Mentre sto lavorando al nuovo romanzo, ponendomi problemi di natura etica e di natura estetica (intimamente intrecciati, in questo caso che può dirsi eccezionale: i protocolli di rappresentazione sono al culmine dell’ambiguità, sono sbalzato fuori dall’invenzione e mi domando cosa devo fare su pagina per dare non-vita a una vita: la vita della Cosa che fa il Male), lavoro anche a una pièce teatrale.
La stesura del testo è già completa, ma non basta: per motivi drammaturgici essa va modificata, perché canonicamente il teatro moderno e contemporaneo non può accettare un equivoco quale il mio testo provoca: cioè l’ingenuità, il dilettantesco del racconto che elimina il motore dell’azione e rompe il legame relazionale tra i personaggi, mantenendone apparentemente una finzione.
Lavorerò, dunque, a una versione da messa in scena di questo testo che rimarrà comunque, nella sua prima stesura, la versione definitiva. Ciò che mi ha spiegato ieri il regista della pièce è tuttavia fondamentale e deve essere accolto come suggerimento drammaturgico per muovere in finzione realistica la figura della Cosa che fa il Male nel romanzo: è il discrimine preciso che mi permette di non scivolare nel saggistico e allo stesso tempo di non praticare il romanzesco come finzione pura, invenzione o allegorema, e in contempo lasciare vuota, quale è, la figura in oggetto, tenendo presente che essa è stata storicamente “vuota”, nonostante il mito consolatorio che l’ha attorniata come osceno fumus o fumus dell’osceno – il che è lo stesso.
E’ una componente della poetica fondamentale, quella a cui mi richiamo. E valga sia per il teatro sia per il romanzo quanto ebbe a dire nell’88 Heiner Müller, il geniale drammaturgo e regista tedesco autore dell’impareggiabile Hamletmaschine (’77) – intervista di cui pubblico brani qui di seguito.
Da un’intervista pubblicata sul Manifesto, il 19 aprile 1988:
“In Europa Occidentale”, spiega Müller, “il teatro ha perso il suo rapporto con la società. Il sintomo è il dominio del registi. Il teatro europeo si è trasformato in un duello tra registi famosi: chi ne fa le spese sono i testi e, a volte, gli attori. […] È difficile pronunciare grandi frasi, ma se il teatro ha una funzione è quella di rendere la realtà impossibile. Non mi interessa la riproduzione della realtà sulla scena […], come sta avvenendo all’Ovest, come difesa dall’invadenza di cinema e tv. Mi interessa al contrario difendere la scena dalla realtà, portare in scena un’altra dimensione, un altro spazio, un altro tempo. Nell’ottenere questa distanza dalla realtà, c’è una sorta di godimento, un vero e, proprio divertimento, Si tratta di togliere gli spettatori dalla realtà in cui vivono per fargliene vedere un’altra: lo straniamento brechtiano non è altro che questo. Riso e pianto possono ottenere questo effetto: instaurare un altro rapporto con il vissuto [sottolineato mio. gg]“.
Questa insofferenza, questo rifiuto del reale, e insieme lo sgretolamento dei grandi sistemi ideologici sono alla base dell’estetica del tradimento che sottende l’opera di Müller. E il tradimento ritorna anche, in forme imprevedibili, nel rapporto tra Müller e i suoi testi, tra i suoi spettacoli e il pubblico, mentre sullo sfondo continua a muoversi il gran teatro della Storia.
“Recentemente ho portato in scena un testo che avevo scritto nel ’56. Der Lohndrucker. Non ho avuto bisogno di cambiare neppure una parola, ma oggi la verità e il messaggio sono diversi: la storia ha raggiunto e superato il testo. È molto interessante proprio la contraddizione tra le intenzioni e il prodotto. In Lohndrucker c’è un operaio che dalla prima all’ultima scena ha le scarpe rotte, e non gli danno mai la contromarca per comprare quelle nuove. Alla fine, in un gesto di sfida, getta le sue scarpe rotte all’Uomo Politico e gli dice: ‘In America gli operai hanno l’automobile ma non c’è il socialismo. Qui da noi c’è il socialismo ma gli operai non hanno le scarpe’. L’uomo del partito gli risponde: ‘Negli Usa l’auto appartiene agli operai, ma a chi appartengono gli operai? Qui ci sono le contromarche per le scarpe, ma le fabbriche appartengono a noi’. Quando l’ho scritto, il dialogo conteneva una classica argomentazione stalinista e lo ritenevo una cosa seria e positiva. Adesso invece ridono tutti come matti: tra il pubblico c’è chi deve aspettare otto, dieci anni per un’auto e il dialogo sembra una barzelletta. La reazione si è ribaltata: ma erano le mie intenzioni a essere sbagliate”.
Tra i maestri di Müller si citano spesso Beckett e Genet, ma soprattutto Brecht (di cui viene ritenuto il più conseguente e perciò paradossale erede). E anche Artaud, grande profeta del teatro di questi decenni.
“A proposito di Artaud, vorrei citare Peter Brook, quando afferma che la prima volta in cui ha visto praticare le sue teorie sul Teatro della Crudeltà è stato negli anni Cinquanta, quando ha assistito a uno spettacolo del Berliner Ensemble: entrava nella coscienza, distruggeva la realtà proprio nello spirito di Artaud. Ma il grande problema di Artaud come autore teatrale era di non restare semplice osservatore per diventare egli stesso oggetto dell’osservazione, oggetto della catastrofe. Brecht invece alla fine del ’53, quando ha iniziato a trovarsi egli stesso sul rogo, si è irrigidito nella posizione di osservatore (da questo punto di vista è morto al momento giusto, prima della rivolta d’Ungheria). Oggi l’autore non può bruciare soltanto i suoi personaggi: deve mettersi egli stesso sul rogo. È quello che ha fatto Artaud, ed è forse la ragione per cui non è riuscito a realizzare il suo teatro”.
Scopri di più da Giuseppe Genna
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“In Europa Occidentale”, spiega Müller, “il teatro ha perso il suo rapporto con la società. Il sintomo è il dominio del registi. Il teatro europeo si è trasformato in un duello tra registi famosi: chi ne fa le spese sono i testi e, a volte, gli attori. […] È difficile pronunciare grandi frasi, ma se il teatro ha una funzione è quella di rendere la realtà impossibile. Non mi interessa la riproduzione della realtà sulla scena […], come sta avvenendo all’Ovest, come difesa dall’invadenza di cinema e tv. Mi interessa al contrario difendere la scena dalla realtà, portare in scena un’altra dimensione, un altro spazio, un altro tempo. Nell’ottenere questa distanza dalla realtà, c’è una sorta di godimento, un vero e, proprio divertimento, Si tratta di togliere gli spettatori dalla realtà in cui vivono per fargliene vedere un’altra: lo straniamento brechtiano non è altro che questo. Riso e pianto possono ottenere questo effetto: instaurare un altro rapporto con il vissuto [sottolineato mio. gg]“.