La Stampa sul Dies Irae

176.jpgSu La Stampa, il prestigioso storico Giuseppe Berta affronta il Dies Irae di Genna, in parallelo con l’ultimo libro di Bruno Arpaia: "La storia che proietta il racconto di Genna è trasfigurata e alterata, come se la si seguisse attraverso il velo e la mediazione degli allucinogeni e di psicofarmaci assunti senza controllo".

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Due libri rivisitano il nostro passato recente, con una capacita’ di svelarne il senso originale e diversa da quella degli storici di professione
• DAGLI ANNI DI PIOMBO A VERMICINO LA STORIA È ROMANZO
di GIUSEPPE BERTA

Non succede spesso di imbattersi in un romanzo – per di più in un romanzo di 500 pagine – che si conclude con una bibliografia comprendente decine di titoli di libri di storia e con una cronologia dettagliata che prende altre 15 pagine.


Può capitare a volte con un romanzo storico, quando si rifà a periodi e luoghi lontani dalla nostra esperienza diretta. arpaia.jpgMa col libro di Bruno Arpaia (Il passato davanti a noi, Guanda, pp. 507 pagine, e17) fino a che punto possiamo dire di trovarci dinanzi a un romanzo storico? Di primo acchito, il suo parrebbe piuttosto un romanzo di formazione, che racconta come un gruppo di ragazzi della provincia napoletana scopra la politica negli anni 70 e partecipi alle sue vicende da una prospettiva che mescola la dimensione della storia a quella della crescita e del progressivo ingresso nel mondo, recando impresso il timbro di un’educazione ideologica, quella che avveniva entro i movimenti della contestazione.
Ma il lettore che si addentra nelle pagine di Arpaia ha ben presto la sensazione di muoversi all’interno di un racconto che ambisce a misurarsi fino in fondo con i problemi della storia dell’Italia contemporanea. Non soltanto per la precisione meticolosa dei riferimenti: ogni passo del libro rimanda infatti a un momento ben definito, che richiama senza incertezze fasi e passaggi della storia politica del decennio Settanta. Basta considerare come Arpaia riporta alla memoria il modo in cui la società, nelle aree metropolitane come in quelle periferiche, visse la crisi petrolifera dopo la guerra del Kippur; con le trasmissioni televisive che finivano alle 11 di sera e il rivoluzionamento dell’orario dei cinema, col blocco delle auto e il ripristino, guidato talora da un gusto dell’anacronismo che suonava paradossale, di mezzi di trasporto desueti come i carri a cavallo e i calessini. Non c’è snodo significativo del libro che non rinvii a una data, a un evento, a un’elaborazione politica e a uno slogan. Così il settembre cileno del 1973, che è il punto d’avvio anche della storia di gruppo di Arpaia, rivive sia attraverso i canti degli Inti Illimani cari alla sinistra d’allora, sia mediante il timore diffuso e un po’ paranoico di un golpe sempre in agguato, scandito dalle parole dosate dell’interminabile articolo con cui Enrico Berlinguer, dalle colonne di Rinascita, annunciava la nuova politica comunista del «compromesso storico».
Gli adolescenti descritti da Arpaia, insieme con i loro compagni più grandi, che li guidano e talvolta un po’ li spingono nell’avventura della politica, sembrano volersi calare fino in fondo nella realtà del tempo in cui vivono, fino a farsene attraversare completamente. Nella loro esperienza si avverte un’ansia di partecipazione che è dettata dall’irruzione della storia nelle loro vite e le domina e ne condiziona la relazione del mondo esterno, rimodellata secondo i canoni dell’ideologia e del suo adattamento alle loro esistenze particolari. Per questo, il libro di Arpaia (che aveva già giocato la sfida col passato e la sua interpretazione con Angelo della storia, il racconto dell’esilio estremo di Walter Benjamin fino alla morte sul confine fra Spagna e Francia, all’indomani dell’invasione nazista del 1940), se non è romanzo storico, è però un romanzo che affronta di petto la storia contemporanea, per farne emergere un senso che non è soltanto quello che ne traggono le analisi degli studiosi di mestiere.

gennastampa.jpgDi tutt’altra tonalità è l’impasto storico che realizza l’ambiziosissimo Dies Irae (Rizzoli 24/7, pp. 761, euro 17.50) di Giuseppe Genna, per il quale il risvolto di copertina, non senza temerarietà, suggerisce il parallelo con quel monumento della narrativa post-moderna che è l’Underworld di DeLillo. Con la storia Genna si cimenta da sempre, fino a proporre una sua visione stravolta e allucinata del nostro tempo che ha forse trovato il risultato migliore in uno dei più originali thriller italiani, Nel nome di Ishmael (2002), in cui, accanto a uno dei più grandi misteri italiani, la morte tragica di Mattei nell’ottobre 1962, si dipingeva uno scenario animato perfino da una figura come Henry Kissinger, deformato in una sorta di maschera del potere. Dies Irae si apre, invece che su un avvenimento della storia politica, su un momento-simbolo della storia mediatica: la fine terribile di Alfredino Rampi, il bambino soffocato in un pozzo di Vermicino, la cui agonia fu seguita attimo per attimo dalla tv. Ma nel libro di Genna la storia costituisce una sorta di contrappunto continuo, che si intreccia a percorsi personali tremendi, sconvolti dalla malattia mentale, dalla perdita di sé nella droga, dall’ombra continua del suicidio.
La storia che proietta il racconto di Genna è trasfigurata e alterata, come se la si seguisse attraverso il velo e la mediazione degli allucinogeni e di psicofarmaci assunti senza controllo. È una storia che vede l’umanità «serrata nel fango di un pozzo artesiano», proprio come il bimbo di Vermicino, e che non ce la fa a uscirne. Quello di Genna è, in maniera totalmente difforme rispetto ad Arpaia, un passato riproposto «con mezzi fantastici», in cui non si va alla ricerca di un principio di spiegazione, ma di una «suspense che è la beatitudine di esserci e di partecipare politicamente alla storia». Una storia, dunque, fondata su un rapporto di verosimiglianza (anche Genna coltiva una devozione per le date, per la successione rigorosa degli eventi), che evoca il mondo della Guerra fredda, descrivendone la tessitura secondo una sequenza di complotti. Ma ora, dopo l’89 e la caduta del Muro, il nuovo universo globale ha dissolto la possibilità di una narrazione del mondo fondata sul complotto: non rimane che una sensazione di nichilismo suscitata dal sentimento di impotenza davanti al gigantismo del mondo attuale e al suo «funzionamento automatico».
C’è una peculiarità in questo tentativo di rivisitare la storia attraverso il romanzo che forse identifica un carattere culturale italiano. Non sono pochi gli scrittori che si rifanno all’attualità politica recente per offrirne una prospettiva originale: Jonathan Coe e Ian McEwan, per esempio, hanno messo in scena l’Inghilterra degli anni di Blair in romanzi di successo. Ne hanno ritratto risvolti comportamentali e psicologici, ambienti e consuetudini sociali. Ma forse non hanno mirato a svelare una cifra segreta e un senso profondo della contemporaneità politica, originale e diverso da quelli che emergono dagli studi degli storici professionali, come fanno invece alcuni narratori italiani.


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