Philip Roth, il tragico

[Philip Roth è morto il 22 maggio scorso. Pubblico qui parte di un saggio che ho dedicato alla letteratura di Roth nei suoi rapporti con la potenza del tragico. Questo brano è tratto dal mio libro “Io sono. Studi, pratiche e terapia della coscienza”, edito da il Saggiatore]

Nella prefazione all’edizione 2007 di Blaze, Stephen King avanza un argomento di critica del gusto sconcertante: accenna a Everyman di Philip Roth [1]. Lo fa con toni esasperati e comici, accomunando il romanzo di Roth, negli effetti che produce sul medesimo King, a Jude l’oscuro di Thomas Hardy. Leggendo questi romanzi, King dice di avere alzato le braccia, esasperato, di avere chiesto al cielo che l’autore infilasse di più: un cancro ulteriore, una fulmine che scende dal cielo e incarbonisce il protagonista che soffre solamente sfortune e, cosa fondamentale per King, piagnucola sul proprio dolore. Non va sottovalutata la capacità critica di cui King dispone: il suo On writing [2] rimane per molti scrittori contemporanei di tutto il mondo un punto di riferimento, che la critica stenta a tutt’oggi a includere nel suo comparto di elezione, soprattutto per un passaggio fondamentale in cui l’autore avvicina alla telepatia la mobilitazione di fantàsmata che è implicita nella scrittura di storie, siano esse epica tradizionalmente intesa o romanzo moderno e contemporaneo nei suoi più vari generi.

L’osservazione comica e stremata di King su Everyman mette in luce almeno due elementi che mi interessano per il discorso che qui voglio fare. Intendo infatti entrare (non delimitare né configurare né esaurire) una nebulosa che è trattata praticamente da sempre da discipline le più varie, come la filosofia l’estetica la teoria letteraria e la letteratura stessa: cioè il tragico e la tragedia. In tale nebulosa vorrei rilevare la presenza atmosferica di un genere moderno, cioè il romanzo, al fine di osservarne eventuali relazioni con elementi della nebulosa stessa o, più precisamente, l’eventuale possibilità che il romanzo possa farsi incarnazione letteraria del tragico, così come la tragedia fu incarnazione, non soltanto letteraria, del tragico classico. I due elementi interessanti, nell’analisi en passant di Stephen King, sono:

 

  • Stephen King non compie un parallelo tra Everyman firmato Roth e il bennoto dramma chiesastico medievale Everyman. Non c’è continuità, per King, tra i due testi. Ciò che avviene nei due testi è di natura differente e il prefatore di Blaze esplicita tale differenza – che è il secondo elemento interessante;
  • Everyman è, per un romanziere come King, un libro in cui il pianto piange se stesso, in cui l’autore piagnucola e fa piagnucolare il suo protagonista. Il protagonista è sottoposto a manrovesci della sorte e la sua meditazione su questi manrovesci medita piagnucolando.

 
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Cura coscienziale, testualità, senso di sé

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Tra concetti fluidi e analogie creative, tra esperienze di canoni disciplinari e determinismi, tra idealizzazioni dell’esame universitario o di maturità ed emergentismi, tra analisi e sintesi, io non ho altra possibilità che il fare. Il mio fare è, in qualche modo, il fare un testo. Da decenni sono automaticamente avvilito al pensiero e alla consapevolezza di conoscere davvero poco, e dico nozionisticamente, quasi che io dovessi essere ciò che non sono, ovvero un critico, e non uno che, il libro, lo scrive. Non mi è ancora riuscito di “coscienzializzare” il fatto che la mia comprensione del mondo e di me stesso avviene nel fare un testo. Non sono mai riuscito a raggiungere il livello del piacere di leggere un testo: l’ho sempre letto per rubare meccanismi, parole, flussi, per costruire teorie e decostruirle appena venivano accennate o rese implicite o esplicitate. Ho in pratica sempre letto da scrittore: in pratica, letteralmente: facendo una cosa, facendo prassi, praticando. Mi è stata data in sorte una fortuna, che era quella di operare in un mondo che considerava il testo un’evenienza necessaria o perlomeno importante. Ciò significa avere avuto la buona sorte di esperire un magistero intorno a ciò che è il leggere e comporre un testo, poetico o prosastico, artistico o saggistico.
Mi rendo perfettamente conto che oggi non è più così. Incontro pochissime persone interessate al testo e, se si scende a un livello di reificazione del testo stesso e cioè il libro, ho a che fare con pochi soggetti che attribuiscono al libro un valore veritativo. Il momento e la situazione che stiamo vivendo, con la sua perenne e troppo intensa stimolazione del sistema nervoso centrale e di quello periferico, mentre il tempo è eroso e non si trovano spazi di pace e sentimento di se stessi, questo panico generalizzato a intensità più o meno bassa, che è un adattamento agli stimoli imposti dal mondo stesso – questa congerie che si chiama Italia 2016 è del tutto disinteressata a inserire tra gli stimoli la lettura di un libro. Il piacere della novità, di una “scena” artistica che regala passi in avanti nello sviluppo delle arti, progressivo e sociale, sembra un esotismo che appartiene a un secolo andato, laddove si ha memoria di un tempo più calmo. Come occuparsi di se stessi, di sentirsi, di essere visti e ascoltati è, a mio avviso, un problema determinante di chi vive insieme a me un simile contesto storico. Per questo ritengo che la cura di sé sia un affare da scrittori e propongo uno spazio in cui il sentimento di se stessi sciolga ciò che impedisce un pieno contatto con la propria mente, il che significa anche con il proprio corpo, con la propria storia, con il proprio apparato emotivo. Questo filtro ostativo è la psiche. La psiche non è la mente. Essa simula un’autonarrazione che è oggi generalmente fallace, perché non restituisce senso a ciò che si fa e che si vive. La psiche manifesta la difficoltà a stare in contatto con la mente, la quale è la potenza di sé, è vasta molto più della funzione psichica. L’ansia generalizzata è risolvibile agendo sulla mente, sul sentimento di sé, molto più che sulla psiche e non sto nemmeno a dire del tentativo di soluzione attraverso il corpo, per esempio con la cura psicofarmacologica. Non che non servano gli psicofarmaci a mettere tranquilli, se la situazione del soggetto è quella sismica e panica. Ciò che sfugge in questo intervento attraverso la chimica cerebrale è il senso di sé, e quindi del mondo, che non risiede nel piano psichico, ma in quello mentale, che laicamente definiamo “esistenziale”. Serve un intervento sul senso, sul senso di sé. Da scrittore posso dire che questo problema del sentimento di se stessi è identico a quello che colpisce il sentimento immersivo della lettura riuscita. Ciò accade anzitutto perché qualunque piano di qualunque umano vivente nell’attuale contesto si presenta in forma di testo e tenta di trascendere la testualità, facendone continua esperienza. La volatilizzazione dell’esperienza testuale mette in crisi l’intero sistema percettivo, non la testualità, che persiste come funzionamento del mondo e di se stessi. Nel saggio “Io sono” (è edito da il Saggiatore) espongo i principi di una terapia della mente, intesa come nuda attività di coscienza e percezione di sé. Tale terapia enuncia la possibilità di un rapporto di cura di sé e della propria vita, che può essere interpretato come counseling, cura coscienziale o esistenziale, auditing attivo, ascolto trasformativo, neopsicologia.E’, insomma, la premessa a un’alleanza concreta che sciolga il problema del senso, ovvero lavori su un’eziologia coscienziale del complesso psichico. E’ dunque anche la premessa per un intervento concreto: è un lavoro ed è identico alla scrittura di un libro, praticata insieme – io, lo scrittore e terapeuta, insieme al cliente o paziente, a sua volta scrittore e terapeuta di se stesso. Il dipinto di scuola tantrica del XVII secolo, allegato qui accanto, significa di fatto la situazione esterna e interna di tale terapia Quando parlo di testo o testualità, del resto, non intendo esclusivamente qualcosa di scritto, bensì la trama e l’ordito e il vuoto interiore ed esteriore in qualunque manifestazione che venga percepita dall’umano, con qualunque senso, specificamente con il senso interno, che sintetizza e restituisce appunto una testualità. Il dipinto tantrico è dunque un testo ed è la situazione terapeutica a cui mi riferisco. Questa situazione è uno spazio in cui avviene il testo, tra due persone, all’interno delle due singole persone. Ciò si dice, nel momento in cui appare la parola: letteratura. La letteratura non è intaccata dal momento storico, mentre ne siamo intaccati noi, il che definisce un problema non letterario, che la potenza del testo è in grado tuttavia di risolvere a pieno.

Diario nell’epoca dell’accelerazione

io-sonoMai come in questi anni mi sono sentito dare del nichilista e io stesso ho percepito, come una grande ala che sfiora la mia nuca, il rischio di esserlo gravare su di me. I mutamenti repentini a cui assisto e che vivo in pieno, in effetti, giustificano tale atteggiamento di diniego assoluto alla proposta di mutare identità e di non sedimentare i propri processi psichici, almeno qui dove vivo, poiché non si dà più una piattaforma storica realmente tale: la storia è molto differente da come la modernità l’ha elaborata e, almeno per chi si è formato nella modernità, chiamandola sempre contemporaneità, lo spaesamento è potente e la sollecitazione, a cui va incontro il sistema nervoso, è altrettanto intensa. E’ verificabile alla mano come le quote di attenzione siano crollate e quanto si sia infrequentita la lamentazione sull’accelerazione, sulla mutazione tecnologica, sull’ignoranza dei canoni (sia storici sia esistenziali, dalle posture alle etichette, dalle prossemiche al cosiddetto problem solving minimo, il quale fallisce sempre). Quanto a me, avverto certamente la vertigine e sicuramente sono rassegnato al passaggio verso ciò che potremmo realmente connotare come modificazione sia genetica sia spirituale. Si svela molto della natura di tutto, in questi anni: dell’identità, che non era riguardata e vissuta sotto questa specie, così come dell’impermanenza. La vicenda della vita vissuta, che non è nulla a confronto della vita vivente, è davvero un grande maestro. Si è costretti a fare i conti con il divenire, che si apprezza disperando o si cavalca non tanto entusiasticamente – un divenire che mostra la faccia nascosta (per chi non l’aveva ancora guardata dritto negli occhi) della morte di tutto: la perenne declinazione barocca, lugubre, ossificata e desertificata del mondo e di se stessi, che esprime una sua poetica sempiterna, dando vita (in realtà, una semivita) a culture e opere che si compiono all’interno di quei vortici che sono, appunto, le culture. A questa “facies” del mondo e della vita attuali, per quanto concerne me, appartengono attività e spostamenti semicimiteriali, che soltanto qualche anno fa delineavano il paesaggio della mia esistenza, e dico le strutture editoriali, le comunità culturali, le proposte light del giornalismo, oltre che le più innocue o più letali iniziative dei miei “comrades”, che vanno assottigliandosi nel numero ed evidenziandosi per coriaceità e coerenza personale. Tuttavia devo ammettere, secondo i canoni diaristici, a cui evidentemente tengo, che nichilista non mi sento proprio e di fatto non sono. A un bravo ragazzo, che l’altro giorno appunto avanzava con discrezione l’ipotesi di un mio implicito nichilismo e mi domandava quale sarebbe la proposta alternativa alla demolizione del presente che pratico dialetticamente, ho risposto che tale proposta l’ho formulata in un libro non letterario, che si occupa però di letteratura almeno per un terzo della sua estensione, e si intitola “Io sono” ed è pubblicato per il Saggiatore. In quella sede affermo cose che non affermo io: si cerca semplicemente di tratteggiare il momento metafisico quale in effetti è, ovverosia una pratica molto semplice, che non subisce gli urti del mutamento storico. La questione è “centrarsi”, “sentendo” se stessi: il corpo, la percezione, l’emozione, il pensiero – e il “luogo” o lo “stato” in cui essi avvengono, cioè appunto il “se stessi”. Una vaga nausea, curabile con domperidone spirituale, mi coglie oramai quando leggo su quotidiani degli spostamenti editoriali e dei saloni, tanto del libro quanto del gusto, e di Torino e di Rho, e dei cosiddetti “colleghi”. Ciò definisce il prezzo dell’impermanenza che ho da affrontare, che ammonta a una cifra di paura e da paura. L’attrito del mondo, qui dove ho vissuto e vivo, si è presentato anche in forma di inaccettabilità dell’idea stessa di “ruolo”. Questo rifiuto, più o meno consapevole e più o meno protratto, comporta appunto una spesa, che parrebbe fatale, se non fosse un naturale movimento interno al più vasto fato personale, il quale a sua volta si colloca all’interno di un fato ancora più vasto e ovviamente vincolante, almeno finché uno non ha davvero appreso che il mondo c’è, qui c’è davvero e ora c’è davvero. La paura, lo spaesamento, la frustrazione, la rabbia, la disperazione, il panico: tutto ciò costituisce la strumentazione di un senso, che nemmeno è sesto e però è un senso, con cui si percepisce che si è qui e ora, che lo si voglia o meno. Non c’è la favola della buonanotte: non c’è favola e non c’è notte. E’ tutto.

Lavorare alla cura esistenziale

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Si va verso la cura esistenziale.

E’ un periodo in cui mi riesce poco di essere oggettivo e, quindi, mi pare sia il caso di astenersi da affermazioni apodittiche, da visioni che non siano mirate a oggetti concreti o particolari. Però mi permetto un’osservazione, che concerne una sensazione intorno a ciò che è un generalmente, sia pure relativo alla mia singolarità. Da mesi mi capita che moltissime persone mi manifestino due generi di disagio: microscopicamente fisico e sintomatico di uno smarrimento circa il senso dell’esperienza attuale. Cerco di spiegarmi brevemente. Continua a leggere “Lavorare alla cura esistenziale”

Il fenomeno vivente

Non si è mai realizzato che cosa è essere vivi. Essere vivi è essere vivo, o viva, è essere viventi: è la stessa cosa. Non si realizza che essere vivo è che è vivo: noi non siamo noi a essere vivi, è l’essere vivo che è vivo – ed è sempre la stessa cosa, è un’unica cosa, non è identitaria. Soltanto realizzando questo o, stando ben al di là dell’orrore che è la tradizione andata accumulandosi con la storia dei linguaggi, soltanto capendo bene questo per esperienza diretta fissata e sedimentata e definitivamente acquisita, soltanto allora si comprende che la morte non c’è. Muoio io, muore lui, muori tu, muoiono loro, muoiono tutti: non muore essere vivo. Si continua a sentire che si è vivo. Questo punto preciso è ciò che si dice: coscienza. Si tratta del passaggio fondamentale in cui si impernia la storia umana, qualunque storia e anche qualunque assenza di storia o trascendimento della storia: sempre, se qualcosa è, ha questo preciso punto da realizzare. La possibilità di realizzazione è data dal fatto che, volente o nolente, qualsiasi cosa sia *è che è vivo* e muore la qualsiasi cosa, che si credeva qualsiasi cosa, mentre non può morire che è vivo. Da qui discendono gli universi. Si prenda per esempio l’amore. L’amore non egoico è da realizzarsi, nel senso che l’amore, per come è stato vissuto dagli umani a qualunque latitudine e in qualunque momento della vicenda di specie, ha istantaneamente comportato la paura di perdere l’amore. Questo viene detto: dualità. Una cosa c’è e al contempo c’è l’opposto e tra questi due poli viene a concrescere qualunque reazione e anche l’opposto stesso di quella reazione. La paura di perdere l’amore è la paura di estinguersi, di perdere che è vivo, il fatto che si è vivi. Dentro quella paura si è vivi. Non siamo noi, i configurati, individui e specie, a essere vivi: è un’unico “punto”, o “momento” o “istanza” o “potenza”: l’essere vivo. In quanto è vivo, l’essere vivo non muore. Lì va a zero proprio la dualità. Detto così sembra astrattissimo, sembra falso, sembra teologico, sembra addirittura indecente, comico, inventato, secondario, bizzarro, bizzoso e indefinite altre qualificazioni. Si ragioni dunque su cosa è amore. C’è un amore dentro la dualità e c’è un amore che sta prima durante e dopo la dualità. Un altro punto ambiguo, tenuto in gran conto in questa minuscola contemporaneità, è il trauma. Il trauma è traumatico, non ci piove. Però è traumatico dentro la dualità, laddove si scatenano le reazioni (storiche, affettive, mnemoniche, rimozionali) al trauma. Però in sé il trauma è letteralmente questo: continui nel trauma a essere vivo. Ciò non fa del trauma una bella cosa da sperimentare. Questo, perché sperimentare, per gli umani, è fare esperienza nella dualità. Proprio non ci pensano, le macchine umane, alla possibilità che si possa fare esperienza non nella dualità: sembra loro che il mondo non esista, che non si faccia esperienza. Non è così. L’unica esperienza reale è quella che si continua a fare, solo non ci si accorge di farla. Dentro il trauma, vissuto nella dualità, c’è la paura di non essere più vivi e cioè anche non essere più amati, non trovare nutrimento, non esistere.
Di tali cose, in modo che ammetto essere molto criptico, ho scritto nel saggio “Io sono” (il Saggiatore; se interessati, qui alcune informazioni: http://amzn.to/1NU0kcd). Esse costituiscono anche il cuore di un irradiamento, tra i molti possibili e del tutto personale, che è la mia scrittura “letteraria” – non è possibile leggere quello che scrivo, se non in questa “direzione”. Per tale motivo il libro che ho da scrivere ora è davvero difficoltoso per me: in quanto desidera non essere alcun riflesso, alcuna irradiazione, personale o meno, bensì questa cosa stessa in atto. Per fare questo bisognerebbe uscire dal linguaggio. Come si esce dal linguaggio (cioè da ritmi, immagini, sostanze, declinazioni, retoriche, rapporti, suoni, silenzi) facendo linguaggio: è un problema antico, ma io lo considero soltanto in questo senso e in questa direzione: stare in un’esperienza non dualistica. Anche qui: detto così, sembra astrattissimo, etc. Non lo è.

Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”

Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna

di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]

Senza-titolo-1-e1424533197642La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.

Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18

Da “Io sono”: in quale senso è la coscienza

61z-tODMNmL-218x300Un ulteriore capitolo di Io sono (il Saggiatore) sulla determinazione concreta dell’atto di coscienza, che è la premessa a una terapia effettiva e pratica che non si occupa più della psiche, ma “pulisce” la psiche dai suoi conflitti e disagi, a partire dal “momento coscienziale”. Si tratta della premessa alla sezione del libro che, da quella relativa allo statuto concreto della coscienza (che è pura sensazione di essere, molto semplicemente e realmente), passa a occuparsi della declinazione terapeutica e iatrogena (un capitolo di quella parte del libro è stato pubblicato qui). Storia, metafisica, coscienza, terapia e testo: sono le sezioni che compongono l’itinerario di “Io sono”, un percorso che cerca di delimitare perimetro e modi di un intervento neopsicologico antichissimo, descritto e praticato dalle tradizioni metafisiche, cioè quelle varianti della scienza interiore che, con ovvie diversificazioni di metodo, da sempre nella storia umana si offrono come orientamenti per lavorare al reintegro dei conflitti somatici e psichici nell’unità semplice della coscienza: nello “stare”.

In quale senso è la coscienza

Nell’istante in cui dal sonno ti svegli e accedi allo stato di veglia

ecco

che senti che sei, che si sente che si è: senza nome ancora, senza genere sessuale, in una privazione di qualunque qualificazione, si sente soltanto che si è, per pochissimo, nell’atto stesso di svegliarsi, non si ascolta e non si vede niente, sembrerebbe un niente, eppure non è un niente, perché si sente che si è, qualcuno è consapevole.
Di cosa si è consapevoli? Del fatto che si è.
Questa nuda esperienza è un’esperienza. La si vede? La si sa? Sì.
In quale modo? E’ un oggetto? No, si sa per identità: è un atto di identità.
Quale identità? E’ connotata psichicamente, emotivamente, fisicamente? Sì, ma soltanto un attimo dopo averla sperimentata.
In realtà, quell’avverbio isolato, “ecco”, è un’analogia, è un fatto linguistico, potrebbe e dovrebbe connotarsi soltanto con un silenzio e il silenzio esorbita il linguaggio.
Ecco: ecco che mi sono accorto, ecco che so che, ecco che non dico altro che “ecco”.
Questo “ecco” ha il medesimo valore metafisico del simbolo “So di non sapere”, come si è visto nei frammenti di discorso metafisico: la mente dialettica non c’è, sento solo che sono, sento che sono senza alcun sapere.
Sembra un minus linguistico, invece è un surplus: il linguaggio, che è separativo e limitante, non è assolutamente adeguato a dire l’esperienza unitiva, cioè l’esperienza di consapevolezza.
L’esperienza unitiva è alla mano, prima di ogni linguaggio.
E’ concreta, avvertita come reale e naturale, è qui e ora, la si sperimenta facilmente e non è possibile alcuna limitazione linguistica quando essa è tale: soltanto un attimo dopo, quando quell’”ecco” diventa che si sente di essere un soggetto, si può benissimo dire che si è un soggetto, ci si intende e ci si capisce nel linguaggio, c’è una tradizione comunicativa che fa perno su epoche storiche umane e dice che il soggetto è quella cosa lì: il soggetto. E poi sono un maschio o una femmina, e il mio nome è questo, e mi sento in questo modo, provo queste emozioni, fisicamente sto così. E’ stata cioè attivata una capacità linguistica, ovvero è stata accettata una funzione separativa e tale capacità della mente si può dire: memoria.
Quasi istantaneamente la memoria è in moto in un soggetto organizzato per essere capace di memoria. La separatezza sorge quasi istantaneamente. Quell’avverbio, “quasi”, intende significare che questa consapevolezza separativa non è pienamente istantanea.
Ciò che è pienamente istantaneo è un’esperienza unica, che è unitiva rispetto a tutti i dualismi successivi, il quali si sviluppano appena l’avverbio “pienamente” è degradato in “quasi”.
L’istante non appartiene al tempo, ma, come il punto per lo spazio, è un ente che genera il tempo senza appartenervi. E’ il “quasi” dell’istante che appartiene al tempo: il tempo entra e, “istantaneamente” col tempo, in un’entità organizzata temporalmente per essere mnemonica, accade la memoria.
Istante, ecco, esperienza unitiva: sono tutti approcci imprecisi, affannosamente alla ricerca nel linguaggio di una strumentazione che dica ciò che il linguaggio non può dire. Quell’”attimo” di consapevolezza non è indicabile dal linguaggio se non attraverso una distanza: un’analogia, una differenza.
Questo stato intimissimo che è l’accorgersi, un “accorgersi di” che è indifferentemente un “accorgersi che”, non è realizzabile dal linguaggio, in quanto lo esonda e lo esonda in quanto il linguaggio, come la memoria, è una qualificazione “successiva” a quell’istante esperito come inqualificato accorgersi.
Questo esondare il linguaggio, spesso, è stato detto per analogia con parole relative a stati di mistica e di trascendenza, che per la natura stessa della percezione risultavano dualistici, stati esterni o esotici o esogeni, lontani, altri, da raggiungere o raggiunti da altri, al di là del bene e del male, al di là dell’umano:

Trasumanar significar per verba
non si porìa; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba

è scritto nel canto I del Paradiso dantesco e chi scrive quel canto è costretto a “mimare” linguisticamente quell’esperienza di silenzio, a cui il linguaggio non arriva e che esorbita ogni linguaggio, cioè ogni limitazione linguistica: scrive due infiniti uno accanto all’altro, e non è un caso che il modo verbale si chiami per analogia “infinito”; specifica che questo “significar” è indotto attraverso “verba”, cioè linguaggio, il che rende implicito che il significare non avviene soltanto con un gesto linguificabile, è più esteso di quanto il significato linguistico comunichi, e cioè esiste un significato al di là delle parole; inoltre cita letteralmente che è sufficiente (cioè è totalmente insufficiente, ma basta come indicazione) l’”essemplo”, cioè quanto qui viene detto analogia; infine riferisce che si tratta di “esperienza”, ovvero si tratta di sperimentare quello stato, il che avviene per “grazia” o, letteralmente, “gratis”, cioè senza fatica e non pagando alcun prezzo.
La connotazione esterna dell’istante “transumano” (un istante che è un processo, un salto indefinito, un’infinitudine: è “transumanar”), come se si trattasse di qualche traguardo o un parossismo dell’esotico, si dà appunto per la qualificazione fondamentale dell’atto linguistico, che “mima” un esterno, si costituisce rispetto a un esterno che bisogna sigificare, come se il soggetto che recepisce il senso del linguaggio fosse distinto da una oggettualità assolutamente distante, assolutamente altra.
Il linguaggio è una qualificazione della separatezza come atto che avviene nella qualificazione della coscienza.
Poiché tutto quanto riguarda quell’atto di riconoscimento, cioè

ecco

non è quell’atto: lo “riguarda”, cioè lo percepisce come esterno o altro, lo indica, c’è una distanza che separa chi guarda da quello che è guardato.
Quell’avverbio “ecco” è la coscienza.

Che genere di esperienza è la coscienza? Se è esperienza, per quella forma limitata e limitante, che cioè si qualifica attraverso una limitazione e appartiene a quel regno della limitazione detto “dualità”, deve esserci un soggetto che esperisce e un oggetto esperito: due polarità che, come si è visto, entrano in un rapporto tensivo, in questo caso l’esperire stesso.
E’ un’esperienza particolare quella di coscienza, in questo caso che si dice coscienza, quanto all’umano, in quel microtratto temporale al risveglio dal sonno. E’ un’esperienza in cui il soggetto stesso dell’esperienza è l’oggetto dell’esperire. Soltanto attraverso una esteriorizzazione da quell’identità di sentimento tra soggetto e oggetto, nel senso che si sente indefinitamente se stessi senza che il se stessi possa venire oggettualizzato, è possibile parlare di riflesso di coscienza, come se la coscienza si riflettesse su se stessa, riflettesse su se stessa, riflettesse se stessa.
La coscienza in realtà non riflette, ma all’interno della coscienza sembrano formarsi dei riflessi di coscienza.
Bisogna infatti considerare che cosa stia accadendo nel momento preciso in cui accade che si sente di essere, in quel risveglio dal sonno: chi si accorge che è?
Le risposte a questa domanda sono i costituenti la radice stessa della separatezza tra saperi (e pratiche che da quei saperi derivano) e metafisica (che non è un sapere definito nel senso dialettico dei saperi e che non si identifica in alcuna pratica nel senso tecnico, cioè anche macchinico, del termine). Da un lato parte infatti una riflessione su questa “persona” che si accorge di essere, sia pure di essere indefinitamente e in modo privo di qualificazioni. Dentro questo sentimento di essere accade una riflessione. Ciò è proprio del fenomeno umano. Lo sviluppo delle qualità riflessive del fenomeno umano passa attraverso questa separatezza, anche se i saperi tendono in seguito a sconfessarla (un esempio fra molti: il “campo” e l’”osservatore” e l’”indeterminazione” in fisica quantistica).
D’altro canto si può invece stare nello stato identitario di quella coincidenza tra soggetto e oggetto che è l’esperienza di coscienza.
Questo stare è empirico, ma si tratta di un empirismo del tutto particolare. Lo stare nell’esperienza di coscienza è un’esperienza di coscienza. Ogni “momento” è la stessa esperienza del “momento” precedente. La memoria cerca di separare e classificare momento da momento, ma concretamente, lì, nell’esperienza di coscienza, non c’è un susseguirsi di momenti, non si ha in mente nemmeno la successione temporale e ciò perché la coscienza non è psichica, non è memoriale, non è temporale. “Stare nel momento coscienziale” si traduce, per la mente pensativa, in una permanenza temporale in una determinata esperienza. Sembrerebbe dunque un’esperienza temporale e invece non lo è.
Questo stare naturalmente nell’esperienza coscienziale è lo stare della naturalezza: non è dato alcuno stare, se non nella coscienza. Per stare, bisogna essere. Essere significa: sentire di essere, avvertire concretamente la pura e non qualificata sensazione di essere. Essere presenti a questa sensazione di essere non è alcun presente, nel senso che lì, molto praticamente, in quell’esperienza specifica che è lo stare in quell’esperienza di pura sensazione di esserci, non c’è un passato e un futuro da cui desumere eventualmente un presente. C’è soltanto un’attualità, sempre uguale, sempre sperimentabile come uguale, sempre la stessa esperienza di essere, sempre quella, che si sia bambini o adulti, in una forma umana o in un’altra: le qualificazioni personali, che sembrerebbero caratterizzare l’individuo, cioè storia o psicologia o posizione nello spazio o età o genere o fisionomia (e così per indefinite qualificazioni), non sono pertinenti o adeguate al sentimento di essere: lì, nella sensazione di esserci, non esistono tali qualificazioni, non le si ha presenti.

Una prova empirica e simbolica al tempo stesso è sufficiente per essere persuasivi su questo punto. Si immagini quando si avevano otto anni, poi quando si avevano dodici anni, sedici, ventidue, trentaquattro: si era persone diverse, ma quanto alla sensazione di essere? E’ mutata nel tempo? E’ incrementata, decrementata? Si è complicata o semplificata? Semplicemente sentire di essere: è una forza sempre identica, un’esperienza continua.

Che accada di essere questa indifferenziazione, cioè di accorgersi di essere senza altro aggiungere, e che tale percezione possa essere raccolta dal fenomeno umano come una perdita di individuazioni e identità, è contraddittorio al fatto che proprio in questo semplice sentire di essere risieda l’autentica identità.
Ciò che viene ritenuto usualmente identitario (“sono questo corpo, sono questa psicologia, sono fatto in questo modo, queste sono le mie qualità”) è una determinazione umana contraddittoria alla propria reale natura identitaria, che è la sensazione semplice di essere: ed è identitaria in quanto è l’unico elemento che continua a essere identico a se stesso nel corso di una vita. Si scambia per identità una falsa aggregazione di finte identità.
Ciò accade in quanto, per il fenomeno umano in sede riflessiva, cioè pienamente pensativa e interpretativa della sensazione di essere, tale semplice sensazione di essere viene tradotta culturalmente come perdita delle particolarità psichiche, e quindi dell’identità.
L’identità di cui si parla, in seduta psicoterapeutica tanto quanto in sede filosofica, sarebbe un insieme configurato di qualità, assolutamente non presenti nell’atto della semplice appercezione della sensazione di essere, la quale sarebbe una funzione non identitaria.
La coscienza non è una funzione psichica: è la psiche a essere una funzione coscienziale.
Questa misinterpretazione, questa autentica inversione concreta dell’identità alla luce della naturalezza del fenomeno umano che si dice “io”, questa inesperienza della dualità che viene contrapposta come assenza d’identità all’esperienza più qualificata e particolareggiata dal punto di vista psichico: ecco il momento preciso in cui si disallinea l’attività neutrale e indifferenziata e concreta della coscienza dall’attività soggettivamente qualificata e concreta della psiche.
In realtà le cose sono intuite e dispiegate con precisione dalla psiche: nell’attività di coscienza non esiste alcuna differenziazione psichica o psicologica.
Fatta salva l’intensità (una sorta di qualità e di quantità) del sentimento puro di essere, non esiste una differenza sostanziale (in termini assoluti di qualità) tra il sentire di essere che appercepisce svegliandosi un individuo umano e quello che avverte un altro individuo umano.
Nell’istante coscienziale è abolita la psiche.

Nell’istante coscienziale si è una cosa sola: io e un altro siamo questa cosa unica, coincidiamo in essa, essa non è più mia che di altri, è davvero la stessa unica cosa.

Concretamente non c’è un profilo psichico del sentimento di essere. Qualunque profilazione psichica o fisica o di altro ordine qualificato avviene “all’interno” del sentimento di essere.
Si manifesta in questo punto, nel disallineamento che la psiche opera rispetto alla coscienza, la radice metafisica della questione coscienziale: se non sento di essere, non sono: non sono in senso assoluto e, dunque, non sono psiche.
E ciò vale non soltanto per l’estensione psichica, ma anche per l’estensione temporale: in ogni momento si percepisca semplicemente di essere, si avverte la medesima indifferenziazione: si è, semplicemente. L’istante coscienziale non è nel tempo.
E’ in ragione della temporalità e delle qualificazioni che sono inerenti al fenomeno psichico umano che tempo e qualificazioni psichiche si avvertono come esistenti. Nell’”istante” della coscienza (un istante dilatabile quantitativamente solo se confrontato con la temporalità della psiche) non esistono tempo o qualificazioni psichiche.
E’ pura e nuda coscienza la sensazione di essere inqualificatamente, che concretamente si avverte al risveglio.
Nella sensazione di essere, che è coscienza, tutto quanto è qualificato per il fenomeno umano non è sentito, non è pensato: è di qua o di là da venire, si direbbe, se non fosse che dicendolo si è già fuori della semplicissima sensazione di presenza che è il sentimento di essere.
Da questo punto di vista, concretissimo, sentito e non saputo, esperito direttamente senza possibilità di discernere dove inizi un soggetto dell’esperienza e dove termini l’oggetto dell’esperienza, la coscienza è onnipervasiva: trascende le limitazioni che sono psichicamente definite come trascendente e permane al di là della qualificazione temporale che è definita come permanenza. Questo fatto avviene concretamente e non è un obbiettivo distinto dal sentire di essere in chi sente di essere e dopo pensa che quel fatto è altro da se stesso.
L’onnipervadenza del fatto coscienziale è di fatto l’unica persistenza continua e assoluta di cui il fenomeno umano disponga per dire, in stato psichico, che qualcosa è differente da altro.
La differenza avviene infatti per limitazione o, secondo altre metafore, per movimento o qualificazione.
Quando si percepiscono i differenti fenomeni interni (mondo psichico) o esterni (mondo oggettivo) come realmente esistenti, in base a quale esperienza non differente ci si appoggia per avere la percezione della differenza?
Stabile, indifferenziata, fin quando si è “in vita” identica a se stessa sempre, che non cresce e non diminuisce, perennemente evocabile attraverso un atto semplice, onnipervasiva, è la coscienza in quanto sensazione puntale e semplice di essere.
Questa stabile onnipervasività è tale (stabile e onnipervasiva) per l’atto coscienziale percepito dal vivente fenomeno umano. La sua persistenza sempreguale è tale all’interno di qualunque atto di vita del fenomeno umano, psichicamente inteso.
Questa coscienza, concreta e sempre alla mano per il vivente che è il fenomeno umano, è atta a condizionare il lavoro psichico, in senso appunto coscienziale.

Questa sostanza è un fenomeno stabile per il vivente umano? Oppure essa muta? E muta anche la qualità della percezione che è istantanea nella sensazione di essere?
Si è fatto riferimento a un istante concreto, quello del risveglio dal sonno, per indicare l’intimità immediata ed effettivamente sperimentabile e sperimentata della coscienza. E tuttavia lo stato di sonno e lo stato di veglia sono qualificazioni e limitazioni e relatività della mente umana: sia della psiche sia del corpo sia di ciò che pare eccedere e psiche e corpo (si pensi all’attenzione ai fenomeni di sogno, che le psicologie esercitano in modo privilegiato).
Qualcosa di inqualificato accade in uno stato qualificato: e in altri stati qualificati? Questo stesso esperire il senso di essere si qualifica in altro modo in stati differenti? E quali sono gli stati differenti e generici a cui si potrebbe fare riferimento per il fenomeno umano, oltre la veglia e il sonno?
Sul piano della generalità, o universalità, quanti stati effettivamente sperimenta l’umano?
E’ necessaria un’ulteriore evocazione della prospettiva metafisica, per comprendere la prospettiva psichica in cui si inscrive il discorso sulla coscienza e rispondere alla domanda sugli stati qualificati che il fenomeno umano sperimenta.

Da “Io sono”: un capitolo sulla terapia psicologica della coscienza

61z+tODMNmLIl saggio Io sono (il Saggiatore) si concentra sulla domanda: cos’è la coscienza? Si dà un profilo storico e filosofico della questione, una descrizione di ordine pratico metafisico, un perimetro sulla coscienza per come è avvertita dal fenomeno umano, linee generali di una terapia psichica basata sull’attività semplice di coscienza e, infine, una lettura dell’apparizione del momento coscienziale in certi testi letterari (da Hölderlin, Kafka, Melville, Lovecraft, Burroughs e i tragici). Riproduco un capitolo dalla sezione che concerne la terapia, che è il momento concreto qualificante del testo: si cerca infatti di stabilire come è attuabile una psicoterapia a indirizzo coscienziale, a partire dall’etimologia e dalla sistematica metafisica.

Che cos’è la terapia

L’etimologia è una forma del sentire piacere, che pone il soggetto in stato di gioco: il soggetto gioca nella storia. Non essendo storica la coscienza, è possibile approfittare di questa condizione che è sentita come intimità e identità: la situazione ludica approntata dalla ricerca dell’etimo non permette soltanto di dire il significato, la cui enunciazione è un rapporto con l’esternalità, bensì di avvertire esperienzialmente il punto di perno in cui la possibilità di dire manca e non resta che sentire.
Terapia proviene dunque dal greco antico: therapeía, sostantivizzazione del verbo therapeuō.
Essa è sicuramente cura, nel senso più complesso e intenso (il prendersi cura di), ma segnala anche uno spostamento semantico che rimane implicito nel termine traslato. Significa anche servizio, rispetto, culto e assistenza alla deità. Questo slittamento è determinato dall’oggetto del servizio, ovvero la deità.
Il discorso platonico è estremamente esplicito su questo punto:

Socrate: Ma allora che specie di cura degli dèi sarebbe la santità?
Eutifrone: Quella cura, Socrate, che i servi hanno per i loro padroni.
Socrate: Capisco. Sarebbe all’incirca, da quel che comprendo, l’arte di servire agli dèi?

[1]

La deità è l’emblema testuale della pura coscienza personale, del sentimento d’essere, in questo caso. Non è un problema, si sa, di religiosità, per quanto concerne le dottrine platoniche: è invece una questione di orientamento metafisico, di prospettiva metafisica, cioè di pratica metafisica.
L’indicazione sulla pratica terapeutica è in questo caso inscritta in un percorso metafisico.
Il rapporto terapeutico tra se stessi e se stessi, cioè tra “io” e “paziente”, è un’adeguatezza per cui il rapporto è possibile: è la possibilità di unità. L’assolutamente altro, l’impercepito in quanto impercepibile, non contempla rapporto. Soltanto l’adeguatezza permette rapporto: la luce è adeguata alla percezione ottica del composto biologico umano – e viceversa.
Questa adeguatezza terapeutica si dice, quanto alla psiche, la quale è una struttura possibile della mente, con il termine empatia, sul quale bisognerà chiarirsi e ci si chiarirà, più avanti in questo testo.
Questo “stare all’altezza di”, questo rapporto che tiene presente il dato fondamentale dell’unità, questo consentire, nel caso della terapia, è qualificato come “servire”.
“Servire a” e “servire per” è un’etimologia che serve a chiarire l’aspetto più rilevante della qualificazione terapeutica, cioè la distinzione polarizzante tra soggetto che terapeutizza e oggetto terapeutizzato.
Nel rapporto terapeutico sembra essere il soggetto presumibilmente attivo ad assumere su di sé il portato semantico dell’etimo.
E’ dunque da indagare l’occorrenza del derivato theràpōn: il terapeuta è anzitutto il soggetto attivo della terapia, più che il soggetto che riceve la terapia stessa.
E’ nel greco evangelico che il theràpōn dispiega la sua più intensa e interpretabile significazione, laddove si legge:

Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo (theràpōn) ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.

[2]

Come deve accadere secondo il richiamo che la parabola esercita, questa occorrenza deve essere interpretata – ecco l’adeguato rapporto terapeutico che si esplica in sede testuale (o sottotestuale: la parabola è un sottotesto, così come il pensiero consapevole è un sottoprodotto della psiche).
Chi è il theràpōn che è qui servo? E’ colui che deve prendersi adeguatamente. Se si prescinde dal quadro di riferimento culturale, che in termini di psicologia evoca immediatamente le coppie dovere/colpa e proprietà/lavoro e censura/paura, esprimendosi in termini di legislazione e imposizione (il che è adeguato alla finitezza e alla natura dualistica del linguaggio stesso), bisognerà collocare le azioni e i ruoli di questa scena, che come tale è sempre intima e cioè è tragica poiché emerge nella coscienza, all’interno della potenza che qui si esprime e che qualifica la scena stessa con l’azione e i ruoli medesimi: tale potenza qualificante è l’adeguatezza, è l’adeguazione.
E’ precisamente ciò che nella metafisica scolastica diverrà il movimento unificante per analogizzare la linguificazione del mondo da parte del fenomeno umano: adaequatio rei et intellecti. Tale impiego è significativo.
Il theràpōn si adegua a una situazione: sta in un quadro di riferimento e compie ciò che il quadro di riferimento implica.
Appena il theràpōn soddisfa le esigenze adeguate al suo compito, egli è detto “servo inutile”. Ciò ha un duplice significato: il quadro di riferimento scompare, non è più effettivo; il theràpōn non è più tale. Il servo senza padrone e il padrone senza servo sono uguali: sono due persone libere. Essi sono unificati.
Sotto questa luce la terapia è un processo di unificazione in una scena a due, dove la scena stessa è il campo tensivo tra soggetto e oggetto, con l’azione di adeguatezza che conduce la scena stessa al collasso, o, come si dirà, all’azzeramento, cioè a una situazione inutile, laddove l’inutilità è la traccia in negativo dell’indifferenziazione stessa.
Questa situazione di adeguatezza unificante ha forse qualche riflesso se si considera la radice etimologica del verbo principale therapeuō, che viene identificata in questo modo:

THER-, THAR-, = sser. DHAR- tenere, sostenere (cfr Fermo) [3]

E’ qui evidenziato il legame etimologico tra theràpōn e servo.
E’ però effettuato un passo ulteriore. La determinazione della radice greca nel senso del “sostenere” fa richiamo al verbo greco ìstemi, da cui deriva “stato”.
Questo sostegno è uno stato. Il servire è relativo a uno stato. Il terapeutizzare è stare in uno stato.
Ciò che regge gli stati è la sostanza.
Sono qui esplicite le indicazioni di ordine metafisico a partire dal gioco testuale, cioè linguistico.
L’indagine etimologica scopre un ulteriore apparentamento, che fa luce sui rapporti tra lavoro psichico e lavoro coscienziale. E’ infatti recepita la radice DHAR- che è comune al sanscrito, ovverosia alla lingua in cui viene enunciata la prospettiva metafisica Advaita, che qui si è considerata quale momento espressivo per coniugare il lavoro coscienziale con l’orientamento nondualistico.
L’immediato riferimento che la radice DHAR-, o DHR-, esercita sull’espressione metafisica è il sostantivo sanscrito dharma, che viene quindi a essere connesso, per identità tanto quanto per analogia, con therapeía.
L’intensità semantica, e quindi storica e storico-linguistica, di questo sostantivo sanscrito è attestata dalle sue occorrenze in testi metafisici, sacri e di operatività psicologica.
L’etimologia del sostantivo dharma deriva dalla radice verbale DHAR- o DHR, che ha il significato di sostenere, trattenere, rendere stabile.
Dharma è dunque “ciò che è stabile”, lo statuto e lo statuito nella loro unità indifferenziata, e può essere inteso in modo polivalente, quale fondamento che si esprime nell’ordine sociale o in quello morale. Più precisamente, dharma è anche la conformità con la norma, cioè l’adeguatezza nel senso della sintonia e dell’accordo con la natura inqualificata o qualificata delle cose.
La posizione dharmica è conseguentemente espressione di uno stato devozionale che non ha nulla dell’inquinamento emotivo che si è soliti attribuire alla devozione: è un accordo di nota, è un’armonia, la statuizione dell’adeguatezza d’onda.
Per quanto concerne la significazione spirituale del termine dharma, “cammino” e “dovere” risultano accezioni frequenti, laddove il “cammino” è il sentiero che sostiene e costituisce il supporto, cioè la base stabile sulla quale ci si muove.
Alla radice della terapia è il movimento di unificazione che adegua l’accordo tra due distinti, producendo uno stato più inqualificato di quello in cui appariva assolutamente reale la distinzione.
Un’occorrenza del termine theràpōn, decisiva per il discorso sulla terapia qui in discussione, restituisce senso a questo movimento che si sussume in uno stato sempre meno inqualificato rispetto a quello in cui si è identificati.
L’occorrenza in questione determina la struttura stessa, se così si può dire, della dinamica del processo terapeutico coscienziale – cioè mosso dalla e verso la coscienza, per sintesi dal dualismo psichico, velante e identificante.
Si tratta dell’origine stessa della testualità testuale occidentale. E’ il mito di Orfeo, determinato quale theràpōn.
E’ il momento in cui il mito si qualifica in tragedia, assumendo la qualificazione tragica del mito stesso. Questo passaggio, osservato nel suo momento di ritorno, è oggetto di discussione in un capitolo a parte di questo testo.
L’andamento del mito orfico è emblematicamente il movimento stesso dei passaggi e dei “salti” in una terapia mossa dall’autoriconoscimento coscienziale.
Orfeo è detto theràpōn di Dioniso. [4]
In questo caso è theràpōn colui che è emblema e rappresentante del dio: lo qualifica nel rito che è il reale a uno stato di manifestazione più fenomenica e individuata di quella natura in cui vive il dio. Il rito è la carnificazione dell’inqualificato, il quale a sua volta è una determinazione dell’inqualificata unità, che è la coscienza pura.
E’ evidente che ci si muove qui in un duplice senso della testualità: il testo assoluto come prospettiva sulla dualità (la possibilità di leggere, cioè percepire, la dualità, in modo da autoveicolarsi in stati riassuntivi della dualità); e il testo che è fabula del mito orfico.
Sono da considerarsi effettivi, in quanto strutture veicolari verso stati di coscienza meno qualificati dello stato psichico, due miti che concernono il mito superiore: due momenti coscienziali del mito orfico.
Il primo e più facilmente leggibile, nel senso dell’interpretazione dialettica della mente separativa che è la psiche a matrice testuale, è ciò che accade alla fine del mito orfico, ovvero lo smembramento di Orfeo. Qui si ripete efficacemente il movimento di Dioniso sub specie di Zagreo: così come il dio viene fatto a pezzi per rinascere, sperimentando una “passione” che in molti esegeti hanno sottolineato nelle similitudini con quella cristica, ecco che Orfeo incarna il dio stesso ripetendo la struttura del processo di rinascita, attraversando la notte oscura.
Tale notte oscura rappresenta il “salto” tra stati ontologici diversi, il quale è avvertito effettivamente come nero.
La substantia nigra è la sperimentazione psichica delle fasi che preparano a un salto coscienziale.
Il terapeutizzato, tanto quanto il theràpōn, sperimenta l’identificazione psichica come distruzione della falsa identità: come smembramento.
Vivendo questa fase temporale la coscienza si autoriconosce come atto presente inqualificato.
Non è evidentemente qui l’orfismo che interessa, quanto la struttura stessa del mito, che è possibile metabolizzare interiormente, rendendola efficace in quanto esperienza reale. Il mito propone una struttura dinamica realizzabile interiormente. La ripetizione della struttura mitica, effettuata interiormente, non è una ripetizione che si limita a un’orizzonatlità: non ci si muove nello stesso stato ontologico in cui ci si trova nel momento in cui si conosce intellettivamente il mito. La struttura mitica è un fattore esperienziale che veicola in stati meno qualificati di quello in cui la fabula appare ed è leggibile, ascoltabile, percepibile.
Questo passaggio è il movimento della cosiddetta guarigione: è il movimento alla guarigione.
Il secondo momento qualificante del mito orfico è costituito da ciò che si dice: “discesa agli inferi”. Orfeo discende a recuperare Euridice. Ciò significa: una parte che è fuori dagli inferi discende nel buio perturbante per recuperare un’altra parte di sé che non è naturale che stia lì. Si tratta di recuperare un riflesso psichico che si trova in un fondaco oscuro. Ciò implica l’esperienza che si qualifica in due stati individuati, cioè due movimenti che si interpenetrano nel momento in cui ci si rapporta al fondo perturbante: la “discesa” e la “tenebra”. E’ questa avventura, cioè questa esperienza effettiva, che la psiche è costretta a compiere per adempiere all’opera di reintegro.
L’opera di reintegro coscienziale è effettuata dalla psiche come propria “opera al nero”, per utilizzare un termine iniziatico che, in quanto tale, è anche psichico.
Si scioglie una componente di sé dalla tenebra: la si riporta alla luce, dove avviene l’unificazione amorosa.
In questa unificazione si dà lo stato luminoso, non buio, in cui la dualità viene trascesa dalla psiche.
Vengono indicate [5] due varianti del mito che illuminano l’operazione di riattivazione di una parte di sé che sembra morta, dimorante nella tenebra.
La prima variante: Orfeo deve discendere nel regno tenebroso e, con le sue arti, convincere gli dèi a rilasciare Euridice, per riportarla alla luce. Lo fa e non riesce.
La seconda variante: Orfeo discende agli inferi e le deità comprendono che egli non riuscirà nell’opera, quindi proiettano un fantasma che ha forma di Euridice, ma non è lei. Orfeo sbaglia.
Vengono qui indicate tre condizioni psichiche.
La prima è l’opera effettiva di risoluzione dell’identificazione psichica, che ha da essere riportata in uno stato in cui non c’è alcuna identificazione, poiché c’è soltanto identità, cioè unità. Questo processo di unificazione, se fallisce nonostante le qualificazioni della psiche, che la rendono adatta a tale operazione, introduce a una situazione di lutto alla luce e di smembramento, come da momento di processo coscienziale sopra esaminato. Questo lutto alla luce indica uno stadio successivo nell’ordine delle esperienze coscienziali: si passa a quella che potrebbe definirsi, con ardita analogia, “opera al bianco” della psiche. E’ uno stato di mezzo che segue alla nigredo psichica: la psiche, avendo fatto esperienza non stabilizzata della sua identità coscienziale, prova un lutto, una mancanza, che si risolve con il processo a cui è sottoposto Orfeo in quanto theràpōn del dio: lutto, ascesa sulla vetta, rapporto con il minerale e il vegetativo e l’animale, canto ininterrotto, smembramento, rinascita. Questo percorso indica fasi di realizzazione coscienziale effettiva da parte della psiche. E’ importante comprendere che il momento infero non è lo smembramento, secondo testualità letterale.
La seconda condizione psichica che viene indicata dalle varianti del mito è quella in cui consiste la difficoltà più formale e concreta del lavoro psichico orientato dalla sensazione pura di coscienza: il soggetto ritiene di compiere un’opera che non sta realizzando, poiché la zona tenebrosa rimanda una proiezione che acconta la psiche, cioè una più sottile e insidiosa proiezione con cui essa si identifica. E’ in questo momento psichico che si dà la necessità di una disidentificazione altrettanto sottile quanto il fantasma che viene proiettato dalla zona oscura. In questo benessere temporaneo che la psiche prova, essendo convinta di compiere la propria “opera al nero”, si annida un dolore più radicale per la psiche stessa. E’ come se la psiche si sentisse “alla luce” non essendolo. L’intervento disidentificante, in questo segmento del lavoro coscienziale, richiede un’intensità pericolosa. Serve cioè una qualificazione psichica, per adire a un’opera di sussunzione nell’esperienza di pura coscienza: il soggetto psichico non può essere fratturato in senso strutturale. Il soggetto psicotico, se iniziasse questo movimento di discesa e recupero, deflagrerebbe, per esempio. E’ normativo assicurarsi che il soggetto che intraprende una terapia coscienziale sia in un range di coerenza, cioè di identificazione stabile e di costanza della richiesta implicita di disidentificarsi, che il terapeuta coglie come previo motorie dell’intero lavoro coscienziale.
C’è infine una terza condizione, che viene indicata dalle due varianti del mito orfico. E’ estremamente penosa per il sentimento di disagio psichico che ne sortisce. Accade che, nonostante le qualificazioni per compiere il movimento di discesa mirato al recupero, se non dell’identificazione in genere, di un’identificazione in particolare, tale opera fallisca, poiché il campo psichico non è di fatto ancora “pulito”, rischiarato a sufficienza. E’ un momento che accade sempre, in qualunque terapia. Trascina il theràpōn verso il rischio di identificazione con il soggetto terapeutizzato. Dal punto di vista iniziatico, questo rischio di fallimento nella discesa e nel reintegro è una “caduta” ulteriore. Ciò viene enunciato in termini di “purificazione” nel gergo platonico:

Questa emigrazione, che è ordinata ora a me, non è senza dolce speranza anche per chiunque altro il quale pensi di essersi a ciò preparato lo spirito come con una purificazione. […] E purificazione non è dunque, come già fu detto nella parola antica, adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene?

[6]

E’ un passo emblematico, per analogia sostanziale, e funzionale rispetto a qualunque terapia in genere, e nello specifico rispetto a una terapia che sia orientata all’esperienza della coscienza quale sentimento puro d’essere, verso cui si muove la psiche nelle sue richieste di autotrascendimento, intese come bene psichico.
Il passo va reinterpretato, sotto questo risguardo, ricollocando la semantica, che non è altro che una solidificazione e una determinazione di grado più formale e individuato, rispetto all’istruzione platonica.
Si leggerà dunque così: questo movimento di discesa e reintegro della psiche duale in esperienza unificante e inqualificata della coscienza come puro sentimento di essere, che è una morte apparente della psiche in quanto muore il sentimento della dualità, e che io sono costretto a fare, non è privo di dolcezza (ānanda) come base stabile di ciò che vado a esperire, e ciò per chiunque abbia a sufficienza rischiarato il campo psichico, ottenendo solide qualificazioni per compiere quest’opera. […] E tale rischiaramento del campo psichico è, come su altri livelli di esperienza interiore, un’adeguatezza del movimento tra identificazione psichica e sentimento puro d’essere, laddove la psiche riesce a “stare” nel sentimento pulito di se stessa, in un raccoglimento intenso del sentirsi coscienza individuata, che nulla ha a che vedere con i coaguli psichici che danno una forma apparentemente identitaria alla psiche, cioè un’identità psicologica all’individuo. Sentendo la sostanza inqualificata che fa la psiche, la quale sostanza è il sentimento d’essere, il tempo cronologico e psichico, cioè emotivo e cognitivo e somatico, non è presente: è un nunc stans. E’ da qui che la psiche si disidentifica in modo definitivo dalla configurazione che la costringe a provare disagio, in quanto non è pertinente alla sua propria natura.

La terapia è un movimento di due che si fanno prima unità e poi zero.
La terapia coscienziale è una terapia. Significa che la psiche chiede di accedere alla possibilità di sperimentarsi in momenti di unità, avvertendosi come sentimento della coscienza pura, ovvero semplice sentimento di esserci, priva di qualificazioni; e questo è preparatorio a una risoluzione del complesso psichico, il che significa trascendimento dimentico del dolore psichico che è il motore della domanda di terapia da parte della psiche medesima.

[1] Platone, Eutifrone, 13d
[2] Vangelo di Luca, 17-7
[3] Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua Italiana, 1907
[4] Gregory Nagy, The Best of the Achaeans – Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry, The John Hopkins University Press,1979
[5] Raphael,Orfismo e Tradizione iniziatica, Edizioni Āśram Vidyā, 1985
[6] Platone, Fedone, 67 b

“Io sono”: cover in progress

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La copertina del saggio “Io sono” sta mutando (non è definitiva, ma questo espediente della finestra sul disegno “magico” dell’alchimista elisabettiano Robert Fludd mi piace tantissimo. Per chi fosse interessato alla natura del saggio, dove si tratteggia la possibilità di una terapia psichica e una teoria testuale a orientamento metafisico, ecco la scheda editoriale: http://bit.ly/1ARlep0).

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“Io sono” alle bozze

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Il saggio saggiatoriano “Io sono” procede bene: spedito e irto di congiunzioni astrali, di notifiche e ceneri che si sfaldano nella grand’aria del ricordare dentro il ricordare. L’umano fu montagna dentro la razza della montagna: si figurava, balbettava, singultava in conati. Le chiamava: parole. Sono pronte le bozze, dunque, e si comincia a correggerle: ora. Le cosiddette “sudate carte” ammontano a un totale di 327 pagine. La polizia interiore è allertata, è in vigore la norma, lo spasmo di attenzione. Rimastichi te stesso, è l’unica occasione in cui hai il monopolio della risposta all’interrogazione imperativa: “Conosci te stesso”. La scrittura è decrittazione, dura opera, camera di compensazione. Ogni invenzione è maturata prima di questo e mostra qui ora il suo sfacelo, la sua putredine proclamata. L’inizio era dunque la fine. I giorni natalizi, accartocciati, preparano sempre l’olocausto pasquale. Si procede autoptici. Si ha a che fare con se stessi per via chirurgica, emendativa. Non si finisce di finire. La conclusione è un baratro, una meiosi. Saltano i diaframmi, i filtri si scuotono. L’interiorità è sempre aliena, in qualche modo. Scosse, banalità del genere facevano un tempo ciò che fu un libro. Stiamo scrivendo sull’ornamento di una sconfitta protratta, che il tempo commina a se stesso, essendosi imbarcato nel fenomeno umano, questa disdetta. Ma tu inforca le lenti maculate di polvere e grasso di pelle, supera l’impronta dell’indice che ha aderito alla superficie neutra, segnandola, e rettifica il tutto: sembrerà che tu spenga il fuoco, quando lo stai accendendo. Fissa quel fuoco nella combustione delle pagine.

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Lavorando su “Io sono”, saggio di terapia della coscienza

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Dopo tanto studio, anzi più pensamento che studio, anzi più silenzio che pensamento, inizio la stesura effettiva del saggio. E’ un lavoro che, a partire da certe esperienze di ordine metafisico, impegna psicologia, clinica, neuroscienze e filosofia. Si intitola “Io sono – La terapia della coscienza” e sarà edito da il Saggiatore nella primavera 2015. Non so se riuscirò a rispettare la consegna a fine giugno e, quindi, l’uscita in libreria, che è prevista per ottobre. Tutt’al più si esce a gennaio. Si tratta in assoluto del mio libro più difficoltoso. Questa è la scheda per il copertinario destinato ai librai e vale come quarta di copertina:
«Uno spettro si aggira per l’occidente: è l’attività della coscienza, che sfugge da sempre ai tentativi di definizione da parte della fisica e delle discipline psicologiche o neuroscientifiche. E mentre sembra entrata in crisi la teoria e la pratica della terapia interiore, sempre più schiacciata dal predominio della cura farmacologica e dall’esplosione in una miriade di discipline specialistiche, termini come “consapevolezza”, “presenza”, “attenzione” – tutti legati alla costellazione della coscienza – stanno orientando profondamente teorici e operatori della psiche. Partendo dalla centralità del “fenomeno coscienza”, questo saggio avanza una proposta, anche clinica, che ridefinisce l’idea stessa di terapia e di spazio psichico, con i suoi nodi, le sue emanazioni, le sue latenze. Trauma, sintomo, tragedia, conflitto, simbolo e sé vengono interpretati alla luce della tradizione metafisica, che è anzitutto una pratica interiore della coscienza, un processo di guarigione e di evoluzione, una sintesi operativa. Attorno al minimo comune denominatore della “sensazione di essere” vengono a incontrarsi il Vedanta, Platone, il De anima di Aristotele, Freud, Bion, , Winnicott, le più recenti conquiste delle neuroscienze e la “psicoterapia senza l’io” di Epstein. Illuminate dalla prospettiva di una “metafisica terapeutica”, Kafka, Melville, Burroughs, Lovecraft e il loro personaggi letterari diventano figure di una pratica “coscienziale e realizzativa”, che unifica e va oltre l’illusione dell’io e della sua legione di forme in conflitto tra loro.»

Prodromi a “Io sono”

La copertina provvisoria di "Io sono" di Giuseppe Genna
La copertina provvisoria di “Io sono” di Giuseppe Genna

Purtroppo non ce la faccio a terminare in tempo la stesura del testo saggistico “Io sono – La terapia della coscienza” (il Saggiatore), dove tento una scalata in un àmbito che frequento da tanti anni e che potrei definire “neopsicologico” – un ossimoro a cui mi costringe l’ambiente e il momento storico, poiché si tratta di esplorare le possibilità terapeutiche di una psicologia metafisica, una clinica e una prassi che oggi in territorio occidentale sembrano non avere diritto d’asilo. C’è una sezione dedicata all’interpretazione della testualità (e in particolare di certa testualità narrativa), che è terminata e pronta per la pubblicazione (Melville, Kafka, Lovecraft, Burroughs, DeLillo come produttori di “buchi bianchi” e non di personaggi e trame), c’è in corso di lavorazione la sezione sulla “religione del trauma” e l’interpretazione del dato metafisico in Freud e Bion e Winnicott e Lacan. Infine c’è totalmente da lavorare il passo introduttivo, che è un lavoro umiliante, poiché devo abbandonare i saperi e risulto, in maniera per me impressionante, un estensore di bigino impressionistico che dice cosa sarebbero il nondualismo e l’occidente: andrebbero stesi diciotto volumi di canone filosofico, storiografico, antropologico, psicologico, neuroscientifico – ma non avrebbe senso alcuno. Si deve andare in una zona dove anzitutto ci si spoglia delle spoglie e, quindi, si risulta imbarazzati, essendo nudi, il che è un’antica malattia dell’età adulta. Lo studio è terminato, il perimetro è completato, manca soltanto la stesura, però la data di consegna del 2 luglio proprio non riesco a rispettarla (è la prima volta nella vita che non rispetto la data di consegna). Per interessate o interessati a questo lavoro, ripubblico il testo dell’aletta: «Uno spettro si aggira per l’occidente: è l’attività della coscienza, che sfugge da sempre ai tentativi di definizione da parte della fisica e delle discipline psicologiche o neuroscientifiche. E mentre sembra entrata in crisi la teoria e la pratica della terapia interiore, sempre più schiacciata dal predominio della cura farmacologica e dall’esplosione in una miriade di pratiche specialistiche, termini come “consapevolezza”, “presenza”, “attenzione” – tutti legati alla costellazione della coscienza – stanno orientando profondamente teorici e operatori della psiche. Partendo dalla centralità del “fenomeno coscienza”, questo saggio avanza una proposta, anche clinica, che ridefinisce l’idea stessa di terapia e di spazio psichico, con i suoi nodi, le sue emanazioni, le sue latenze. Trauma, sintomo, tragedia, conflitto, simbolo e sé vengono interpretati alla luce della tradizione metafisica, che è anzitutto una pratica interiore della coscienza, un processo di guarigione e di evoluzione, una sintesi operativa. Attorno al minimo comune denominatore della “sensazione di essere” vengono a incontrarsi il Vedanta, Platone, il “De anima” di Aristotele, Freud, Bion, , Winnicott, le più recenti conquiste delle neuroscienze e la “psicoterapia senza l’io” di Epstein. Illuminate dalla prospettiva di una “metafisica terapeutica”, Kafka, Melville, Burroughs, Lovecraft e il loro personaggi letterari diventano figure di una pratica “coscienziale e realizzativa”, che unifica e va oltre l’illusione dell’io e della sua legione di forme in conflitto tra loro.»