dove si coglie la luce. Ciò accadrà nel momento in cui inizierò la stesura (e ci impiegherò ancora circa tre settimane, se vado veloce e senza intoppi).
Il diario dello scrittore emenda qualcosa?
Sì: emenda l’opera. Emenda il presente buio, senza tempo, di durata esterna imprevedibile e di durata interna impossibile da stabilire (poiché sembra un’infinitudine di beanza attiva) in cui la scrittura prende corpo, il testo è disteso e le responsabilità storiche sono parimenti assunte, totalmente.
Sono l’ombra di me stesso: ombra tra ombre di lutti.
La materia prima del romanzo non è la vita allo “zero” della Cosa, della Non-Persona, ma la morte dell’innocenza.
La materia prima è la prima indecente morte.
La materia seconda è la seconda morte che gli inni sacri cantano.
Questo sarà il nascondimento reso esplicito.
La danse macabre contro l’inno sacro, a favore di quest’ultimo.
In medio stat horror pleni.
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