“C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è cosi forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Questo, che Benjamin descrive nel suo saggio Tesi di filosofia della storia in Angelus Novus, è la descrizione perfetta del rapporto che intrattengo con la materia del romanzo che sto scrivendo. Ho superato ampiamento i 2/3 della prima stesura, per cui la prova dell’officina teorica qui allestita può dirsi compiuta. Ciò che ha resistito all’incalcolabilità a priori della scrittura, è questo atteggiamento: il tentativo impossibile di richiamare in vita la storia fatta a pezzi e gli innocenti che hanno subìto il male. L’angelo sono io scrittore, è il lettore.
Ciò che Benjamin [a fianco] chiama “progresso” è ciò che costituisce il futuro dopo l’estinzione della materia storica narrata nel romanzo. L’impresa non è possibile. Comunque, qualcosa avviene. La letteratura non redime nulla, in particolare ciò che essa stessa (è una delle tesi del libro) ha prodotto.
Non dell’Angelus Novus scrive il geniale critico Peter Szondi, nello splendido intervento che vi propongo, uscito nel 1982 sulla rivista Aut-Aut. Scrive tuttavia del tempo, della vicenda di Benjamin stesso, facendo perno sull’Infanzia berlinese e giungendo esattamente alle medesime latitudini tempestuose in cui l’angelo benjaminiano constata la propria impotenza a compiere quanto dovrebbe e vorrebbe, mentre qualcosa comunque accade, sta accadendo.
Scrive infatti Szondi: “Benjamin non costruì l’arca solo per i morti, la costruì in grazia della promessa che egli aveva trovato nella sua propria vita passata. Giacché la sua arca non doveva salvare soltanto se stessa. Essa partì nella speranza di poter raggiungere anche quelli che avevano considerato come una feconda inondazione quello che in realtà era il diluvio universale”.
Per leggere lo straordinario intervento di Szondi su Benjamin [in formato pdf], basta cliccare qui sotto.
Szondi: Speranza nel passato. Su Benjamin
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