A ruota de “La vita umana sul pianeta Terra”, è in libreria da ieri la versione Oscar Mondadori di “Dies Irae”. Non si può dire “tascabile”, perché sono 779 pagine.
(Mi scuso per il non piccolo spazio pubblicità, ma il libro era introvabile da anni e poi io sono felice per il nuovo romanzo insieme a un romanzo non nuovo).
Ritorna in libreria il “Dies Irae”
Il 6 maggio esce “La vita umana sul pianeta Terra” (Mondadori). Il 9 maggio torna in libreria “Dies Irae” (Oscar Mondadori). Era esaurito da anni. Questo è il testo dell’aletta: “Giugno 1981: a Vermicino il piccolo Alfredo Rampi è incastrato in un pozzo artesiano. Diciotto ore di diretta televisiva raccontano la sua fine e lo trasformano in un’icona mediatica – Alfredino. L’Italia non lo dimenticherà mai più. È l’alba di una nuova nazione, pronta a varare il suo decennio più patinato e contraddittorio, gli Ottanta. Percossi dalla Storia che stravolgerà l’Italia stessa e il mondo — la P2, la caduta del Muro, Tangentopoli, le guerre di Bush, la crisi — si muovono i protagonisti di questo libro. Paola, in fuga da un trauma indicibile, attraversa il sottobosco tossico di Berlino e la scena psichedelica di Amsterdam. Monica vive la parabola della buona borghesia, prossima all’estinzione. Lo scrittore Giuseppe Genna tiene a bada gli spettri della sua famiglia e quello di Alfredino, che lo condurranno al centro di un mistero impensabile. Romanzo epico, che porta in scena un teatro umano vastissimo, ‘Dies Irae’ è la narrazione di un terribile trentennio italiano. Una resa dei conti letteraria e civile, che non fa
prigionieri”.
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Il Sistema Politico Sergio Baracco
Molti dei lettori di questo sito sono giovani, o disattenti, o giustamente disinteressati al recente passato, oppure talmenti boccheggianti nell’orrore dell’epoca da non volerne sapere di orrori che hanno preceduto questo tempo. Eppure inimmaginabili OGM umani e spettri fatti di etere e sparati da tubi catodici prepararono, non più di trent’anni fa, l’attuale disastro sociale e tutto italico.
Prescindiamo dai ricordi: cominciamo con un video, così vi orientate. Questo che segue è il noto televenditore Sergio Baracco:
Linkando alla voce Wikipedia relativa al noto televenditore Sergio Baracco, di constatare che lo scrittore viene citato sin dalle prime righe:
È noto in particolare per la sua marcata erre moscia e per il grido “Amici!”, caratteristiche enfatizzate dalla parodia delle sue televendite messa in scena dai Fichi d’India da cui è nata la loro celebre esclamazione “Amici Ahrarara”, per la quale è stato guest star all’inizio del loro primo film intitolato proprio Amici Ahrarara. Il “sistema politico Sergio Baracco” è stato assunto da Giuseppe Genna, nel romanzo “Dies irae” come simbolo di un “canone televisivo”, urlato e truffaldino, della vita pubblica italiana.
Ecco, sotto un ulteriore video, il brano del Dies Irae in cui viene introdotto il sistema politico Sergio Baracco, mentre il protagonista fa le interviste per una specie di Doxa negli anni Ottanta. Eccolo, sotto un ulteriore video.
IL SISTEMA SERGIO BARACCO
di GIUSEPPE GENNA
“Se non ci sono le televendite, le guardo, perché altrimenti mi imbarazzo, che ci sono i miei amici, che fanno le televendite. C’è Sergio, Sergio lo conosci?”
Una branca degli intervistati: i divagatori, gli approfonditori. Si pone a fianco di coloro che ti scambiano per un operatore del telefono amico. E’ il tempo in cui gli psicoanalisti hanno perduto credibilità e aumentato le tariffe, le indovine e le maghe non sono sufficienti, e i preti sono considerati antiquati e portasfiga. Si confessano all’intervistatore telefonico. Chiedono consigli, i-ching via cavo, tu sei il crogiolo alchemico dove riversare il letame del loro compost, tradimenti, acciacchi, i figli che non… “Non conosco Sergio, mi dispiace”.
“Sergio! Ma come! Lo conoscono tutti! Quello di Valenza Po, vende i gioielli, non ha la ‘r’, la pronuncia ‘v’. E’ un mio amico. Se ti dico le serate con Sergio…”
Sergio Baracco. Della SM di Valenza Po. Televendite di parure, gioielli che mi sembrano paccottiglia a chili, ti televende pacchi di gioielli, ripete continuamente “Amici!”, poi ti fa la proposta, “Amici!”, infila nel pacchetto da venderti una roba che dice che è prestigiosa, “vubìno vosso sangue di piccione”, è compulsivo, si agita, urla, “Amici!”, dice che ci perde, che ti fa un favore pazzesco, gioielli presentati come appartenessero alla Corona Inglese, e lui per centomila te li dà insieme al “pazzesco, un vevo vubìno vosso sangue di piccione”. Mi dà l’impressione di uno sniffato. Mi ossessiona dal video. Ultimamente appare al suo fianco un suo amico che dice di essere suo socio, un biondo, anche lui nervosissimo, assomiglia un po’ a Max Headroom, il volto sintetico biondo su Italia Uno, che presenta canzoni e legge notizie assurde con un tono da baritono fallito, una sintassi improbabile e una pronuncia desillabante, e questo amico e socio di Sergio Baracco litiga con Sergio Baracco, il biondo contro il moro, litiga perché le offerte di Sergio Baracco “sono troppo basse, così ci perdiamo”, litigano come litigassero davvero, Sergio Baracco reagisce istericamente, dice che lui sta dalla parte dei clienti, “Amici!” e a volte due volte “Amici!”, la prima urlata e la seconda in tono conciliante, da persona seria, con questo rotacismo che rende tutta la proposta indistinguibile e scivola.
El maschio sta scivolando in una marcata inflessione calabra: “Non me lo puoi dire che non conosci Sergio dei gioielli, che cazzo di intervistatore sei?”
Abituale momento clou dell’intervista telefonica: rischi di perdere l’intervistato, devi dargli ragione, devi essere fine, empatico, schierarti dalla sua parte, altrimenti lo perdi, l’intervista è abortita, tu cali nella media di interviste effettuate, devi stare attento, ti controllano dalla centralina, random, controllano gli intervistatori, come parlano al telefono, se effettuano tutte le domande, se cali nella media di interviste condotte a buon fine forse non ti richiamano, perché sono loro a chiamarti, anche se tu hai un disperato bisogno, anche se per te 10.200 lire sono oro, ti senti schiacciato dal Sistema Sergio Baracco, ti verrebbe voglia di parlare a telefono con il rotacismo di Sergio Baracco, “Buongiovno, sono un intevvistatove pev una vicevca telefonica”, Sergio Baracco è un’ombra gigantesca, il suo sistema di condizionamento a colpi di “Amici!”, la sua politica delle vendite percepisco nitidamente che ha un futuro, le sue vendite sono una politica e questa politica ha un futuro, Sergio Baracco subentra allo yuppismo che è ormai in calo, ai proventi gonfiati da una bolla di economia irreale che sta andando verso l’afflosciamento, 50 milioni di spettatori italiani possono assorbire la visione del mondo di Sergio Baracco e farla propria, adornati di rubini “vosso sangue di piccione”, e io mastico la radice nera del mio tempo.
“E poi?” fa el maschio.
“Il suo programma televisivo preferito?”
“Ho molti amici lì, ne vedo molti se no mi annoio. Comunque il Benny Hill Show su Italia Uno”.
Chiedergli se Benny Hill è suo amico, se fa serate con Benny Hill. Travolgerlo. Triturarlo col Sistema Sergio Baracco. Benny Hill. A questo puttaniere che ha in casa un travesta brasiliano che lo chiama el maschio piace Benny Hill. Benny Hill è un idiota che fa strisce comiche mute a fine secolo (ma questo secolo, non l’altra fin de siècle, quando sarebbe stato comprensibile il comico muto), situazioni brevi che fanno ridere soltanto mia zia Pina. Benny Hill è biondastro e grassoccio ed è l’archeotipo fisionomico dell’inglese. Ha la faccia rubizza e la sua spalla comica è un vecchietto pelato e sdentato, Benny Hill gli batte sempre la mano sulla pelata, si sente il rumore degli schiaffetti, spesso il vecchietto ha un parrucchino e Benny Hill glielo toglie e gli dà gli schiaffetti sulla pelata. Benny Hill con la pancia calciatore che tira un rigore e ammazza il portiere che è il vecchietto. Benny Hill cacciatore nella jungla africana con il vecchietto che fa Tarzan e crolla da una sequoia sbagliando liana ed è vestito con una finta pelle di leopardo che gli va larga sul corpo avvizzito, striminzito. Benny Hill che si presenta alle elezioni e il candidato opposto è il vecchietto e Benny Hill è nominato premier inglese e prende a schiaffetti sulla nuca in Parlamento il vecchietto, togliendogli la tuba. Benny Hill nominato premier.
Benny Hill nominato premier.
“Hai finito?” chiede el maschio, ma il tono non è irritato o stanco, continua a rispondere, se no si annoia.
“Ancora qualche domanda sui consumi”.
“Che consumi?”, sospettoso, adesso gli chiedo quanti grammi di bamba si fa al giorno, se il travesta pippa.
“Che cifra mensile destina all’alimentazione?”
“Che cazzo ne so? Devo stare lì con la calcolatrice? Quando ho fame, mangio”.
“Il prodotto che acquista più spesso”.
“Sottilette Kraft”.
“Acquista dischi, film o libri?”
“A me piace la lambada, ma non ho capito il gruppo, non sono andato a prendere il disco”.
“Kaoma”.
“Cosa?”
“L’originale. La lambada è dei Kaoma”.
“Aspetta che scrivo, mi piace troppo”. Rumori indistinti. “Scrivi lì”. Lo sta dicendo al travesta. A me: “Ripeti, lettera per lettera, che poi li prendo”.
“K-A-O-M-A”.
“Comunque mi piaceva il corvo Rockfeller, ma non fa più dischi”.
Un pupazzo mi pare dell’84, una scoperta di Pippo Baudo per Sanremo, un ventriloquo che non lo era, apriva semplicemente la bocca e faceva una voce distorta e rauca, e muoveva questo pupazzo irritante che si muoveva e si comportava con la stessa spocchia di Fonzie. José Luis Moreno, ecco come si chiamava. Scomparso. Scomparso con Rockfeller, si sarà riciclato in Argentina, quei fenomeni che girano le tv planetarie come fossero animatori da crociera. 50 milioni di spettatori italiani ipnotizzati dalle cazzate rauche del corvo Rockfeller che si metteva la mano sul pacco e sbullettava rauco.
“Comunque l’ultimo che ho preso è Salvi, C’è da spostare la macchina”.
Segno: Francesco Salvi. C’è She drives me crazy dei Five Young Cannibals, ma questo compra Salvi. Gli mancano i Milli Vanilli, i sovrani della farloccheria. Il futuro è loro. La loro politica delle vendite di copie (a centianai di migliaia) e la vendita di una politica che io sento avere un futuro, si sta spalancando. Trionfa inarrestabile il duo dei Milli Vanilli. Centinaia di migliaia di copie di Blame it on the rain. Non soltanto in Italia – in tutto il mondo. Li vedi ritirare dischi di platino. Sembrano due travesta brasiliani. Io so (lo so per amicizie nel giro dei discografici, a Milano chiunque o lavora in pubblicità o in discografia) che i due finti travesta nelle loro canzoni ci mettono solo la faccia, la voce è in realtà di un trio di cantanti dietro le quinte, i Milli Vanilli muovono solo la bocca (la notizia diventerà pubblica di qui a qualche mese, lo scandalo che ne segue provoca un forte esaurimento nervoso per uno dei due componenti del duo, che di lì a poco preferirà il suicidio alla vergogna. Tristi storie fine Ottanta).
“Basta? Finito?” chiede el maschio.
“Sì, la ringrazio della disponibilità e la saluto”.
“Eh, no”.
Eh, no. Quand’è così, stai tranquillo e non reagire, la società ti ha detto durante l’addestramento (due giorni di addestramento, serve addestramento per fare domande al telefono e barrare caselle) che per qualunque problema la società ti è dietro, sei coperto.
“Prego?”
“Tu adesso mi devi ringraziare in un altro modo”.
“Gliel’ho già detto, la ringrazio…”
“No, tu mi devi ringraziare davvero, devi essermi grato. Dimmi che mi sei grato”.
La coordinatrice è una nana e io so che ora mi sta ascoltando. E’ risaputamente una troia, ha cinquant’anni, suo figlio è tra gli intervistatori e a fine serata fa la spia a sua madre. La puttana, se sgarri, non ti richiama o ti richiama quando proprio sono a corto di intervistatori.
“Tu mi devi dire che mi sei molto grato per avere risposto alle tue cazzo di domande. Mi hai interrotto e mi hai fatto perdere tempo. E devi ringraziare anche la mia compagna”.
Devo ringraziare anche la travesta.
Devo amplificare la mia presenza nel mondo, allargare il senso di esistere, e compilare miliardi di pagine nel libro nero del tempo, e percorrere la curva schiena del tempo che volta un decennio nel successivo, e devo resistere dal suicidarmi come quello dei Milli Vanilli, per l’odio e il disagio profondo e l’ansia e la penuria di soldi e l’esposizioni ai raggi di questa materia indegna in cui mi muovo, magro, con i buchi nelle tasche dei pantaloni di cattivo velluto presi all’Oviesse, i testi di filosofia inutili che sto studiando in facoltà e gli esami su Platone esoterico che mi conducono a follie immaginative e alla radicalità di un precariato perenne, devo amplificare le forze e resistere attraverso gli strategemmi di un’intelligenza acuminata, tesa contro il prossimo, schierata in avanguardia per perforare i giorni, schierata contro di me, la fatica, l’ansia, l’inutilità, le voci dei morti, la nonna Gisella continua a lanciarsi dall’ottavo piano nel ralenty mentale, Alfredino crolla nel pozzo, continua a crollare nel pozzo e il cadavere indecomposto di Gino è ritto nella stanza gelida chiusa nell’appartamento popolare dove tornerò tra un’ora, a bordo dell’Autobianchi che imbarca acqua e fa marcire la moquette e puzza.
Lo mando affanculo.
[Prima edizione su Web: 3 aprile 2010]
Il Miserabile legge il Miserabile
Canenero dei Subsonica (ispirata al Dies Irae) vince il premio Amnesty!
Può uno scrittore essere felice? Restringo il campo: posso io in quanto scrittore essere felice? Difficilmente. Ma oggi sono felicissimo. Il prestigiosissimo Premio Amnesty Italia 2008 è stato assegnato al brano Canenero dei Subsonica, dall’eccezionale album L’Eclissi. Canenero nasce da una suggestione che il gruppo torinese ha mutuato da Dies Irae: questa disseminazione, questo dialogo prima silenzioso e poi esplicito con altri artisti che praticano un’altra disciplina e trasformano il mio testo in un capolavoro musicale, che va a vincere un premio che simbolizza ciò che io penso essere autenticamente “il politico” – tutto ciò mi rende felice.
Da Canenero ho tratto una installazione. Qui sotto, i link per vederla.
In calce, il comunicato di Amnesty.
• CANENERO – da L’eclissi dei Subsonica – versione html
• CANENERO – da L’eclissi dei Subsonica – file .exe per Pc
I SUBSONICA VINCONO IL PREMIO AMNESTY ITALIA 2008 CON IL BRANO “CANENERO” TRATTO DALL’ULTIMO ALBUM “L’Eclissi”
I Subsonica, con “Canenero”, sono i vincitori della sesta edizione del Premio Amnesty Italia, indetto nel 2003 dalla Sezione Italiana di Amnesty International e dall’Associazione culturale Voci per la libertà per premiare il migliore brano sui diritti umani pubblicato
nell’anno precedente.
Prima dei Subsonica, avevano vinto il Premio Amnesty Italia Daniele Silvestri (“Il mio nemico”, 2003), Ivano Fossati (“Pane e coraggio”, 2004), Modena City Ramblers (“Ebano”, 2005) e Paola Turci (“Rwanda”, 2006) e Samuele Bersani (“Occhiali rotti”, 2007).
“E’ un onore di quelli grandi ricevere da un’istituzione come Amnesty un riconoscimento così” – hanno dichiarato i Subsonica – Da un lato perché scrivendo una canzone su uno specifico tema, come ad esempio questo degli abusi sui minori, non ci si chiede mai quanto in concreto saprà smuovere interesse o suscitare riflessioni. Altrimenti ci si blocca e non lo si fa più. E dall’altro perché Amnesty International, puntualmente presente nella tutela dei diritti delle persone, si dimostra rapida attenta ed efficace nell’individuare tutti i significati del termine ‘violazione’, per i quali purtroppo non sempre occorrono dittature o prigioni perse in capo al mondo. La violazione dei diritti può avvenire tra le pareti le domestiche come in una qualsiasi caserma di un paese democratico e purtroppo può riguardare ognuno di noi in qualsiasi momento. Ringraziamo, quindi, Amnesty International per questo premio, ma non solo”.
“Canenero ci parla di uno dei peggiori incubi che possa segnare la storia di un bambino: un abuso da parte di un adulto” – ha dichiarato Paolo Pobbiati, presidente della Sezione Italiana di Amnesty International. “Si tratta di una delle forme più feroci di violenza, perpetrata nei confronti di un soggetto debole e indifeso. I Subsonica hanno avuto il coraggio di utilizzare la musica per raccontare quanto questo fenomeno sia diffuso e presente anche in realtà apparentemente normali, per ricordare quanti ‘cani neri’ stiano sbranando il futuro di tanti bambini”.
Il romanzo Hitler sul “Corriere Adriatico”
Devo ringraziare il Corriere Adriatico e in particolare Alessandro Moscè per l’attenzione e lo spazio, oltre che la capacità di acuta analisi, dimostrati nei confronti del
romanzo Hitler. Moscè è un critico noto, con alle spalle un’importante serie di saggi e introduzioni (per esempio, quella alle poesie di Alberto Bevilacqua). Mi risulta fondamentale lo spazio che la stampa locale ha speso per recensire il libro: la capillarità della critica in àmbito mediatico locale è uno dei segnali più importanti per la diffusione e la militanza della produzione culturale nel Paese.
Hitler: raccontare il male attraverso un romanzo
di ALESSANDRO MOSCE’
Il male, l’uomo del male per eccellenza, tra deliri di grandezza e improvvise abulie, tra guerra e disfatta: Giuseppe Genna, narratore nato a Milano nel 1969, ha scritto un romanzo biografico dal titolo Hitler (Mondadori, Milano 2008), che decifra un confronto serrato in ben 600 pagine, un pretesto alluso con l’incipit della narrazione che è tutto un programma: “Confrontatevi con lui. Considerate se questo è un uomo”. La non-persona cresce e si nutre di sogni eterei, di male nel male, di frustrazioni. Genna è documentato, non inventa nulla. Include particolari della vita privata di Hitler, più o meno noti, ma significativi per raccontare un’evoluzione temporale. Il romanzo non sbava, è efferato come il suo personaggio estrapolato dai noti saggi. Ma la ricostruzione non è facile per un romanziere, perché smontare una finzione senza essere uno storico, implica una capacità attitudinale e uno studio preliminare (che di solito gli scrittori sentono come un peso). Non c’era bisogno di questo romanzo, perché una trattazione dell’esistenza di Hitler non aggiunge nulla di nuovo alla produzione narrativa italiana di oggi, né tanto meno alla cognizione del personaggio storico in quanto tale. Però Genna è bravo nell’inquadrare il germe che finirà per annientare un popolo. Ha ragione quando dice che Hitler è un problema metafisico (lo ha dichiarato in un’intervista apparsa su Booksblog). “Non tentare di spiegare Hitler è una condizione penosa e tuttavia necessaria”. Fare il male per farlo: ecco cosa emerge dal romanzo distinto in capitoli veloci, ficcanti, in un linguaggio denso e scabro allo stesso tempo, ritmico, come nel resoconto della morte del dittatore, nell’elencazione del buio, dei lampi, del fuoco bianco, del corpo che brucia, che si decompone, della cenere che si alza. Il merito di Genna è di aver evitato, sul piano ideale, la mitologia del male. Non ha concesso nulla ad Adolf Hitler, che viene raccontato dall’infanzia che lo forma, dall’adolescenza che lo corrode, fino all’incredibile successo politico e allo scatenarsi del non-essere come cifra assoluta dell’umano. Certo, possiamo farne a meno di leggere quello che sapevamo, ma Genna è efficace nel cogliere i gesti, e ancora di più nello stigmatizzare i prerequisiti che rispondono, implicitamente, ad un’attesa del lettore. Definire per correre sul filo del personaggio, tra registri espressivi (letterari) e caratteriali (rappresentativi). L’elemento energetico scaturisce da tante curve, disegni, premonizioni: “Adolf Hitler preconizza il futuro, lo fa fiorire dal suo costante inizio, da quando ha iniziato: da sempre, da prima che esistesse lui. E’ percorso dal monologo omicida dell’Europa che lo figlia. Incarna duemila anni che ne fanno l’invaso. Nessun demone al di fuori dell’Occidente intero parla attraverso le sue vibrazioni vocali, atone e gelide”. Se la pratica del libro fa affiorare la verità comune, la contrapposizione tra bene e male è uno specchio contro specchio. Genna scrive che nella Germania nazista esisteva solo lui, il Führer, “l’uomo solo di fronte al suo tempio rarefatto, penetrabile, ominoso”. Può essere retorico e antiromanzesco, ma l’autore ha detto di aver voluto estrarre la carie che continua a molare l’immaginario collettivo. Il risultato narrativo rimane come una voce tra le altre. Non è un risultato banale né esaltante. Ma neppure enfatico. Genna è un narratore vero: di ambientazioni, di tensioni, di intolleranze. Lo avevamo già scoperto con Dies irae (Rizzoli, Milano 2006), dove i personaggi si aggirano dentro e fuori la storia, dietro le quinte. Un romanzo storico e borghese, horror e metafisico. L’Italia si scopre all’alba di se stessa, moderna ma inefficiente. L’incipit rievoca la tragedia di Vermicino del giugno del 1981, con Alfredo Rampi, di appena sei anni, che rimase incastrato in un pozzo artesiano. Diciotto ore di diretta televisiva raccontarono la sua fine trasformandola in un’icona mediatica. Fu quello l’inizio dell’era del satellite.
Con Hitler, insorge postumo e attuale il Dies Irae
Cosa sta succedendo? Sia sul piano privato sia sul piano pubblico sta accadendo che, al pari delle acque smosse dal
romanzo Hitler (Mondadori), sta salendo a galla il Dies Irae (Rizzoli), il mio libro che precedeva quest’ultimo: soggetto, stile, argomento, piani strutturali clamorosamente differenti dal romanzo Hitler. Mi arrivano e-mail a iosa sul Dies Irae, lettori si lanciano in paralleli illuminanti sui due libri (alcuni contributi li ho pubblicati qui e qui, ma ne metterò on line altri, particolarmente sconcertanti). Antonio Scurati, in un elzeviro illuminante su La Stampa circa la vicenda dei due fratellini di Gravina, cita l’incipit del Dies Irae, che concerne il dramma di Alfredino Rampi. Ho i miei motivi per ritenere che il Dies Irae sia un libro che crei “affetto” e “identificazione”, mentre Hitler è proprio l’opposto: è il libro che non deve creare piacere, affettivizzazione, immedesimazione. Però questa coincidenza è abbastanza allibente per il Miserabile sottoscritto. Ho già ringraziato i Subsonica per Canenero, l’eccezionale pezzo ispirato al Dies Irae e inserito nell’ultimo loro album, L’eclissi (ne ho anche tratto una “installazione”). Ora devo ringraziare i Baustelle, che hanno realizzato Alfredo, splendido pezzo che sta tra De André e Pasolini, e, mentre, scalano le classifiche con l’album Amen, continuano a citare il Dies Irae proprio a proposito di Alfredino e del momento storico italiano in cui la tragedia del piccolo Rampi avvenne (è proprio il fil rouge del D.I.).
Assieme ad Alfredo, che traggo da YouTube, sulle medesime frequenze si presenta il reading/performance, un mix di rime a filastrocca (di cui non sono autore e che sono splendide) e di estratti letti dal Dies Irae, a cura di Cevor1981: un lavoro artistico di cui non è possibile ringraziare l’autore (o gli autori) e che risulta davvero particolarmente impressionante.
Qui sotto, i due video. In queste parole il mio ringraziamento che, spero si avverta, corre sotto le parole stesse.
Baustelle – Alfredo – da Amen
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Cevor1981 – Dies Irae
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Da “Dies Irae”: deformazione del personaggio Giuseppe Genna
da Dies Irae (Rizzoli, 2006; Mondadori, 2014)
Io, Giuseppe Genna – Milano – Gennaio 1997
Dall’alto della stanza sono l’uomo-stella.
Sono l’uomo leonardesco.
Disteso sulla schiena sul tappeto che urtica, nudo, la braccia allargate ad asse, le gambe divaricate.
Sono bendato e non vedo.
In piedi, attorno a me, si aggira la donna brutta. La donna brutta è sovrappeso, indossa calze e reggicalze al bacino, niente slip, il seno grasso nudo, guanti di qualche materiale che non ho memorizzato, e gira attorno a me.
Sono l’uomo solo, privo di pelle, congegnato per reagire con intelligenza agli stimoli esterni, cerco stimoli esterni e per questo sono qui.
La donna brutta e sovrappeso nella mano destra guantata stringe una candela rossa e accesa. La inclina, a fasi irregolari, in momenti distonici, e la cera fusa cola su di me e macchia il mio corpo scottando sulla pelle e io non sento niente ma so.
So che questa è la trasgressione eccitante.
So che sto cercando un abisso che sostituisca un genere più perverso di abisso, del tutto individuale, un abisso raggelato, dove le forme si cristallizzano, le parole altrui si ghiacciano penetrando e si spezzano in frammenti gelati, scaglie che basculano nello spazio mio interno, questa temperatura frigida insopportabile, che agghiaccia ogni lacrima prima ancora che essa venga germinata, i miei occhi asciutti, secchi, le sclere disidratate, da anni.
Maura mi sembra ieri.
Montecitorio e OMISSIS mi sembrano dieci anni fa.
Sono disoccupato, collaboro a qualche iniziativa editoriale di poco conto grazie ad amici cari, giusto i soldi per pagare l’affitto, ho l’aiuto di amici cari che sopportano la visione del pieno che bilancia l’abisso glaciale in me: sopportano me, un corpo insenziente che fibrilla e trema, senza requie attivo, paritetico alla valanga di intuizioni e movenze della mente senza posa, senza respiro né riposo, la mente iperattiva che difende dagli affetti, che frena il crollo.
Io sono il Mente, l’uomo che attacca e si difende con la Mente, il cui corpo è su Orione.
Soffro questo strappo, questa trapanazione cerebrale. Il fantasma di Maura ha trivellato, ha strappato, ha lacerato, ha inaugurato un vuoto che è andato ad allargarsi, buio, freddo, non riempito da alcuna materia umana o da alcuna vibrazione disumana, nessun segno di grazia.
Cerco stimoli.
Il mio corpo è costellato di gocce rosse di cera solidificata, dall’alto sono l’uomo-stella, composto di nane rosse esplose e spente, un demiurgo femminile e grasso stila la mia cosmogonia con materia incandescente.
L’estate mi hanno invitato a una vacanza, non avevo i soldi. Un amico, lasciato solo dalla donna, triste ma reattivo, silenzioso ma senza vuoti o abissi glaciali spalancati dall’assenza di chi l’aveva abbandonato, distante miliardi di miglia interiori dal largo, accecante archetipo che interiormente mi è diventata Maura e soffro.
Quattro giorni in Sardegna per rilassarsi, in un posto esclusivo, mi dice l’amico.
Un posto per i vip.
Il tempo si sta ulteriormente rovesciando e la tragedia di questo Paese matura in forma di gossip. Ci prepariamo (ma siamo allo stato pre-embrionale) a una nuova saturazione della libido, a una nuova indifferenza al dolore e al piacere, a un nuovo condizionamento di massa.
Sono nel momento statico che genera il vortice di una nuova mutazione del Sistema Politico Sergio Baracco: l’era dei vip che non sono vip, del gossip che non causa nulla e si trasforma in avanguardia estrema della pubblicità personale. Non l’era del Cattivo Gusto, ma l’era in un cui non esiste Gusto. La giusta evoluzione della saga delle televendite. Non l’immaginazione, ma la televendita al potere. Ovunque.
E’ il ’96 e siamo all’inizio. Queste microere, microsfere interne a una piccola ruota di tempo. Modulazioni frangibilissime di un popolo fattosi gente spettatrice.
La destinazione sarda dei quattro giorni di vacanza è un paese cresciuto istantaneamente, fungino, accanto a Porto Cervo, luogo amatissimo dai vip e dall’ex premier Berlusconi. Questo paese è un paese privato, cioè non è un paese ma è un posto posseduto da privati, semplicemente una banchina lungomare dove attraccano yacht prestigiosi. Mentre stiamo andando lì, è attraccato lo yacht di Khashoggi, che il gossip sentenzia avere offerto un diamante da due miliardi di lire a Lory Del Santo per una notte di amore. Questo paese appartiene a un consorzio guidato dall’ex comico e chansonnier e presentatore televisivo Umberto Smaila. Uomo famoso a ripetizione. Il gossip sussurra che sia un intimo dell’ex premier. Partecipò a una devastante stagione comica, quella di un quartetto noto come I Gatti del Vicolo Miracoli: lui, Smaila, il robusto factotum; Jerry Calà, che diventerà iscrivibile nella memoria detritica generazionale per l’inutile pellicola Vado a vivere da solo, in cui si narra la sua storia di emancipazione, consistente nell’affitto di uno scantinato sotterraneo senza pareti e illuminato dal neon, che egli riadatta a parodia di un attico e dove capitano alcune donne (Elvire Audrey, già protagonista del film Usa Caligola reincarnato in Hitler) e anche Lando Buzzanca; Franco Oppini, magro allampanato e segnato da perenni occhiaie, un caschetto di capelli dal taglio estraneo a qualunque moda di qualunque tempo, marito separato di Alba Parietti, una delle regine sempiterne del Sistema Sergio Baracco; e Nini Salerno, protagonista di un’unica regia, Arrivano i miei. Inesplicabilmente, a un dato punto, il quartetto si scioglie e la reazione non è propriamente quella del pianeta di fronte alla separazione dei Beatles. Tra i sopravvissuti, Umberto Smaila è protagonista della rivoluzione televisiva dell’erotismo spettacolare di una generazione deprivata di impegno: inventa e presenta, alla fine degli Ottanta, al culmine dell’irradiazione craxiana, lo show Colpo Grosso, trasmesso sul circuito Italia 7: un mix tra spogliarello ardito e giochi mutuati dalla tradizione dei casinò. E’ un successo dapprima italiano e poi globale: il format del programma viene acquistato in una miriade di nazioni. Alto 1.82 metri, Umberto Smaila ingrassa prodigiosamente, preparando la massa lipidica al giorno in cui lo vedo io.
Il paese che si inventa, acquistando un microscopico tratto di costa in prossimità di Porto Cervo, si chiama Poltu Quatu. E’ un insieme di piccoli appartamenti in stile residence di eccellenza seppur marineggianti, nascosti dietro il lungomare in cui la gente viene ad ammirare vip che trascorrono indolentemente il proprio tempo ai bar che si sporgono sulla banchina medesima, oppure si imbarcano su qualche yacht di qualche amico (ogni vip è amico di ogni vip, dal primo momento in cui si incontrano non conoscendosi) e si espongono in topless al sole, per la gioia dei paparazzi di second’ordine che si appostano sulla costa.
Il primo evento dello sbarco a Poltu Quatu è la sbarra biancorossa a cui fanno sentinelle dei vigilantes privati, in tutto e per tutto simili alla guardia giurata della trasmissione Forum di Canale 5, quella in cui il giudice Sante Licheri, mediante letture esoteriche del codice civile, ripara a zuffe di vicini, familiari, ex amici: una parodia seriale e quotidiana di Un giorno in pretura, un geniale suggerimento su cosa dovrebbe davvero essere una magistratura degna del suo prestigio – il tutto diretto dalla figlia del generale Alberto Dalla Chiesa, assassinato con la moglie dalla mafia (dalla mafia?) nel 1982, mentre indagava su Pecorelli e la P2, oltre che sul delitto Moro, uno dei protagonisti della strategia con cui lo Stato ha sbaragliato il terrorismo rosso italiano.
Poltu Quatu è un’ansa soleggiata. Le rocce sembrano artificiali, infatti mi suggeriscono che sono state scolpite ad arte. Valga la medesima voce circa l’innaturale, foltissima vegetazione supermediterranea. Gli yacht sono attraccati, ma non si vede nessuno. In fondo alla banchina c’è una cabina regia all’opposto del locale detto Smaila’s, la cabina è di Radio 105 ed è capitanata dal dj Gianni Manuel, che trasmette in diretta porzioni di palinsesto da questa meraviglia della stagione estiva: una cabina di regia che convoca gli ospiti prestigiosi di Smaila, che quest’anno sono, tra i molti, la telegiornalista Rosanna Cancellieri, il telegiornalista Giampiero Galeazzi, il capitano della nazionale di basket Carlton Myers, l’attore e showman Diego Abatantuono.
E’ con costoro che condivido il mio tempo.
Gianni Manuel, venuto a conoscenza del mio incarico a Montecitorio, mi chiede lumi sulla sua eventuale carriera politica, calcola la sua audience e cerca di estrarne la revenue elettorale, continua ad avanzare l’esempio di Gerry Scotti, dal microfono all’Europarlamento. Carlton Myers ha seduta accanto a sé una giovane russa che indossa l’intera Torre dei Gioielli della Corona. Umberto Smaila e Galeazzi si siedono sul medesimo panchetto, che non regge il peso e si spezza.
Trascorro notti allucinanti.
Cerco stimoli che scuotano il corpo, mi getto a mare. Decado, come certi elementi della tavola di Mendeleev.
Per trascorre queste ore prive di senso, polverizzo cocaina e insufflo una quantità sufficiente a non farmi dormire per 72 ore. Come sentenzierà tre anni dopo un giornalista, a commento della dichiarazione con cui il figlio di Camilla Parker Bowles (la futura consorte dell’erede al trono Carlo) ammette l’uso della sostanza stupefacente, “la cocaina è il contante della capitale”.
Una notte sono al Billionaire di Flavio Briatore, che abbraccio inopinatamente come un fratello e a cui chiedo se diventerà presidente della Juventus e lui rimane sul vago, sorpreso, e beve un cocktail che si chiama Submarine. Da qualche parte c’è anche Naomi. Io sono disinibito, gelido ma sciolto, come certe pozze acquee polari tra un iceberg e un altro. Non penso al fatto che frammento la coca non con una carta di credito, di cui non dispongo ma che sarebbe di rito, bensì con il badge scaduto di OMISSIS. Non penso a Maura con sforzo, quindi penso: Maura. Sono in uno scintillio buio estraneo, con Flavio Briatore e Gianni Manuel impegnati in discussioni politiche che sono il ventricolo destro del Sistema Politico Sergio Baracco. Naomi pare che si sia serrata dentro una toilette e fa i capricci. Abatantuono è stanco. Rosanna Cancellieri dov’è?
Torniamo col SUV a Poltu Quatu e ci inoculiamo in un auditorium sul cui palco Adriano Galliani e Gino Paoli intonano, sudatissimi, Sapore di mare, per l’entusiasmo del pubblico urlante che accalca l’auditorium e che scopro essere una massa indistinta di venditori di Publitalia, la grande società di raccolta pubblicitaria fondata da Marcello Dell’Utri. Mi sembra che Gino Paoli abbia la dentiera, ma sono dispercettivo, mi sembra che la dentiera si scolli, ma forse non è vero.
La mattina, mentre si beve whiskey con Ginger Ale, fumo la mia pipa, nel cui tabacco ho miscelato cocaina.
Mi sono stimolato. Ho scosso il corpo. Sento: niente.
Prima di abbandonare Poltu Quatu mi faccio fotografare dall’amico che mi ha portato lì: il volto vitreo, vagamente depresso e psicofarmacologico, reclinato sulla spalla, le mani che reggono, coprendo il torace, la prima pagina della Repubblica. E’ un tableau vivant che fa la parodia crudele (crudele in quale direzione?) di una delle più celebri fotografie della prigionia di Moro.
Quando torno a Milano sono nel tremito.
Lo spettro di Maura mi fa tremare.
La disoccupazione mi fa tremare.
La carità degli amici mi fa tremare.
L’etilismo di mio padre mi fa tremare.
L’instabilità esistenziale di mia madre mi fa tremare.
La solitudine mi fa tremare.
L’assenza di viaggi ed esperienze umane mi fa tremare.
La mia anomala vita sessuale mi fa tremare.
Il mio corpo insenziente mi fa tremare.
Il mio dolore inequivocabile, non invocabile davanti a nessuno, mi fa tremare.
L’assunzione di paroxetinici mi ammorbidisce il tremore.
Sono solo, in un appartamento di 35 mq, e compulsivamente traccio il bilancio di ventisei anni di ansie, repentine depressioni, choc psichici, traumi emotivi, stress, tensioni, esaurimenti nervosi, tremori neurovegetativi, psicosomatosi inarginabili.
Non sono niente e non so niente: sarebbe lo stato dell’illuminato, solo che è polarmente opposto a quello.
Sono assediato dalla paura, dalla sensazione di inadeguatezza, dalle continue accuse interiori di non sapere, non avere studiato, non conoscere abbastanza.
Il Dies Irae è abbandonato, se solo spalanco il faldone dei materiali accumulati in questi anni, la bibbia del Dies Irae, vengo assaltato da un disgusto concreto, da fiotti di vomito cremoso.
Non so cosa fare.
Dispongo di un computer.
Mi connetto a Internet.
E’ un nuovo esordio.
Trascorro ore nelle prime chat della storia della Rete italiana.
Scopro on line una ambigua comunità di utenti, che pratica sadomaso.
Vengo invitato ai loro incontri, a cui mai mi presento.
Finché, invece, mi presento presso la casa editrice che monopolizza il giro sadomaso in Italia. Edita una rivista la cui tiratura raggiunge le ventimila copie. Il nome di uno dei proprietari di questa casa editrice: me lo ricordo, alla periferia della Mappa stilata ai giorni di Montecitorio.
Suppongo che i Servizi controllino.
L’idea è propormi per un lavoro, creare un official bdsm site sul nascente Web, un sito che trascini in digitale un repertorio di foto porno di enorme valore per perversi americani, gente che usa on line, con disinibizione, le carte di credito, di cui tuttora non dispongo.
La casa editrice ha sede in una traversa di corso Buenos Aires.
Telefono. Mi spaccio per giornalista. Ottengo un appuntamento col direttore della rivista.
Vado.
La casa editrice è una clinica svizzera. Tutto è chiaro e l’odore ovunque è di ammonio medicale. La stanza della redazione: tre ragazzi che lavorano a enormi Mac, su riviste sadomaso e gay. Il direttore è magro, i capelli accuratamente, zelantemente pettinati fino a ridurli a un’obbedienza innaturale, lisci e nerissimi, i baffi curati, gli occhiali a montatura in titanio.
Mi parla del mondo sadomaso e io so che sono qui per esplorare.
Mi parla del giro delle feste, a volte di rave che si tengono in hangar o magazzini dell’hinterland di Milano e io so che sono qui per vedere di vedere.
Mi parla dell’immensa quantità di racconti porno sadomaso che arrivano in redazioni, scritti da lettrici, donne che fanno esplodere su carta fantasie incontenibili.
Lui, al momento, è il monopolista del sadomaso italiano, perché sulla sua rivista appare una rubrica di annunci, che è l’unico tramite con cui gli amanti del genere si contattano: via lettera, ai fermoposta.
Mi presenta Re Franco: un docente universitario che si traveste e compie performance bdsm con ragazzi e ragazze, nascondendosi dietro quel nickname altisonante. Si traveste come una deità anonima e indifferenziata, il volto occultato dalla maschera bianca veneziana senza espressione e sempre utilizzando un bastone da prestigiatore, un aggeggio che sembra sottratto al baule di Silvan.
Il contatto è stabilito, l’editore mi presenta via via alcuni protagonisti del suo giro milanese. L’uomo che, al piano superiore, passa il tempo a montare videocassette sadomaso acquistate in ogni parte del mondo. Vedo scene su più schermi, tra loro incollate, appartenenti perlopiù a video acquistati all’estero e fatte collassare in prodotti distribuiti nelle edicole italiane: il ragazzo rapato a zero sollevato dal pavimento con un sistema complesso di legature, i testicoli fitti di mollette da bucato che stringono la pelle e pesi metallici agganciati ai capezzoli, la bocca bloccata da un bavaglio con una sfera rossa che la ottura, e un uomo apparentemente indonesiano che ne saggia il corpo e inizia a picchiarlo con una paletta larga di cuoio nero; un uomo maturo con la pancia sporgente che prende in bocca un enorme fallo finto, cinto da una donna il cui trucco è eccessivo e disturbante, una fellatio che dura monotona ripetendo ossessivamente i gesti della testa semicalva di lui e i finti gemiti della donna; sospeso per aria un corpo maschile completamente coperto di pellicola domopak, tranne che i glutei e l’ano, dove una ragazza bellissima si sta scatenando con una canna che riga e illividisce la pelle, prima che il compagno di lei si avventi sulla plica anale dell’uomo in domopak sospeso, lo unga di una crema bianca e inizi meticolosamente a intrudere le dita nel canale rettale aperto e inerme; le urla realistiche, le urla vere della donna bionda a quattro zampe, riprese da una cinepresa casalinga, traballante, mentre un uomo di mezza età, con i genitali molli all’aria, la frusta mediante un aggeggio a più liste di cuoio e lo zoom dilettantesco sui lividi e i capillari esplosi su quei glutei.
L’editore mi presenta alcune donne che praticano sadomaso a pagamento. Un appuntamento in un bar deprimente in piazzale Loreto, c’è questa trentenne alta, col mento prominente, rossa artificiale, i capelli lisci, non bella, impellicciata, una pelliccia anni Settanta, sembra l’emulazione non riuscita di Histoire d’O, ma soltanto per quanto concerne l’abbigliamento. Ogni tanto il cellulare squilla e lei risponde “Sì, schiavo” o “Sì, puttana”, poi interrompe la telefonata e sbuffa. Mi dice che a metà mese ha già fatto più di cinque milioni e le restanti due settimane si occupa della casa. Mi racconta di un congressista di passaggio a Milano, che l’ha contattata: un coprofilo, desiderava che lei gli cagasse addosso. Gli ha chiesto due milioni, l’ha fatto. Questa è una donna che ha cagato addosso a un uomo.
L’editore mi presenta un suo assistente, un ricercatore universitario che gli ha allestito un monolocale dietro zona Loreto, dove si girano video sadomaso originali. Approfondiscono l’amicizia con certe ragazze o donne rimediate chissà come, o forse con le lettrici che scrivono racconti intensi e li spediscono alla rivista, e ne fanno delle starlette sadomaso, personaggi con pseudonimo che tutti i ventimila acquirenti della rivista+cassetta mitizzeranno.
L’editore mi procura il contatto con un giovane appassionato, che ha un suo giro di donne piuttosto consistente. Lo incontro separatamente, dopo cinque minuti ammette di essere appartenente ai Servizi. E’ sì un appassionato, ma fa parte dei Servizi. Relaziona, a volte. Stanno molto attenti alle comunità che si contattano tramite fermoposta. Temono giri di bambini, soprattutto in Mugello, dove opera un gruppo che viene monitorato costantemente. Lui è anche sul versante satanista. E’ stato nella zona dei Castelli Romani, al Lago di Nemi. Gli chiedo se sapeva che a pochi chilometri da lì era sprofondato e morto Alfredino. Beve il suo caffè, mi guarda dritto nelle pupille, mi risponde: “Sì”.
C’è una festa a tema sadomaso in un nuovo locale sui Navigli, il Madame X. Mi presento vestito come andassi a un colloquio di lavoro. Finisce, questo party, su tutte le cronache cittadine, è pieno di giornalisti arrazzati e curiosi. Questa sessualità è pronta a diventare di massa, a elevarsi a norma, a integrarsi con ogni rapporto sessuale. La situazione, a detta degli esperti e delle esperte della comunità s/m, è da sempre questa: il sadomaso come culmine del sesso, le dinamiche di potere non sono che erotizzazioni traslate e viceversa. Parlare con questi personaggi, spesso monomaniacali, è avvilente. Il loro lessico è elementare, la loro sintassi è dialettale. La festa al Madame X culmina in uno show dove tre “professionisti della scena” (la scena bdsm, all’inglese) si esibiscono in uno spettacolino a base di finte frustate e gemiti eccessivi. I maschi sono l’80% del totale del pubblico e il 20% rimanente è accoppiato. Un sosia di Adriano Panatta, chiamato sul palco per ricevere schiaffoni da una delle performer, si avvicina al direttore della rivista e gli dice che “è stata la serata più bella della mia vita”. Dopo nemmeno una settimana, il locale è chiuso, la gestrice è fuggita in Venezuela, non ha pagato, c’è dietro un affare di cocaina abbastanza consistente, le edizioni cittadine dei quotidiani si scatenano.
Conosco decine di amanti del sadomaso.
Parlo con loro e non “pratico mai”.
Cerco stimoli.
Mi innamoro di una lesbica, ovviamente senza corrispondenza di senso alcuno.
Con il ragazzo dei Servizi e un’amica della lesbica mi presento a un ulteriore party, organizzato verso la Barona, in un locale dove normalmente si pratica scambio di coppie. Il locale è strapieno di amanti del bdsm convenuti da mezza Italia. Si inscenano performance di gruppo: signorine che camminano sopra un tappeto umano, maschi vestiti stesi che si prestano a essere calpestati. Una si toglie una scarpa e sfonda la bocca spalancata di un mio coetaneo, prono sul di lei piede. Appaiono Drag Queen: travestiti in forma di odalische stellari. Mi siedo accanto a una di loro. La musica è dozzinale.
Mi dice. “Io sono nata così, già regina”.
“Nel senso che comandi?”
“Sempre, anche nella vita reale”.
“E ti obbediscono?”
“Sì. Anche tu mi devi rispetto.”.
Silenzio.
“E adesso o fai o te ne vai, perché standomi accanto mi allontani i candidati schiavi”.
“Cosa dovrei fare?”
“Ti inginocchi e cominci a leccarmi le scarpe”.
“E poi?”
“Poi risali lungo le calze e arrivi agli slip. Lì ti strusci”.
Gli slip sono minuscoli, gonfi del membro eccitato.
“E allora io ti porto alla toilette, tu mi segui a quattro zampe. E lì mi supplichi di dartelo”.
Mi allontano.
Parlo con una coppia emiliana le cui uniche passioni sono il sadomaso e le Harley Davidson.
L’editore è in fibrillazione, completamente coperto da una tuta di latex nero, magrissimo, fotografa tutti i partecipanti, questo è l’evento, il servizio di apertura del prossimo numero. Mi ricorda Louis De Funes che imita Fantomas.
A casa sono solo, con le mie devianze trattenute, gli psicofarmaci nell’armadietto del bagno microscopico, che culmina con la doccia a tenda, a contatto di una finestrella che non trattiene il freddo esterno.
A casa scrivo.
Scrivo un giallo, per non pensare. Scrivo un giallo che ha per protagonista il Contatto di Roma, l’uomo dei Servizi, a cui dò un nome falso e distante per sonorità da quello autentico, Guido Lopez.
Passano, come cicloni, nel raggio cerebrale, a una a una, ossessioni di cui il Dies Irae sembra avere decretato l’espulsione dalle proprie pagine. Non funziona più. Non posso staccarmi di dosso le larve neroviola né vive né morte delle immagini traumatiche, staccarmele come sanguisughe e ucciderle pressando sulla carta.
Posso soltanto fingere.
Fingere di scrivere. Scrivere finzioni.
Il giallo è una finzione che mio padre ama: scrivo un giallo.
Sono talmente disperato (e tremo) che cerco di addormentarmi alle dieci di sera. Non riesco a leggere. Frantumo le parole con una vista instabile.
Una notte non dormo.
E’ sempre più spesso così: non dormo.
Telefono a una delle tipe del giro sadomaso.
Un’avvocatessa. Sta a Cremona.
E’ pronta, ha voglia.
Inforco la mia moto Guzzi, disastrata, nel gelo. Vedo la luna.
Impiego più di un’ora e mezzo ad arrivare a Cremona.
Nella mente si accalca quello che non è stato, che non ho potuto.
Quando è stato chiuso il breviario della speranza?
Perché risalgono, sempre, continuamente variate, le immagini della colpa incerta ma ghigliottinante, che recide?
Il mio bilancio. La mia gioventù ignorata, gettata via, decaduta come un elemento chimico precocemente consumato.
La sagoma biancoverde di mio padre, al ralenty, che cade sul marciapiede ubriaco e perde l’incisivo, la corsa al pronto soccorso, il suo alito indescrivibile prima che riacquistasse coscienza, tre ore accanto a lui in carrozzella. Papà, papà mio, che hai compiuto quanto dovevi e potevi compiere, come posso aiutarti a strapparti di dosso la larva neroviola né viva né morta del tuo senso di colpa, della tua mania di inadeguatezza, questa rigidità degli arti, questa preclusione agli abbracci, questo pudore per le emozioni che è carcerario, papà mio? Mia madre confusa, gettata nell’esistenza, che piange, piange all’anniversario in cui sua madre, tramortita dagli elettrochoc, si è lanciata nel vuoto, mia mamma che piange, che equivoca, che sbaglia, che non invecchia, che non si accantona e reclama una scena, reclama l’attenzione che ogni abbandono le ha sottratto, piangendo e piangendo, la fragile, la pallida, che dispercepisce e ha terrore e paura, e si ammala di malattie non vere, mamma, cosa posso fare io per te, per cancellarmi da te, per essere liberato dalle tue rivendicazioni commiste a colpa, il tuo amore che esige l’equivalente amore? Gisella, ce la fai? Riesci? Tu riesci? Maura, cosa ho fatto? Mi avresti protetto da questo sisma continuo, da questa precarietà imbelle, che mi piega fino a baciare i piedi fra un’ora a un’avvocatessa cicciona, pur di respingere il comando silenzioso, imperativo, che emerge la notte da quella Sostanza luminosa e muta, ammutolente, Dea bianca che castra senza movimento? Dove sei? Sposata? Sei felice?
Sogni, sorelle immagini che mi abbandonate, è tutto così, questo fievole spegnersi di giorno in giorno, senza sentire, senza percepire, senza urlare? Dove siete amici cari? Dove siete, umani?
Mi getto nel gelo, corro nel gelo, mi getto via.
Chi non si conquista, si perde.
Non tutto è perduto, ma io sì.
Posteggio la moto in piazza del Duomo a Cremona.
L’appartamento dà su piazza del Duomo.
La donna è sgradevole, cicciona.
Mi dice: “Leccami i piedi”.
Intervista al Miserabile sul Dies Irae et alia

DIES IRAE: INTERVISTA A GIUSEPPE GENNA
di Gianluca Mercadante
Esiste una zona della letteratura, italiana ed estera, che racconta una storia differente da quella che conosciamo. Una storia dai contorni familiari, forse, ma dai contenuti obliqui, distorti, o per meglio dire chiariti, resi vitrei – e perciò potenzialmente pericolosi – dall’occhio dell’autore. Siccome un libro si perpetua poi grazie a un altro sguardo, uno sguardo moltiplicato – quello dei lettori –, vale allora la pena arginare il rischio e, democraticamente, lasciare che certe cose escano, ma solo in forma di finzione. In modo che si possa, democraticamente, dubitarne.
Dies Irae di Giuseppe Genna (Rizzoli) viaggia su queste frequenze. Racconta un’Italia il cui cordone ombelicale parte dal fondo di un pozzo artesiano dove ha perso la vita un bambino, anni fa, e l’evento fu seguito per ore, a reti unificate (le uniche due reti allora in fun-zione), da tutto il Paese. Quali germi ha piantato, fatto germogliare e coltivato nel tempo un evento simile? Genna risponde al quesito con un libro di 760 pagine, magmatico, pieno di trame e controtrame, sottintesi e grida a squarciagola. Un libro positivamente impegnativo, che qualche critico afferma sarebbe stato preferibile sfogliare nel salotto di casa con un paio di cesoie alla mano.
Ci sarà un motivo?…
I trent’anni circa, di Storia italiana che il tuo romanzo riesamina attraverso la fiction, partono dalla morte di Alfredino Rampi. L’evento mediatico più sensazionale e moralmente rilevante di una storia italiana parallela, quella televisiva, è un centro nevralgico per tutto il resto? E quale peso ancora mantiene, secondo te, nell’immaginario collettivo?
La televisione domina attraverso la retorica letteraria. Ha mutuato tutto dalla letteratura: persino il telegiornale, non dico fiction esplicitamente super-letterarie come 24 o Lost. Ciò si deve alla filiazione dal cinema: uno si legge, in Nôtre Dame di Hugo, il capitolo “Parigi a volo di uccello”, e poi mi dice se il cinema non è nato dalla letteratura, o se il montaggio non è un espediente di retorica letteraria. Il problema è, come osservi tu, la questione di una nevralgia politica, che è una patologia dell’immaginario. In questo senso, siamo dominati da una distorsione della retorica letteraria. Vite senza suspence imbevute dell’idea-suspence, che conoscono gli esiti della suspence e se li attendono come una conferma pavloviana – sono sature di una suspence dagli esiti straconosciuti: è una plausibile descrizione non soltanto dell’Italia, ma delle società cosiddette “avanzate”. Qui, in questo punto nevralgico, è auspicabile che il bisturi della letteratura apra ferite non suturabili. Siamo passati da una “Guerra Fredda” a una “Guerra Interiore”: il campo di battaglia è l’immaginario, e le armi esplodono colpi di immaginario. O gli artisti, e soprattutto gli scrittori, si rendono conto di questo, oppure non c’è niente da fare: bisogna attendere un impoverimento generalizzato, perché quando la sopravvivenza intacca la placidità della vita, allora l’immaginario si rimette in moto da solo, senza ausili o surrogati letterari. Alfredino Rampi è il segnale della cattiva interpretazione di questa potenza dell’immaginario nella sua distorsione televisiva: tutti si ricordano di quella tragica vicenda, più come pietra miliare della propria esistenza che come dramma umano dell’altro. È eliminata, come si vede, la pietà, cioè l’empatia. Se l’immaginario è distorto, l’empatia si dissolve e la comunità non esiste più – resistono le icone, e Alfredino è l’oggetto primario iconico, non un corpo, una mente, uno spirito che inchioda nella sofferenza, nella cecità della tragedia, nelle sue assurde coincidenze, nella sua fatalità. Simili considerazioni arrivano soltanto dopo, sul piano intellettuale, non su quello del cuore o del pianto.
Il narratore Giuseppe Genna, che nel libro è in prima persona parte integrante degli eventi, si dichiara stanco di essere uno scrittore di thriller. Cosa ti ha spinto a procedere in altre direzioni? O, se preferisci, in direzioni altre?
Ci sono due Giuseppe Genna che scrivono: uno scrive il Dies Irae edito da Rizzoli, l’altro scrive il Dies Irae di cui si parla nel libro – testo labirintico, ‘argonautico’, che non si capisce cosa sia. Lì miro, lì risiede il regno dell’interiorità immaginifica a cui tendo. Il thriller è una piccola forma canonica che mi infastidisce per la sua inclinazione a ‘chiudere’ la storia, a dispensare consolazioni e immagini prefissate, a fornire risposte più che domande. Non esiste genere che potrebbe soddisfarmi e, infine, non esiste romanzo che possa soddisfarmi. Il puro desiderio sarebbe di non guidare il lettore, di esporlo a folgorazioni medianiche che non siano né prosa né poesia (anche qui, rilevo la cristallizzazioni di canoni morti: non esiste differenza tra poesia e prosa). Vorrei un urlo in forma letteraria, una forma sconcertante e nera, che vada costruendosi nell’impazienza. Ciò non ha nulla a che vedere col fatto che la narrazione sia una forza popolare. C’è però una fase dell’onda popolare – onda di ricezione – in cui ciò che non sembra popolare al momento viene escavato, e dopo molto, se non si è sbagliato, diverrà popolare. In questa fase d’intercettazione desidero pormi, del tutto pacificamente, senza disturbare nessuno. Per fare esempi: Petrolio di Pasolini è ancora avanti trent’anni rispetto a una ricezione comunitaria, Burroughs ancora di più. Non importa, qualcuno deve inocularsi negli osculi aperti, anche rischiando la clandestinità e – elemento fondamentale – l’errore marchiano.
Nell’altro Dies Irae, il romanzo nel romanzo, in realtà molto più simile a una sorta di installazione narrata, si ascoltano echi di filosofie induiste. Ci parleresti della genesi di quel testo, rimasto integralmente un inedito, e di come hai ritenuto fosse opportuno inserirne dei brani nel Dies Irae invece pubblicato? Inoltre: cosa c’entrano induismo e fantascienza?
L’unica persona, finora, che mi ha raccontato la struttura del Dies Irae per come effettivamente è stata organizzata, è la critica, traduttrice e teorica della letteratura Donata Feroldi, che insegna a Siena. La struttura è un “mercuriale”, il simbolo alchemico che si osserva brillare a ogni farmacia: ci sono due serpi intrecciate, e si tratta dei personaggi Giuseppe Genna e Paola C.; le serpi finiscono per guardarsi e riconoscersi alla sommità del bastone di Mercurio, e qui il bastone non c’è: le vicende degli altri personaggi, in mimesi con la mia contemporaneità metropolitana, sono il vuoto pneumatico, qualcosa che sembra predeterminato ed è casuale, potrebbe non esserci e invece c’è, perché anche il vuoto esiste. La progressione delle vicende personali di GG e PC è esposta secondo i canoni alchemici propri della Nigredo: fase in cui il destino è traumatico ed emergono i nodi psicoemotivi che bisogna sciogliere. Il libro vive di simmetrie: a un falso inizio, che è indice della fiction a cui si assiste, corrisponde un finale a cui è impossibile assistere e dove, sulla scorta della Waste Land di Eliot (ma anche dei suoi Quartetti) io utilizzo un montaggio da Gaudapada, il fondatore del non-dualismo induista, l’equivalente del nostro Platone esoterico o del Plotino delle Enneadi. Si tratta di un omaggio all’Essere inteso come oltremondano che sta qui e ora, nel mondano. Sia detto, in sintesi, che alchimia e non-dualismo induista, nella mia lettura, sono la stessa cosa: alludono alla possibilità della fine della specie, affermandone l’illusorietà in quanto configurazioni dell’essere, che invece non può esaurirsi. È il punto in cui “transumanar significar per verba non si porìa”. La fantascienza è l’immagine del non-dualismo: la mia fantascienza simula l’estinzione per raccontare un altro inizio, l’inesauribilità delle configurazioni, come figura dell’inesauribilità dell’essere.
Sarà certamente la più scontata e banale delle domande, ma viene spontaneo chiedersi: cosa c’è di vero e cosa c’è di costruito in quello che hai raccontato?
Tutto è vero e tutto è finto. Il Giuseppe Genna del romanzo ha vissuto e vive le situazioni narrate, anche se certi particolari sono occultati o travestiti. Gli altri personaggi sono assemblaggi di stralci di vicende vissute da persone reali. La finzione sta nel fatto che, se io descrivo molto bene il latte a una persona che non lo ha mai assaggiato, compio una finzione. Sto intendendo che il libro diventa un invito all’esperienza del lavoro sull’“io” di cui narra a sbalzi e strappi. Ciò che è vero è finto, in questa prospettiva.
La controinformazione diventa l’informazione. Una formula, questa, che più volte ribadisci nel Dies Irae. Ma in un’Italia che legge infinitamente meno di quanto si scrive e si pubblica, la narrativa rappresenta, secondo te, uno strumento di controinformazione? E come si pone, dunque, secondo una tale logica?
Da un lato la narrativa ha i suoi problemi, che sono di doppio regime: il romanzesco non parla più, la televisione (e tra un po’ altri media) lo fanno meglio. Ciò non significa che il romanzo sia morto: significa che è necessario ripensare la narrazione. Tra queste innovazioni interne, c’è da registrare l’idea di una narrativa che sia storica e quindi direttamente controinformativa (il romanzo di genere storico, che è all’origine del “genere romanzo”, è l’immediato futuro, purtroppo; per felice sorte alcuni scrittori, tra cui vanno citati Evangelisti e i Wu Ming, rimettono in gioco non l’idea di romanzo storico, ma di romanzesco storico, tentando la fabula infinita che è il nucleo di fusione della narrazione). Era necessario che accadesse, soprattutto in anni in cui la controinformazione era in mano alla destra più becera o non esisteva. Ora sussistono mezzi controinformativi che permettono un accesso orizzontale al dubbio sulla storia. Il romanzo pone invece il dubbio sulla Storia: sull’ultimità della vicenda umana, sugli universali. Servirebbe non un romanzo controinformativo, ma un controromanzo informativo. Da questo punto di vista (oltre che da altri), il Dies Irae è un fallimento cercato e voluto, così come capita nella fase alchemica di Nigredo: io ho tentato di sbarrare una strada che non portava a nulla, per aprire verso squarci di cui nulla si conosce. È l’antico artigianato dell’immaginario.
Quali sono stati gli scrittori che ti hanno maggiormente influenzato, nel corso della tua formazione di autore?
Devo citare la formazione tardiva fondamentale: Victor Hugo. Per quanto concerne la formazione dall’inizio, la sequenza è questa, all’incirca: Lovecraft, Dante, Eliot, Celan, Wallace Stevens e Zanzotto; con gli inserti, per me imprescindibili, di Kafka, Burroughs e, molto tardi, la linea che porta a DeLillo, partendo da Dos Passos. La centralità va comunque assolutamente a T.S. Eliot.
Nel primo capitolo, che tu stesso citavi poco fa, si coglie un omaggio a Manzoni. Perché accostare la figura del narratore prescelto dalla scuola italiana a icona di unico vero scrittore italiano per antonomasia, rispetto alla morte di Alfredino?
Si pensa che il romanzo italiano, o addirittura la prosa in genere, inizi nella modernità italiana con Manzoni. Tesi di finzione, a mio avviso: inizia con lo Zibaldone di pensieri di Leopardi, che è il modello stilistico di tutto il mio libro, tranne appunto che del primo capitolo. Ho usato dunque una lingua manzoniana che è primigenia per un fraintendimento, al fine di realizzare una finzione in qualcosa che è considerato tragico senza che vengano attualizzati i contenuti del tragico (la vicenda di Alfredino in diretta/differita). La narrazione dello Zibaldone meriterebbe una reincarnazione del critico Mario Fubini per essere canonizzata secondo la sua grandezza: che deriva, peraltro, da Vico, che deriva a sua volta da Giordano Bruno, il quale deriva a sua volta da Dante. È una linea “calda” (per dirla con Giuseppe Guglielmi), interrata, che a mio parere corrisponde alla fuoriuscita dalle secche della crisi narrativa attuale. C’è da recuperare la medianità della narrazione come infinito intrattenimento, come infinitudine di storie non terminate, che gemmano storie ulteriori e universi in espansione…
Dopo il Dies Irae cosa farai? Si torna al thriller?…
Sto scrivendo, per Mondadori, un romanzo che sarà difficile definire di finzione. È sì il genere storico, ma condotto secondo metodi anatomopatologici, in cui, per una pressione etica estrema, mi è impossibile inventare. Qualcosa al limite tra la biografia e l’assalto alla letteratura, che viene schiacciata nella sua “penultimità”: essa non offre redenzione possibile, e si deve vergognare del fatto che è dalle sue devianze criminogene che scaturisce oscenità allo stato puro.
Gianluca Mercadante (a destra) è nato nel 1976 a Vercelli, dove vive e lavora. Ha pubblicato nella collana MILLELIRE il racconto lungo McLoveMenu (Stampa Alternativa 2002, Premio Parole di Sale), il romanzo Il Banco dei Somari (NoReply, 2005) e la raccolta Nodo al Pettine – Confessioni di un parrucchiere anarchico (Alacràn, 2006). Decine di suoi racconti sono apparsi in antologie e riviste. Scrive inoltre di critica letteraria per «Cluster», «Fernandel», «Inchiostro», «Orizzonti», «Pulp» e «Kurtz».
Dies Irae, l’infinita recensione: su Quaderni d’altri tempi
[Su Quaderni d’Altri Tempi – Culture e Fantascienza di Massa, a mia detta, e non solo mia, una degli e-zine di maggiore qualità della sfera letteraria in Rete, Adolfo Fattori recensisce il Dies Irae con una competenza e completezza di riferimenti che mi lascia stordito: gli autori che cita, ravvisandone tracce nel romanzo, sono còlti con precisione geometrica. Non posso che ringraziare! g.g.]
Più di vent’anni di storia d’Italia – quelli dall’estate del 1981 ad oggi (con una testa di ponte immaginaria nel futuro) – riletti sulla base di una ipotesi paranoide quanto seducente e illuminante: la tragedia di Vermicino come occasione di distrazione dall’esplodere dello scandalo della Loggia P2 e dagli inizi – ancora sotterranei – del potere di Berlusconi. La nascita, insomma, di una nuova configurazione del sistema di potere, che a partire dalla rivoluzione elettronica e televisiva riorganizza i rapporti interni ai poteri forti. Il tutto in una cornice fra il fantascientifico e l’horror che si svolge sull’asse Milano/Berlino, per passare per Marte, la zona degli asteroidi e l’Aldilà e spingersi nel futuro.
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Mancassola: Rileggendo il Dies Irae
di MARCO MANCASSOLA
[dal sito ufficiale di Marco Mancassola]
Ho letto il Dies Irae di Giuseppe Genna due volte di fila, nel corso dell’estate, ed era una cosa che non facevo da anni. Praticamente da quando ero ragazzino. Negli ultimi tempi mi era successo solo con racconti audiovisivi (Mulholland Drive, oggetto di visioni ripetute e ravvicinate -come del resto si preannuncia il nuovo Lynch, Inland Empire, per adesso visto appena una volta al Festival di Venezia). Rivedere non tanto con l’obiettivo di vedere ancora, né con l’improbabile obiettivo di capire meglio, ma semplicemente per assorbire il rimanente.
Ci sono storie, sempre più rare, che possono essere ingerite più volte, e ancora riescono a offrire nutrimento. Lo possono fare perché sono dense, immensamente ricche, misteriose, hanno superfici mille volte intarsiate, e nascondono al loro interno sacche energetiche impreviste, invisibili, che nessuno può assorbire in una volta e che forse nessuno, addirittura, potrà mai assorbire del tutto. Si tratta di opere non assorbibili, opere condannate a solitudine e grandezza, perché non saranno mai del tutto capite, mai del tutto decomposte ai loro elementi fondamentali, né del tutto assorbite dal flusso della comunicazione contemporanea. Opere che staranno per sempre fuori dalle banalizzazioni, dalle commercializzazioni, dall’impero della chiacchiera, dalle schedine del club del libro, opere che saranno messe sul mercato ma resteranno aliene al mercato, aliene al flusso, calcoli durissimi nei reni del mondo. Opere che non si lasciano nemmeno riassumere, non esauribili e per questo infinite. Pozzi artesiani dotati di mille strati, nessuno dei quali è l’ultimo. Il Dies Irae è un’opera del genere.
Dies irae su Brik/Libri: “Un Gilgamesh nazionale”
di GIUSEPPE PETRALIA
[da Brik-Libri]
Giuseppe Genna – imprevedibile ed eclettico autore che divide la sua esistenza tra studi e pratiche di intelligence, esperienze al limite del soprannaturale, pubblicazioni di stranissimi thriller che hanno conquistato molti Paesi, come gli Stati Uniti – ci conduce in un maelstrom impressionante, che dal 1981 arriva a oggi, allestendo una saga corale, una specie di epica contemporanea in cui nessun personaggio è un eroe omerico, ma ha qualcosa da dire e molto da soffrire.
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