Oggi, discussione con un amico scrittore. Non crede alla possibilità di uno spazio totalmente sganciato dall’esito letterario, non crede al mentre si fa letteratura, mentre si sta scrivendo: si fa sempre letteratura, per lui, la letteratura si sta facendo comunque, negli esiti attuali. Io non ne sono convinto. Avverto, personalmente, la necessità di un salto: un salto di retorica, un salto nel tempo che sia un futuro avanzato. Non propalo la trita teoria dell’arte per l’arte, ma quella della letteratura come gioco assoluto, come momento in cui “io” affronta “io”, nel seno di se stesso: e scompare per incanto (letteralmente). Quel preciso momento mi interessa. Come teorico, irrito, se formulo questa necessità personale, che non ha riflessi se non per chi è disposto, leggendo, a praticare il superamento delle strutture narrative consolidate e l’idea di una lingua che significhi solamente tutto il significabile (la lingua può accogliere più che tutto il significabile; tutto il significabile è poco). Perfino ciò che ho finora fatto, cioè il nascondimento di questa pratica sotto strutture consolidate, è non visto, se l’atteggiamento non è quello di centrarsi sulla messa in discussione (una discussione priva di parole) dell'”io”, della lingua consolidata, delle strutture consolidate. Tutto ciò io chiamo “occidente” e intendo la degenerazione climatica culturale dell’occidente: è la caduta, ed è avvenuta molte volte nella storia culturale della specie. Revoco la possibilità di compiere quest’atto, ma l’enunciazione della revoca impone incredulità o scetticismo. Eppure i momenti veritativi dell’arte sono per me (ripeto: per me) questi – quando il non-comunicabile emerge, privo di parole, nel mondo, poiché esso stesso è qui e ora: fa il mondo umano. In questa direzione io interpreto questi due passi da Benjamin:
«… l’identità spesso affermata fra l’essenza spirituale e linguistica costituisce un paradosso profondo e incomprensibile … Eppure questo paradosso come soluzione ha il suo posto al centro della teoria del linguaggio. […] Il problema originario della lingua è la sua magia. […] Poiché la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile.»
(Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo)
«La comprensione della concezione platonica del rapporto tra verità e bellezza è non soltanto il desiderio supremo di ogni filosofia dell’arte, ma anche uno sforzo insostituibile per determinare il concetto stesso di verità. […] L’idea è qualcosa di linguistico, più precisamente: qualcosa che, nell’essenza della parola, coincide con quel momento per cui la parola è simbolo.»
(Il dramma barocco tedesco)
Quando il simbolo, qui inteso fuori da ogni ideologia romantica, è tale, il non-comunicabile è anch’esso tale non attraverso la parola: essa non esiste più, perché la parola diviene simbolo ed è qualcosa di diverso dalla parola. E’ per questo motivo che ciò che trascina avanti l’arte (e indietro, verso l’arte dei primi nostri morti) è non la lingua, ma l’illeggibilità, che non ha nulla a che fare con la lingua: l’illeggibilità a cui mira l’arte non è altro che un’esposizione di simboli, ed essi sono “potenze” prelinguistiche, dinamiche, plasmabili, incarnabili per ritmi, finchè sfondano la parola, sembrano la parola, la traslano fuori dalla totalità dei significati.
Ma l’illeggibilità simbolica, oggi, può essere giocata solo idiosincraticamente: nel proprio cassetto o in una teca di museo. Se il simbolo è tale, da quei luoghi irradia: irradia silenzio. Se il simbolo non è tale, quei giochi sono stati giochi: momenti di libertà personali, misconosciuti dalla comunità che viene e che c’è già. Perché ciò che credo è che quanto detto, soprattutto nei passi da Benjamin, non esclude ma fonda il rapporto con la comunità con l’arte, anche se è chiaro che un simile rapporto è con una particolare comunità: una comunità a cui dell'”io” non interessa più l’illusione, una comunità che sente il fondamento dell'”io”, che è cosa diversa dall'”io”.
Questa poetica può avere oggi applicazione pratica soltanto grazie a situazioni di collettività aperta o di mecenatismo. Nel primo caso, alludo alla Rete. Nel secondo caso, alludo a una materia che non è industriale, ma non smette di essere popolare, poiché il popolo è la comunità che tenta i fondamenti dell'”io”, che non è “io”. E’ anche vero che il popolo oggi va, come ha detto un altro scrittore, terapeutizzato – poiché l’alienazione tende a trascinare il popolo fuori dall’essenza del popolo.
Farlo capire è più difficile che scrivere un romanzo o un libro di poesia, attualmente.
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