
Quando abbiamo creato l’immagine del Santo, è stato affermato da più parti, ne avremmo ignorato a bella posta la salda umanità che avrebbe intenerito i malandrini più indifferenti. Le cose stanno diversamente, è imperativo aggiungere dei particolari, per fare sì che si ravveda la pubblica opinione e la sua ridda di vocìi e spifferi con cui si gonfiano l’un l’altro i padiglioni auricolari e le viscere, di fanghi biologici scuri scuri dal pancreatico all’esantema, vediamola bene la Santità di questo Santo bambini, se proprio era tale e non una fanfara a bella posta fatta rindondare per le valli aerate dal loro sconforto. La plebaglia ha sempre bisogno del Santo, per mondarsi dalle proprie misticanze così immorali e assassine: vettovaglia, la plebe, con i sughi della crudeltà che le è propria, essendo nata e prosperata nel ruffo e nella crema, nella pustola e nella deiezione. Bah!, la plebe arrochisce le armoniche celesti, le fa plumbee e tossicchianti, orgoni che ululano corpi in periferie sconce, crapule che intingono nell’unto arti e animi, pus dell’umanaio, sciacquone e cerume del grand’orecchio divino che, senza la plebe, avrebbe pochi fedeli in terra, rachitiche vecchiette nelle cattedrali, sei o sette, con i ceri secchi che non s’appicciano tra le ghiere metalliche all’ingresso, bituminose polmonarie lanciate nelle processioni semideserte, zitelle incistate in salotti di polvere di velluto verdone, traforati con tanto di spille e praline da schiccherare con il gusto e il ritegno degli abbienti privi di rianimazione, lì immobili per sempre, tetri e gelidi, in attesa dello Zio, le tazze in ceramica sboccucciata con il vapore immobile nell’aria che pare gesso e la balia incarnita che fa da scolta all’esistenza nubile e intirchita della figliuola troppo prodiga, a sessant’anni e passa ancora quindicenne, coi suoi rossori trattenuti sotto il cerone sulle guance e tra le gambe, dove la materia non è più rorida!, ma un cespo sale e pepe che pare fatto di limature o filo di ferro, e crocchia e s’aggriccia, la pelle piagata si è incallita e lei sempre a sognare la bava dell’eterno giovane, la lingua che le schiocca sulla coscia da quand’era tornita e bianca a ora, che è trista e magra, con quelle trine di Brabante e quei vetri molati e quei mobili di mogano lucidato a cere acide, chissà che spezie lucidanti ci mettono, in quelle paste di cera per i mobili e le serrature, immobili, verticali, in questi salottini eterni, iniziati e mai estinti, dove sta l’estinzione?, sta tutta nell’esistere sempre immobili, diuturni, arenari come certi residui della geologia, che il bravo archeologo rassetta nelle terre intorno all’Indo, dove la civiltà si sporse un poco a farsi un poco più protagonista, agglutinando le sue idee sulla natura e sui propri genitali. Finché in quesi salotti, privi di aristocrazia e reggenza, dove non si vede mai il Marchese e la sessualità è tutt’altro che sopita, semmai è trattenuta in forma di cristallo e di tigna, arriva il Santo bambino ed ecco che le vecchie tornano a bagnarsi, s’appiccicano le cosce, fremono, hanno le grandi labbra, stanno male, poiché il Santo bambino promette loro l’estasi della carne risorta, un nuovo corpo che sarà lo stesso di prima, dilavato e riscacquato nel collagene, ciack ciack!, per fottere meglio e tanto e sempre senza interruzione e scoprire che questo è tutto il fondamento della teologia. Questi qui sono i vostri Santi, plebei! Ma noi ci passiamo sotto i banchi i bigliettini e arriviamo freschi alla soluzione del busillis, e in quei salotti proprio non ci mettiamo piede.
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