La cuspide del romanzo

Detto che il romanzo procede secondo metope, che è un romanzo naturalista nel senso che è sperimentale senza che sia semplice accorgersi a quale sperimentalità si alluda, che è sua intenzione svuotare un antimito riportando il disumano all’umano – c’è ancora qualcosa da dire, mentre il libro va facendosi. Ed è la cuspide.
La cuspide del romanzo coincide col buco nero del medesimo: è il momento in cui lo zero esprime la sua massima irradiazione – ed è l’orrore in terra. E’ la genesi del mito dell’antimito ed è un terreno in cui si rischia l’oscenità, perché lo zero irradia il Male e il Male divora la carne e intacca lo spirito. Esistono metodiche retoriche che possono slogare a tal punto la retorica da non permetterle la visione, per impedire all’oscenità ogni appiglio giustificatorio al Male, e tuttavia, rappresentare in cecità quello che, per un pudore direi addirittura metafisico oltre che carnale ed emotivo, non si deve rappresentare? Lo standard salta, qui. E’ un territorio dove si è ciechi e bisogna saperlo essere: Omero ha una delle sue fantasiose etimologie in “ò mé oròn”, colui che non vede: il cieco.
Nelle tenebre, barlumi.
Si suppone che l’attività onirica del feto sia costituita da barlumi in tenebra. Il modello, in questo caso e adifferenza di tutto quanto accade al soggetto che agisce nel romanzo, può essere solo quello tragico. Un tragico talmente vicino all’origine da risultare una forma di scrittura semplicemente veicolata dallo scrittore che sta scrivendo, il quale assembla bagliori e tenebre. Il modello esplicito, per la cuspide del romanzo, scena e non-scena che risulterà dieci volte più lunga delle altre, è quindi per me Eschilo, quello che Hugo definisce “uomo oceano”. La sua arcaicità non è bella e infatti la cuspide allude a un superamento del bello e del brutto, un’uscita dalle nuvole estetiche: si ricerca qui una retorica della necessità.
x2.jpgScrivere la cuspide del romanzo è stata un’opera di devastazione personale e, spero, lo sarà per chi leggerà il libro. E’ il contatto col tremendo. E’ l’umano nella sua totalità, nel suo annullamento, nella sua persistenza di fronte al Mysterium Iniquitatis. Il grido che si alza è corale e scomposto: slogato, appunto, come il grido del Prometeo incatenato di Eschilo, che non è lirica: è noi tutti, la sofferenza che comprime lo stampo umano, e che si ritrova, perfettamente intatta, a millenni di distanza, in Burroughs. Il modello sono questi versi iniziali, che si tengono insieme nonostante ognuno sia un pezzo staccato, una metopa dentro la metopa accanto ad altre metope:
“O aria lucente, o scatto alato dei venti, e voi, vene dei fiumi; mare, sconfinata vicenda di creste ridenti, e tu, maestosa genitrice, terra, e tu, cosmico occhio, cerchio del sole, io vi chiamo: vedete quanto patire, io, dio, per mano di dèi!
Inorridite al mio strazio
– in polvere, cado – alla mia agonia
destinata a durare millenni.
Tanta è l’infamia che il recente Conquistatore
del cielo ha scovato per serrarmi!
Aaah, io singhiozzo sui dolori che soffro
e sugli altri, pronti all’assalto.
Sarà destino, un tempo, che albeggi
il termine del mio soffrire?”


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