Le righe che seguono sono tratte dalla Poetica di Aristotele (1, 4 e 9) e mettono sul piatto il problema che devo affrontare nell’intraprendere (dopo lo studio e la meditazione dell’immensa materia) un libro, a cui ho accennato, che mi pone gravissimi problemi drammaturgici e di rappresentazione:
“L’epopea e la tragedia, come pure la commedia e la poesia ditirambica, e gran parte dell’auletica e della citaristica, tutte quante, considerate da un unico punto di vista, sono mimesi [o arti di imitazione]. Ma differiscono tra loro per tre aspetti: e cioè in quanto o imitano con mezzi diversi, o imitano cose diverse, o imitano in maniera diversa e non allo stesso modo. […] Infatti lo storico e il poeta non differiscono perché l’uno scriva in versi e l’altro in prosa […]: la vera differenza è questa, che lo storico descrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere. Perciò la poesia è qualche cosa di più filosofico e di più` elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare.”
Non sono mai stato un partigiano dell’ipse dixit, ma ho sempre considerato abissale il pensiero aristotelico, e particolarmente per quanto concerne l’estetica, e ancor più particolarmente nella componente di riflessione sul tragico.
Ora, la mia situazione è che io devo (di ciò sono sicuro) traslare il tragico in forma di romanzo; ma di un romanzo che non può essere finzione – affronto una materia dove non mi è dato inventare. E tuttavia, nel compiere quest’atto, che renderà visibile la penultimità della letteratura (il che sarà l’ultimo degli scopi, perché il primo scopo sarà di servire un enorme Coro e il secondo di dimostrare il Male per come è), io romanziere sarò costretto a non essere uno storico, eppure a essere profondo filosoficamente e metafisicamente (poi magari non ci riesco, ma qua parlo delle intenzioni). Devo sorpassare la distinzione aristotelica e lo devo fare perché il mio oggetto di narrazione è nello stesso tempo e sotto il medesimo aspetto particolare e universale. E lo devo fare proprio colpendo al cuore la Poetica di Aristotele: la mia tragedia sarà una tragedia in cui la ybris umana non coincide con gli esiti della tragedia, anzi le si oppone: sarà una tragedia in cui l’unico personaggio tragico è il Coro. Come si può fare questo? Immaginiamo un disco in vinile: la tragedia sta nel vinile, ma io devo raccontare il buco centrale che causa la rotazione del disco. Raccontare qualcosa che è considerato come strapieno (direi: il massimo del pieno) in modo che si percepisca che è vuoto. Dare figura al vuoto in una tragedia, asserendo che quel vuoto non è tragico per niente, ma è semplicemente inesplicabile o spiegabile con una quantità pressoché infinita di prospettive. E comunque, a differenza del tragico, quel vuoto che sembra essere pieno, deve risultare assolutamente privo di pietà e di empatia, nonostante appaia come (letteralmente: abbia l’apparenza di) umano. Quindi, in questo caso, la catarsi è impossibile. E’ possibile solo se si osserva il Coro.
Non so come fare.
Non so come compiere l’opera.
La nebbia è pressoché totale e nel mio intenso studio trovo soltanto figurazioni da evitare e il divieto assoluto di immaginare (se non nel Prologo e nell’Epilogo, che saranno immaginari – e si spera che lo saranno senza errori).
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