
di Carlo Bo
[dall’edizione Mondadori della “Recherche” nella collana i Meridiani, per la traduzione di Giovanni Raboni]
Il lettore ingenuo dovrà superare, come del resto hanno fatto un po’ tutti gli altri, un tempo di disorientamento e di sorpresa; chi ha in mente un tipo di romanzo, soprattutto chi si è educato su un’immagine tradizionale di romanzo, non può far altro in un primo momento che registrare questo profondo distacco, diciamo pure questa eresia. Non una trama visibile ma una mappa piuttosto intricata di soggetti che si accavallano e si sovrappongono, mai una situazione capitale da cui far derivare le ragioni particolari, soprattutto una diversa rappresentazione del tempo che resta alla fine la grande chiave di lettura della “Recherche”. Proust meglio di altri – forse dello stesso Joyce – ha ribaltato la condizione del romanziere, a suo modo è stato, più che un innovatore, un rivoluzionario ma, aggiungiamo subito, uno di quei rivoluzionari che non nascono per volontà, per un disegno di testa, ma lo diventano nel corso dell’opera.
Partito per raccontare le esperienze della propria vita, si è trovato a poco a poco a investire altri domini e trasformare la realtà in una filosofia dell’esistenza.
Non c’è dubbio che la terra da cui si è mosso per il lungo viaggio aveva dei connotati ben precisi; pazienti e scrupolosi indagatori della realtà ne avevano delimitato i confini, aggiungendovi delle intenzioni scientifiche, in modo da avvicinare, se non addirittura confondere, racconto e vita, realtà e interpretazione storica di questa realtà. Proust aveva fatto le sue letture, quelle che segnano sin da principio la giovinezza, secondo le leggi e le abitudini del tempo epperò aveva corso il mare naturalista ed era entrato in contatto con quelle che possiamo chiamare la filosofia e la scienza di quei romanzieri.
Cose che non ha dimenticato al momento della sua nuova e apparentemente opposta ricognizione, nel senso che ha sostituito strumenti che nel frattempo si erano consumati con nuovi schemi di interpretazione critica.
C’era così in lui un’ambizione naturale che lo portava a mettersi di fronte alla realtà del suo mondo con la memoria delle altre imprese, di quanto i suoi predecessori avevano cercato di attuare. Quasi si trattasse di un abito. Quando i suoi immediati predecessori – diciamo i romanzieri che si muovevano intorno a France e a Bourget – riconobbero onestamente che Proust era riuscito a fare ciò che loro avrebbero voluto fare e per cui avevano lavorato con grande lena, indirettamente accennavano a questo retroterra comune. Il dato ci serve per capire meglio l’origine complessa dell’opera proustiana e per sfatare la leggenda di qualcosa che nasce improvvisamente, spontaneamente.
Se così fosse stato, non avremmo modo di leggere il suo lungo e faticoso itinerario, non potremmo parlare dell’idea di scuola che sia pure da spirito libero e indipendente ha disegnato. E qui per capire attraverso quale rete di soluzioni sia arrivato alla “Recherche” bisogna puntare subito, oltre che sulle facoltà prime dello scrittore, sull’importanza dello spirito di imitazione: Proust, così come avrebbe fatto con i suoi personaggi, era portato a fondersi nell’immagine degli scrittori che più lo interessavano. Era apparentemente un modo di cedere, di abbandonare il confronto con gli altri alle prime difficoltà, mentre nella sostanza era una finta, quel tempo che riservava all’abbandono in effetti lo sfruttava ai fini dell’analisi e lo tratteneva per un esercizio critico di grande qualità.
La parte delle sue insinuazioni e delle sue perplessità costituiva alla fine il presupposto del suo riscatto: quello spirito fragile che giocava alla rinuncia e all’abbandono era piuttosto un’intelligenza vigile che cercava di andare al di là dei vari modelli e si riservava l’ultima parola.
Tale regola Proust non soltanto l’ha rispettata con i suoi scrittori e poi con i suoi personaggi, ma anche e soprattutto con se stesso. Ne abbiamo l’esempio splendente nella “Recherche”, in un’opera che non ha confini perché sono contrari alla sua natura.
Era quasi un modo di gettare continuamente la rete o, se si vuole, di sviluppare all’infinito ciò che per il romanziere tradizionale costituiva la somma definitiva, il risultato dell’indagine. Proust ha trovato un’altra dimensione psicologica, facendo dei suoi personaggi non delle statue, degli esemplari o – secondo la scuola naturalista – dei tipi, ma dei mondi suscettibili di infinite aggiunte, correzioni e riduzioni. La stessa struttura del suo libro contraddice la linea del grande romanzo ottocentesco che pure lo ha nutrito, rispecchiando questa condizione di perenne trasformazione; e ne abbiamo la conferma nel suo modo di comporre tutt’altro che lineare, anzi sottoposto a unassalto di precisazioni e di apparenti contraddizioni.Da questo punto di vista Proust ha corretto o meglio ha ribaltato il concetto di stabilità della verità, nel senso che là dove fino allo stesso France, che pure era un maestro del dubbio, ci si era fondati sull’unità, ha giocato al tavolo delle dilatazioni indicando la nuova strada delle verità minime e particolari.
Il lavoro del romanziere tradizionale era per questo molto più facile, bastava legare la risposta alla domanda, la soluzione al problema in modo da soddisfare il desiderio di tranquillità del lettore. Di conseguenza il romanzo proustiano non è mai una rappresentazione e, qualora se ne dovesse operare una vera riduzione teatrale o cinematografica, sarebbe ben difficile trovare il punto di passaggio superando quelli che restano i limiti stessi del teatro.
Il lettore era stato abituato (e lo è tuttora) per prima cosa a tracciare i confini dello scenario; una volta assolto questo compito, doveva procedere alla definizione del tempo (l’epoca, il quadro storico, insomma l’ambiente secondo il vocabolario naturalista e verista) e arrivare finalmente all’identificazione dei personaggi.
Da questi tre punti fissi sarebbe partita la trama. Ecco dove il romanzo ripeteva senza dirlo il teatro: i dialoghi erano legati alle varie situazioni e avevano la funzione di ridurre al minimo gli spazi, i vuoti del non detto o del superfluo. Sia pure in maniera e misura diverse Stendhal e Balzac operavano in tal senso, insomma la loro macchina era funzionale. Con Proust tutti questi criteri saltano o per lo meno vengono trasformati, specialmente nei risultati visibili, e questo perché al romanziere interessava arrivare alle sue verità dando per scontati i preliminari e le ragioni ufficiali.
Da questo punto di vista il suo tempo è maiuscolo, privo com’è di riferimenti visibili, la trama è moltiplicata all’infinito, così come gli ambienti prendono il posto dell’ambiente. È uno sminuzzamento, una sorta di triturazione della realtà che peraltro resta sempre a mezz’aria, fra il concreto e il sogno, fra la grande luce e un’ombra ancora più grande e profonda. Il romanziere tradizionale disponeva (e dispone) del fatto e quindi della realtà che lo ingloba a suo piacimento, e questo lo poteva fare perché alla fine si trattava di una finzione. Lo scrittore inventava la sua favola, il lettore non doveva far altro che accettarla o rifiutarla, ma una volta stabilito questo patto niente più sarebbe valso a contestarne la veridicità. Il falso non rientrava in questo giuoco della finzione.
Per Proust le parti cambiano, lo scrittore non si sente più padrone di nulla e là dove gli altri mettevano dei punti ben fermi e insostituibili non chiude mai, anzi fa di tutto per lasciare in sospeso l’accertamento delle sue verità parziali. Ciò lo ha portato a trasferire al personaggio i poteri e le virtù del narratore, lasciando però ben visibile questa lotta fra chi racconta e chi è raccontato, fra il narratore in crisi, in dubbio, e il personaggio che continua a sfuggire o si disvela col tempo, anche lui a piccoli passi e non per opera della sua volontà.
Gli eredi diretti degli Stendhal, dei Balzac e anche dei Flaubert erano assillati e tormentati dal bisogno di fare vero, il più possibile vero, talché il lettore doveva soltanto prendere atto del risultato e ripetere: sì, è così nella realtà.
Proust non crede più a queste cose e il suo essere e sentirsi erede dei grandi narratori dell’Ottocento va letto in direzione opposta, per cui il vero non è mai assoluto, fisso, insuperabile ma è labile, sf uggente, non catturabile.
Il tragico, che pure è uno degli elementi finali ma sostanziali della “Recherche”, non è mai deducibile dalle situazioni ma dalla condizione umana e da questa situazione generale di instabilità: così l’amore non dura, l’amicizia è un’illusione, l’arte è soltanto una frazione della nostra memoria interiore, mentre il tempo maiuscolo è un dio spietato e beffardo che cancella le nostre ambizioni e le stesse passioni.
Se si dovesse riassumere in un’immagine il senso della “Recherche”, bisognerebbe ricorrere a quella della catastrofe, sia pure silenziosa, priva di gesti, con un Dio attutito e irriconoscibile che la presiede. Come si vede, tutto dipende dalla dilatazione e dalla frantumazione delle scene, perché Proust non si accontenta di rifiutare questi schemi d’opportunità ma fa in modo che esulino dalle nostre possibilità intellettuali e si diverte a farli a pezzi, dimostrandone il fondo di irrealtà.
Le realtà proustiane non rientrano nel gran libro della realtà su cui si sono affannati i narratori tradizionali. Mettere a confronto, anzi anteporre queste realtà minime e sorde alla realtà intesa come arbitro della nostra vita, è stata la sua grande scoperta che dipende dalla rivoluzione prima del suo modo di essere narratore, mettendosi cioè dietro i suoi personaggi. Non più davanti, secondo punto della sua teoria critica: è stare dietro, spiare, essere pronto a registrare i più piccoli sommovimenti del cuore, è tutto un lungo catalogo di diversificazioni e di correzioni che gli ha consentito di porre il romanzo in un’altra costellazione letteraria che da allora porta il suo nome. Eppure – ci si obietterà – nessuno è stato mai così scrupoloso nel rispettare le forme, le immagini, i riflessi del passato. Ma bisogna stare attenti. Mentre i naturalisti lavoravano con gli schedari, avendo catalogato tutti gli aspetti della realtà del tempo che intendevano raccontare, Proust ha creduto opportuno confrontare dentro di sé le reminiscenze, i ricordi, ciò che restava a galla nella sua memoria, con quanto avrebbe voluto raccontare: il rapporto era così interiorizzato e il passato avrebbe dovuto nutrire un nuovo passato, il sentito di ieri con il risentito di oggi.
In ultima analisi la sua era un’operazione globale, una cosa ben diversa da quelle tentate dai suoi predecessori che credevano di arrivare a una legge generale attraverso un esempio unico, carico però di grandi simboli.
Di conseguenza, il romanziere tradizionale giocava su due tavoli, quello della finzione credibile e quello dei dati accertati, mentre in Proust la realtà accertata, studiata, interpretata restava comunque una finzione, una finzione che aveva dei compiti limitati ai fini di una dimostrazione.
Questo Proust così letterario, così permeato di intenzioni letterarie, non ha nessuna fiducia nei poteri primi della letteratura; o, per essere più precisi, a un certo punto della sua speculazione si è accorto che sotto un regime di dissoluzione non esistono categorie resistenti oltre l’illusione e che la funzione dell’arte è proprio questa di convincere l’uomo della sua sostanziale miseria e del suo navigare in un mare imperscrutabile.
Si ha l’impressione che spinga sempre la sua barca verso il mare aperto epperò quando sta per toccare la terra – sia pure una terra immaginaria – ricomincia da capo. Se fosse vissuto, non avrebbe potuto far altro che continuare a scrivere la “Recherche”.
Ecco dove cade inevitabile la grande domanda: che cosa era per Proust scrivere? La risposta è scritta nel libro, anzi dovremmo dire in ciò che ha preparato l’approdo della “Recherche” e nel suo libro maggiore. In partenza è uno scrittore che adotta il sistema dell’imitazione – anche se si trattava di emulazione – e poi si adatta alle forme tradizionali (si pensi al “Jean Santeuil”). Il punto d’arrivo o, se si preferisce, di sbarco è rappresentato provvisoriamente dalla terza tappa, perché fino alla fine Proust continuerà a modificare il disegno originale, lavorando di innesti, di prolungamenti e ritorni. Fino a quel momento il romanzo aveva rispettato l’ordine della linea generale, nel senso che lo scrittore, pur concedendosi soste e divagazioni, obbediva pur sempre a un’idea,
soprattutto a un quadro di composizione. Proust sovverte questa legge e tenta di crearsene una sua, del tutto nuova, che rispetta piuttosto il criterio dell’ispirazione, se per ispirazione si intende la tentazione dell’inseguimento senza fine e dell’approfondimento. Gli accadeva così di approdare a risultati e conquiste che egli stesso non aveva immaginato. Ma se si guarda meglio, se cerchiamo di coglierlo nell’arco intero del suo lavoro, ci accorgiamo che anche qui rispettava quella che era stata la legge prima della sua vita, diciamo pure l’abnegazione che aveva sempre messo nella ricerca della misteriosa persona umana.
In un primo tempo si butta nel giuoco, a costo di commettere degli abusi nei confronti della “privacy” altrui: le cronache e i ricordi ci offrono un ricco campionario di questo suo modo di non rispettare le regole mondane; eppure già in questo squilibrio iniziale c’era, inconscia, la certezza che per arrivare, se non al fondo, quanto meno nelle prossimità delle singole verità, era necessario perdersi negli atteggiamenti, perfino nei “tics” dei suoi personaggi potenziali. Il giuoco dell’imitazione è stato il primo gradino per entrare nella casa misteriosa degli animi, dei cuori.
Proust riteneva che un giudizio dato dal di fuori non sarebbe stato sufficiente, anzi sarebbe stato addirittura controproducente; e questo perché un romanziere, se veramente insegue nella molteplicità dei casi umani l’idea di una linea di tenuta, un senso generale, con il giudizio si preclude qualsiasi progresso.
Giudicare – se mai sia possibile farlo – è l’ultimo momento della ricerca; ma nell’attimo stesso che uno avverte di tenere in mano qualcosa di certo, viene travolto da una nuova inquietudine e il meccanismo della curiosità si rimette in moto. Che è stata poi una delle altre scoperte e invenzioni di Proust: il libro che ripete esattamente il ritmo e il senso dell’esistenza.
Invece si è per molto tempo pensato che il suo fosse un lavoro da moralista, da descrittore di una società.
Probabilmente ha voluto trarre in inganno il suo ipotetico lettore, riallacciandosi alla grande tradizione della sua letteratura: abbiamo già accennato al suo debito con il romanzo dell’Ottocento, un capitolo che poi la critica ha – superando epoche e generi – sviluppato e ingigantito fino a chiamare in causa SaintSimon.
Si voleva cioè trovare un punto d’intesa con il passato illustre di una civiltà letteraria ben composta, meglio custodita negli archivi della memoria, e da un certo punto di vista tale preoccupazione era giustificata, serviva a rimettere in ordine un’impresa che scardinava proprio quest’ordine.
Se in un primo tempo gli si è rimproverato di non saper scrivere perché non rispettava l’economia tradizionale fondata su equilibri e compensazioni, è perché non si riusciva a intravvedere né il suo vero proposito né l’autentica novità della sua proposta.
Inoltre bisognava ricostituire il quadro della sua personalità, riassestare l’opera dello scrittore nella vita dell’uomo.
Ora, per la prima e più lunga parte, la sua vita è stata per l’appunto la vita di un mondano; di qui si doveva trarre la conseguenza che un mondano non poteva far altro che illustrare gli usi e i costumi di una particolare società.
Era questa saldatura che veniva a mancare al momento della verifica: sì, gli abiti esteriori era facile ritrovarli, ma che cosa si nascondesse dentro quelle figure, quei personaggi che molti avevano conosciuto e alcuni dei quali erano ancora in vita, questo non era possibile scoprirlo.In tal senso vanno intese le riserve, gli equivoci, le accuse con cui il suo libro è stato accolto.
Tutti ricordano la gaffe di Gide che in nome della mondanità e degli esercizi letterari del primo Proust aveva rifiutato perfino la sua partecipazione, anticipando la sentenza fondata sull’equivoco.
Ma l’errore pregiudiziale di Gide ci lascia capire qualcosa di più importante, prima di tutto sposta le parti, e così lo sperimentatore Gide diventa rispetto a Proust un rigido conservatore, un difensore della norma letteraria, e quel Proust che si era mosso all’ombra dei grandi romanzieri alla moda (si pensi al materiale con cui costruisce il suo modello ideale, Bergotte) in effetti è un isolato innovatore, uno che salta dal libro delle leggi, dal codice della letteratura più rigida, all’abnorme e alla rottura degli argini. Gide commetteva un arbitrio perché anticipava il giudizio in base all’impressione e all’opinione comune e da questo punto di vista si escludeva da quel minimo di intelligenza e di pazienza che pure aveva regolato l’approssimazione del mondo di Proust.
Nessuno potrebbe supporre che Proust già al momento delle sue navigazioni nei salotti, e nella speculazione di quelle miserie mondane, fosse succube dello spettacolo che lo affascinava o lasciava dire che lo affascinasse. È chiaro che non c’era bisogno di un confronto: no, pur sapendo che lo spettacolo era ciò che era, preferiva ricorrere alla finzione, all’imitazione, non tanto per individuare i meccanismi psicologici di quella povera famiglia umana quanto per vedere se e che cosa resisteva sul fondo di quelle maschere. Proust aveva capito che oltre la recita e il giuoco delle parti ci dovevano essere dei cuori, delle passioni, e anzi da questo tessuto di finzioni, di accomodamenti richiesti dalla rappresentazione generale sarebbe stato possibile estrarre qualcosa di essenziale e irriducibile qualcosa che ogni uomo conserva spesso tradito e sempre nascosto dentro di sé, nel proprio foro interiore.
Qui vediamo meglio la sua contrapposizione a Zola: per lo storico in veste di narratore dei “Rougon-Macquart” l’approdo finale non doveva essere altro che una conferma. Dati certi presupposti, passati poi nel fiume della vita, si poteva arrivare a delle leggi:
l’ereditarietà, l’ambiente.
Proust, senza mai dirlo esplicitamente, si muove per dimostrare la gratuità e la leggerezza di questi teoremi.
Anche lui spoglia i suoi personaggi, ne cataloga gli abiti e le abitudini, ma nel momento che se li trova nudi davanti fa una scoperta e, cioè, che essi non corrispondono affatto all’immagine che loro stessi e le cose della vita avevano voluto.
Il disvelamento non lo riporta a un giudizio avanzato prima, in base a dei pregiudizi di classe o morali, al contrario lo porta a vedere quel teatro trasformato, popolato di altri uomini che, pur avendoli conosciuti da vicino, erano rimasti nel mistero.
Arriva alla dissacrazione per eccesso di amore ma questa dissacrazione non lo appaga, caso mai gli permette di misurare meglio le difficoltà del romanziere, se non l’impossibilità di arrivare a una sponda di verità.
Il suo mondo nuovo è mosso, agitato come il mare epperò il suo tentativo romanzesco si trasforma nel corso dell’opera in qualcosa che assomiglia piuttosto a una infinita ricognizione poetica, nel senso della poesia come perenne trasformazione della realtà.
Ci si potrebbe rivolgere ora al tentativo di Joyce, e per certi aspetti le due imprese collimano, ma si tratta di pure impressioni: Joyce, nonostante tutto, ha dei limiti, se li è posti, a cominciare dall’omaggio a Omero, pensando di scrivere l’odissea dell’uomo moderno. Proust non cade in trappole del genere, a mano a mano che procede nell’opera i possibili riferimenti letterari si fanno sempre più pallidi e inconsistenti, e questo non solo perché si accorge che la sua navigazione diventa più lunga ma anche perché non trova più nessun porto raggiungibile segnato sulla sua carta, che peraltro gli appare sempre più confusa e insicura.
Ecco perché Joyce è stato costretto a fermarsi, a imporsi prima dei vincoli e poi a inventare, a giocare di testa con le sperimentazioni astratte, con quell’immenso crittogramma della sua fantasia.
Proust non parte dalla letteratura per arrivare a un’altra isola della letteratura, e tanto meno ha inteso raccontare una società che si diverte o è costretta a rappresentare una parte ormai screditata e perduta; no, Proust è partito dalla letteratura sognando di diventare Bergotte, ma verso la fine che non si è conclusa si è trovato a navigare senza bussola in un mare per gran parte ignoto.
Il codice dell’animo umano che la sua letteratura gli aveva insegnato a un certo punto gli si è rivelato inerte, insufficiente, di qui il suo ripiegamento verso il nuovo continente freudiano: al proposito un grande critico dei suoi ultimi anni, Jacques Rivière, aveva già saputo trovare gli agganci naturali fra queste due ragioni di individuazione.
Proust ha chiuso in un certo senso con la lezione del cuore secondo la tradizione francese, l’ha chiusa assai più di Gide e di Valéry che pure in quel periodo del primo dopoguerra passavano per essere i veri distruttori di un’accezione letteraria.
Proust ha chiuso in un certo senso con la lezione del cuore secondo la tradizione francese, l’ha chiusa assai più di Gide e di Valéry che pure in quel periodo del primo dopoguerra passavano per essere i veri distruttori di un’accezione letteraria.
Gide e Valéry hanno sempre cercato di sapere bene dove si trovavano, erano dei navigatori assicurati; perfino Valéry, il Valéry dei “Cahiers” che scruta la notte che cede il passo alla luce dell’alba dal suo piccolo studio, divideva sapientemente le sue ore, la speculazione pura dal rispetto delle consuetudini, dalla lettura del breviario letterario.
Allo stesso modo Gide, che pure si batte per la pulizia e il coraggio dei sentimenti e la rivendicazione di certi diritti, non rinuncia a controllare il funzionamento di certe leggi e nonostante le sue molteplici professioni di fede non se la sente di alterare la composizione del mondo in cui vive.
Gide è stato un correttore del gusto in tutti i sensi, e anche quando combatte le sue battaglie d’ordine morale non perde di vista un tipo di uomo legato a certe tradizioni e a una società di cui in fondo non rifiuta la paternità.Si pensi, per esempio, al suo grande tentativo di romanzo, “Les fauxmonnayeurs”, e si avrà esattamente l’idea di questo suo criterio di correzione; soprattutto si pensi al “Journal” del romanzo, dove si vuol mettere in rapporto lo scrittore con la sua opera: il risultato è freddo, l’operazione è stata condotta dall’esterno e lo stesso motivo della complicità sa di artificioso.
Insomma, per Gide il romanziere non è mai uno che si perde come fa Proust e fonde naturalmente le due immagini.
Per Gide “e tutti quanti” il romanzo ha da essere un’opera finita, per Proust è non finita, non finibile. Per un’altra conferma di questa sua diversità di fondo, si pensi ai modi diversi nell’usare esempi e letture: Gide e Dostoevskij, Proust e Dostoevskij, il primo ne fa una lettura interessata, il secondo globale e sempre nel sangue della propria opera. Ma per maggiore sicurezza è opportuno citare il dato più im portante, il “Contre Sainte-Beuve”.
Che cosa rimproverava al critico? Di partire dalla vita intesa come qualcosa di consumato per arrivare al giudizio dell’opera, non separando però i due campi.
Per Proust valeva la regola crociana dell’assoluto dell’opera: non esiste – come a prima vista si potrebbe immaginare – una contraddizione fra l’ostilità a Sainte-Beuve e la puntuale ricognizione che Proust fa dei suoi personaggi.
Solo un lettore superficiale potrebbe essere indotto a credere che la grande copia di informazioni avesse come corrispettivo un giudizio anticipato, uno “status” che ha come conseguenza una sentenza.
Nel sistema proustiano occorre scindere queste due accumulazioni e dissoluzioni: lo scrittore accumula notizie che si arrestano al limite del marginale e che poi si rivelano o inutili o contraddittorie; il premio è altrove, quasi sempre è nell’interrogazione. Si dirà che anche Gide è maestro di interrogazioni, ed è vero; ma sono interrogazioni interessate, non tanto per concludere un processo che in lui è eterno quanto per inficiare il quadro dei giudizi offerti dalla legge tradizionale In Proust non ci sono processi nel senso che intendesse acquisire dei precisi punti di riferimento, c’è un processo continuo e che anch’esso non può finire.
Come si vede, tutti i discorsi ci riportano alla nozione centrale di tempo.
Anche da questo punto di vista Proust ha introdotto nella teoria e nella prassi del romanzo una diversa idea e un nuovo modo di applicazione del tempo.
Fino a Flaubert e poi giù giù fino ai Bourget e ai France il tempo del romanzo obbediva a dei confini ben circoscritti; per lo stesso Zola, che pure aveva prefigurato una dilatazione, non è pensabile una dimensione che non sia storica.
Proust inventa il tempo interiore, che è il contrario o, comunque, qualcosa di non associabile al tempo storico e al tempo sociale: qualcosa che si stende al di sotto delle nostre figure esteriori e trasforma i dati che l’esistenza singola e comune gli trasmette.
Proust scopre questo sottofondo che è prima filtro e poi una sorta di musica, dove vanno a spegnersi le passioni lasciando apparire nel buio le luci minuscole di qualche segnale.
Un po’ come se i suoi personaggi, uscendo di scena, rimandassero su quel fondo poche cose indispensabili, sentite o soltanto percepite nel corso delle azioni di cui sono stati spettatori o attori, in modo da costituire un patrimonio, un tesoro di cose da manifestare e che il tempo provvederà a individuare e svelare.
È così che il tempo ritrovato diventa non solo la chiave di quello che abbiamo creduto di vivere in un certo senso e in realtà ignoravamo, ma anche l’unico e vero tempo concesso alla memoria. È importante questo nuovo passo avanti nella sua tecnica di dissoluzione positiva: Proust tende a dimostrarci che l’illusione combacia con ciò che chiamiamo realtà e il vero sta soltanto nell’interpretazione postuma, che viene fatta a cose compiute e non per nostro merito.
I suoi personaggi in un primo tempo sono degli automi, degli attori che credono di inventare un testo o correggerlo, e molto più tardi si accorgono che erano comandati, erano delle vittime, il mondo li aveva plagiati.
L’ambiente, la società, tutti i sistemi di convivenza che ci diamo, per Proust non hanno valore, contribuiscono soltanto ad accrescere il buio e la confusione in cui ci muoviamo: di qui l’inutilità di prenderli di petto, di farne oggetto di contestazione (come facevano Gide e lo stesso Valéry), e di conseguenza la necessità di aspettare che il tempo intervenga con i suoi poteri di spiegazione e di disvelamento.
Secondo Proust, la fragilità dei nostri sentimenti è strettamente legata alla nostra impossibilità di demistificarli, di misurarli, di valutarli.
I sentimenti, le passioni tutt’al più sono un avvertimento, un segnale, una diffida contro le imposizioni e le mistificazioni del mondo, un moto d’insofferenza ma che resta tale, dato che noi per primi cadiamo nell’inganno e diventiamo vittime dei nostri stessi movimenti.
Soltanto il tempo ha questa forza miracolosa di dipanare la matassa; curioso che il dipanamento avvenga contemporaneamente al processo di ritorno, nel senso che Proust non crede a nessuno strumento di divinazione e la verità ha gli occhi dietro la nuca, la verità guarda indietro, mai avanti.
Questo ci spiega la sua diffidenza verso ogni regola religiosa: infatti ci si unisce nel futuro, nella speranza, mentre per Proust conta solo ciò che è avvenuto e non siamo stati in grado di comprendere.
A mano a mano che ritorna alla superficie della realtà già consumata e bruciata, piccolo pugno di cenere, Proust nota dove sono avvenuti gli errori e la loro consistenza, ma anche qui senza nessun intendimento pedagogico.
Per Proust il giuoco del fato, del destino, è assoluto e vincitore; ciò che lo interessa è mostrare la fragilità delle nostre reazioni, l’abisso che separa il sogno dal risultato, l’inganno e l’illusione dell’immaginazione.
Zola, profeta della realtà, alla fine era passato al sogno e all’esaltazione delle cose immaginate; Proust, che non crede al verbo della realtà, ottiene come risultato di mostrarci la realtà com’era.
Che è cosa ben diversa dalla surrealtà che i grandi eretici del Novecento avrebbero inseguito e esaltato, semmai nel caso di Proust sembra più giusto parlare di una sub-realtà, di una realtà sommersa che solo a tratti riemerge dalla coscienza della memoria.
In tal senso egli scrive la storia non più come credono di vederla e quindi la interpretano gli uomini, ma come una realtà più completa, più libera, che nasce dal perenne confronto fra ciò che crediamo di decidere e ciò che viene deciso altrove.
Se pensiamo ad altre imprese più o meno contemporanee o tentate dopo l’apparizione di Proust, vediamo subito come l’autore della “Recherche” fosse in grande anticipo sui Roger Martin du Gard, sui Jules Romains e naturalmente sugli Aragon: tutt’e tre ripetitori dello schema naturalista, nel senso che ai presupposti zoliani si erano limitati a sostituire degli aggiornamenti.
Per capire meglio il rapporto differenziale ci possiamo servire ancora una volta dei modi di preparazione adottati dai rappresentanti delle due famiglie.
È sì vero che in Proust c’è stata questa preoccupazione del documento, ma si trattava di verifiche: quando chiede a certe amiche di tirar fuori dai loro guardaroba gli abiti che portavano al tempo della storia, non fa altro che verificare le sue impressioni, mentre si guarda bene dallo sfiorare i margini della sua memoria che per conto suo sono già definitivamente sistemati. È un procedimento di natura poetica nell’ambito dei ricordi.
Quando invece Roger Martin du Gard va in biblioteca e prende a sfogliare le annate dei giornali della prima guerra mondiale per metterla in romanzo, inserisce altre notizie, non si cura di vedere quale fosse la piattaforma della sua memoria, che del resto risulta o inerte o spiazzata.
Il primo non commette nessuna infrazione al suo codice interiore, il secondo si rimette alla storia scritta per ottenere un quadro credibile.
A Proust non interessa affatto la credibilità e bene lo dovevano aver compreso i suoi diretti interlocutori: il Proust delle lettere è un personaggio insospettato per i suoi amici, è già uno che ha travolto nel suo racconto i riflessi, le allusioni e soprattutto le trasformazioni operate dalla sua nozione di realtà.
Diciamo allora che ha convogliato tutto il patrimonio della sua vita in un altro ordine, senza attendere che le figure di partenza potessero intervenire a correggere la sua lettura.
Una operazione che il Proust anteriore alla “Recherche” aveva già iniziato per conto suo: le giornate di lettura sono una prefigurazione di quello che sarebbe stato il suo modo di raccontare l’atmosfera, il clima che si creavano dentro di lui, separatamente dal corso apparente delle cose e degli avvenimenti, lo hanno abituato a un genere nuovo di speculazione, a qualcosa che non era fino a quel momento oggetto d’attenzione per i narratori normali.
Lo ripetiamo, Proust arriva alla sua letteratura dall’altra lettura, dopo aver avvertito dentro di sé qualcosa che fino allora era stato saltato e che lui sentiva mancare perfino nei risultati più sicuri.
Ma bisogna fare attenzione: quando si dice che il suo è stato un lavoro poetico, non dobbiamo credere che abbia ceduto alla tentazione di crearsi un mondo suo, di ritagliarsi una sede tutta personale e privilegiata.
È il contrario: Proust non rifiuta a priori il mondo come ci appare e come generalmente lo viviamo, in lui non c’è alcuna soggezione per le evasioni di “A rebours”, non c’è condanna, soprattutto una condanna dipendente dall’esame e dalla valutazione del mondo esteriore; c’è caso mai un trasferimento da una zona all’altra, e allora i riferimenti alla realtà non hanno più peso e non consentono giudizi né separazioni.
Si perdono i nomi, le azioni, tutto quanto perdiamo nella routine e nella ripetizione dei giorni, per salvare le essenze, non già per istruire un processo così come, più o meno, avevano fatto tutti i suoi predecessori.
Qui sta la sua grande ambizione scientifica, intravvedere nel tempo che ci è stato destinato una lezione di carattere generale che fosse valida per l’uomo, una sorta di antropologia non legata a delle leggi ma affidata esclusivamente a dei secondi numeri nascosti epperò assai più attendibili.
Sono cose che il lettore avverte per conto suo, nel senso che gliene deriva una sorpresa, la prima e la più inquietante che lo scrittore era mosso da una diversa preoccupazione, accrescere il capitale della memoria umana.
Quindi non è possibile parlare, per Proust, di una nuova commedia umana e neppure di una rappresentazione dove volta per volta prendono la parola degli attori e delle comparse. Non lo tocca il desiderio di fare concorrenza allo stato civile né quello di fornirci un’altra Bibbia, una chiave miracolosa per leggere la società francese fra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo.
Dal momento che ha deciso di allargare e approfondire un tempo, un’epoca, non obbedisce al criterio di fare vero: il suo intento è di arrivare, attraverso la restituzione delle sue impressioni e, più, delle sue intuizioni, all’arricchimento e per quanto possibile all’approfondimento di certe nozioni trascurate o, nel migliore dei casi, soltanto percepite casualmente.
È chiaro che con questo disegno la sua partecipazione avrebbe dovuto essere attiva, quindi non escludersi ma farsi personaggio fra gli altri personaggi.Questo significa la formula del personaggio che dice io: apparentemente un declassamento della parte e della funzione del narratore, in effetti un ulteriore potenziamento di confronto.
Certo con Proust si perde la figura del romanziere che comanda, che interviene per correggere o spostare o addirittura per imporre una sua personale visione della realtà: anche qui tutto viene rimesso nelle mani di quel tempo che nel suo libro tiene il posto di Dio, escludendolo.
La tentazione mallarmeiana di sostituirsi a Dio non ha mai sfiorato Proust, e questo va tenuto presente quando si parla della religione o dell’assenza di una fede nella concezione proustiana.
Ciò che noi diciamo indifferenza (che è uno stato più grave dell’assenza) in realtà è una misura di rispetto, è un tratto di pulizia morale, non avendo egli ceduto all’idea di poter offrire una lettura di quanto per lui era di per sé imperscrutabile, almeno con i nostri strumenti.
Non ci sono drammi del genere, quei drammi che avevano costituito per i suoi immediati predecessori (basterà fare il nome di Bourget) straordinarie occasioni di indagini appassionate e di divagazioni più o meno appropriate.
Eppure gli sarà accaduto di incontrare sulla sua strada persone inquiete e tormentate, ma il fatto che abbia preferito rimettere tutto, anche questo, nella grande corrente del fiume della vita ci dimostra ancora una volta la sua prudenza e la conoscenza dei suoi limiti. Proust si misura con i fatti che ritiene di poter leggere con i suoi strumenti, e non dimentica che il suo romanzo non sarebbe stato né avrebbe potuto diventare un trattato. Racconta soltanto ciò che ha visto con la sua lente d’ingrandimento, racconta i meccanismi delle passioni, anzi mette a disposizione del lettore tutto ciò che ha saputo individuare e illuminare; ma subito dopo si ritira, insomma non stravolge la sua realtà integrata dalla memoria.
E neppure adopera mezzi indiretti: non gli sarebbe stato difficile sforzare, insistere interessatamente su questi aspetti, anche perché aveva davanti esempi del genere, ma sono cose che avrebbero snaturato la sua coscienza scientifica. Trasformare il mondo di quella realtà in commedia gli ripugnava come farne una tragedia: alla fine sarebbero stati due criteri uguali di infestazione intellettuale e di adulterazione psicologica. Così, quando ci capita di notare il suono sordo e inerte di questo mondo proustiano, è meglio pensare che egli si sia mantenuto fedele al solo che era riuscito ad accertare.
Comunque, anche da questo punto di vista il suo insegnamento rientra nell’ordine della pulizia.
Ha sfrondato quanto non gli sembrava pertinente, modificando una tendenza, una tradizione abusiva, e ha ottenuto che dopo di lui si procedesse con maggiore cautela.
L’affermazione di Mauriac sulla separazione netta che esiste fra Dio e il romanziere (ripresa dall’intelligenza-piovra di Charles du Bos) non ci sarebbe stata senza la lezione di Proust, e neppure avremmo avuto l’indagine – sia pure più complessa ma ugualmente discreta – di un Julien Green.
Facendo questo, Proust non piegava ai suoi possibili interessi motivi suscettibili di amplificazioni e distorsioni, ma non per ciò rendeva astratta e asettica la sua lettura.
Quando si guarda alla sua eredità, alla trasformazione che è avvenuta dopo di lui nel romanzo, ci si imbatte, a grande distanza dalla “Recherche”, nella scuola dell’antiromanzo, nell'”école du regard”, e per un momento accade di pensare che questi scrittori abbiano applicato alla lettera l’insegnamento di Proust, nel senso di aver fatto del mondo reale un pianeta disumano, un pianeta costituito soltanto da oggetti.
Si tratta di un inganno che non richiede molto per essere smentito. La realtà dei nuovi romanzieri degli anni Sessanta era una realtà inerte, casuale, negata all’idea stessa dei sentimenti, rifiutata a qualsiasi intervento psicologico: il contrario del mondo proustiano, che è legato in profondità a una rete estremamente viva e attiva di ragioni psicologiche.
Caso mai, il riferimento ci consente di vedere meglio in che senso e in quali proporzioni la lezione di Proust si è svolta.
Quando si dice che con Proust è cambiata la nozione di romanzo, si pensa quasi sempre al passato, a quanto era stato fatto prima di lui dimenticando che a distanza di sessant’anni si può affrontare anche il dopo Proust.
E forse sarebbe meglio aggiungere subito che Proust è stato un accidente non ancora risolto nel quadro della letteratura, e così ci spieghiamo come mai dopo di lui anche gli scrittori più refrattari alla sua scoperta abbiano dimostrato indirettamente di tenere presente quel fatto: a volte lo ignoravano intenzionalmente ma non riuscivano a nascondere il loro disagio.
In effetti, se noi consideriamo la “Recherche” come un punto di arrivo, tutto – o quasi – quanto è stato fatto dopo suona marginale, una serie di tentativi per superare l'”impasse”.
Interpretazione avallata dal fatto che Proust non ha lasciato eredi diretti, o che non sia nata una scuola proustiana; ma se ci attenessimo a questo limite, dimenticheremmo di valutare il peso della sua eredità.
Diciamo allora che la sua importanza è meglio visibile, è più chiara quando si prendono in esame la situazione e la condizione del romanziere che è venuto dopo la “Recherche”:
Proust non ha mai perso questo peso specifico indiretto, soprattutto ha reso molto difficile la parte delle illusioni, ha messo il romanziere di fronte a una mappa molto più complicata dal momento che aveva dimostrato l’impossibilità di adeguarsi alla lettera della realtà. Dopo di lui il mondo non poteva più o non sapeva più parlare per sole luci, il peso dell’ignoto determinava uno scarto, uno sbilanciamento negli strumenti tradizionali, e impediva la baldanzosità di certi atteggiamenti di conquista e di dominio.
E ancora: per fare questo aveva esaurito – Proust – l’idea di unica composizione, il mondo non appariva più un tutto, un solo esempio di decifrazione.
Tant’è vero che i maggiori venuti dopo di lui hanno registrato questo spirito di incapacità e di inutilità: Céline ha dovuto – per tentare il romanzo – fare a pezzi un mondo che fino a Proust aveva rispettato certe leggi e aveva tenuto.
La catastrofe cantata da Proust nel nome del Tempo è stata adattata ad altri fini, e intanto si è dovuto cambiare il registro della dissoluzione.
Proust studia questa dissoluzione, questa dispersione delle figure e dei loro abiti dal di dentro, si affida al tempo per separare il salvabile dal perduto, soprattutto per proteggere la nozione di sentimento. Con Céline è il mondo che va alla deriva e non c’è più nulla – nessun intervento divino o umano – che ci aiuti a capire la nuova legge del disordine, del caos.
Di qui il ricorso all’irrisione, alla degradazione morale, alla grande bestemmia: se per gli eroi proustiani – anche i più dannati – non si arrivava a mettere in discussione un certo ordine apparente, sia pure immaginario, per gli uomini di Céline non ci sarebbe più stato nessun argine né intellettuale né spirituale né – tanto meno – morale.
Con Céline si consuma la navigazione guidata da Zola e un po’ da tutti gli altri; il narratore non cerca mai di capire che cosa accade, che cosa gli butta in capo il destino, anzi forse neppure la nozione di destino esiste.
Céline oggi appare in una posizione più forte rispetto a Proust, e non alludo alla possibile contrapposizione delle due fortune: la biblioteca critica dell’uno equivale a quella dell’altro.
Alludo a un fenomeno più vasto, meglio all’atteggiamento che un secolo per troppi momenti tragici ha autorizzato, per cui la storia di Proust risulta poetica, quella di Céline tragica, più pertinente alla realtà quotidiana.
Ma è proprio su questa realtà quotidiana che dobbiamo tornare in forze a Proust perché, se Céline è un fotografo scomposto di un mondo in decomposizione, Proust obbedisce a un’ambizione più alta e salta l’approdo all’uomo storico.
Trockij predilige Céline e non ha alcun interesse per Proust.
Giudizi – come si vede – sempre improntati al criterio immediato della storia intesa come lotta di interessi, quindi una storia che elimina dalla sua specola il senso generale dell’evoluzione psicologica.
È la contrapposizione fra lettura di fatti e lettura di sentimenti, fra uomo che abdica di fronte alla realtà, o almeno la condanna a parole, e uomo che intende comprendere, spiegare, al fine di trovare un senso alla vita.
Non c’è stato dopo Proust un altro romanziere che abbia creduto in questa funzione del romanziere, e cioè del disvelatore e dell’interprete dei sentimenti.
Lo stesso Kafka, che pure conduce un’impresa analoga alla sua, trasforma l’indagine in una serie di immagini e prefigura un tempo storico fondato sui fatti del mistero ma ci lascia con un forte sentimento di tragedia insuperabile. Proust non rinuncia, non ha paura: chiuso nella sua stanza, è deciso ad andare a fondo, a intravvedere dei segni e, più, a dare un senso all’esistenza.
C’è – lo ripetiamo – un’umiltà che chi è venuto dopo non avrà più.
Anche quando scortica impietosamente i suoi personaggi, anche quando li riduce a fantocci, si sente che non intacca mai la sostanza umana, una materia che sussiste dentro di noi, nonostante le rovine e le dissacrazioni che abbiamo provocato.
Céline, e dietro di lui una grande famiglia di echeggiatori, bestemmia, infama, degrada l’uomo: tutte cose che Proust non fa, almeno questa religione l’ha rispettata e – se ci è consentito aggiungerlo – nutrita, non privandola di un ultimo barlume di speranza.
Insomma, il suo discorso tiene, non si perde in vaneggiamenti, in invettive. in anticipazioni del futuro: non fa il profeta, su questo punto ha una solidità di storico, non volendo occupare spazi e territori che non erano suoi, e infine non muta mai il suo canto fermo in oltraggio.
Per quanto lavori sui suoi personaggi, il lettore non avverte mai un sospetto di dissacrazione riassumendo tutto – anche gli atteggiamenti più suscettibili di condanna – in una attenzione più alta. Naturalmente non c’è pietà, essendo la sua partecipazione di natura scientifica e il suo scopo capire e trovare i meccanismi che mettiamo in moto per eludere o ritardare la scadenza con la morte.
La sua filosofia ha ancora una struttura solida, non è rinunciataria e così Proust non la adatta mai al contingente epperò accusarlo di insensibilità per quelli che sono stati i grandi temi sociali del nostro tempo significa tradire le sue intenzioni.
Gli uomini vengono scrutati per ciò che sono sul fondo e non per le origini, le idee politiche, la fortuna, la ricchezza: sono abiti che al suo fine non hanno importanza, rientrano nel libro delle azioni che per lui hanno un’incidenza meccanica, utile all’ultima ricognizione.
Ma facciamoci un’ultima domanda con virtù generali: perché non è stato possibile ripetere Proust e quando qualcuno ci si è provato ha fallito? Si ritorna sempre al punto di partenza, l’impresa proustiana ha spostato l’investigazione romanzesca e ne ha fatto un continente particolare.
Che sono poi le cose che hanno scompensato e messo in crisi la critica, anche se sin dai primi anni non gli sono mancate attenzioni e partecipazioni.
Intanto Proust con l’evitare il riferimento obbligato con il protagonista ha fatto della sua storia qualcosa che andava molto al di là delle regole e delle norme di questa particolare retorica.
Se noi pensiamo ai grandi protagonisti europei che hanno lavorato nel suo tempo (basterà citare Mann), ci accorgiamo che non c’è possibilità di rapporto fra le due concezioni, soprattutto fra le due interpretazioni del tempo.
Là dove Proust rimette costantemente in moto passato e presente, gli altri narratori procedono in maniera lineare e non hanno ambizioni che esulino dai confini ben precisi di un quadro.
Indirettamente nell’ambito della stessa letteratura francese ci viene una conferma se guardiamo al lavoro della generazione fra le due guerre: di solito si procede per accenni, per riflessi, per echi.
Giraudoux, Morand, lo stesso Mauriac non se la sentono più di affrontare un mondo intero, in senso superiore sono dei dilettanti, mentre Proust rappresenta una nuova immagine di scrittore intero. Eppure erano ammiratori di Proust, lo avevano amato e letto e ne avevano compreso la forza.
Lo stesso discorso vale per le altre letterature europee, a cominciare dalla nostra.
Se lasciamo da parte Svevo, che peraltro è un caso anomalo, i romanzieri e i narratori fra il ’20 e il ’40 non si sono mai posti il problema della rivoluzione proustiana (con delle eccezioni, naturalmente: Debenedetti, Emanuelli, Ferrata, specialmente Bonsanti, Piovene, tutti però volti piuttosto a impiegare strumenti che appartenevano a una mappa più complessa di interessi).
C’era vale notarlo – alla base di questa impossibilità di allacciamento la natura prima della nostra società: non dimentichiamo da dove si è mosso Proust e come fosse ricco il contesto in cui si è formato.
Secondo punto la fragilità della nostra tradizione non ha certo consentito un tipo di operazione come quello suggerito da Proust.
Proprio negli anni fra il ’20 e il ’30 in Italia si discuteva sull’opportunità o meno di tornare al romanzo, evitando le insidie del genere allora prediletto, che era quello della prosa d’arte.
Ultima notazione, nel ’29 Moravia pubblica “Gli indifferenti”, che è pur sempre un’opera di segno diverso.
Tutto ciò e altro che si potrebbe aggiungere (per esempio, il peso assoluto della poesia in quel periodo) ha fatto sì che i giovani scrittori italiani vedessero in Proust, più che un modello suscettibile di sviluppi, una cosa a sé stante, irripetibile e frutto di un altro clima letterario.
Ma se guardiamo ai corsi letterari degli altri paesi, vediamo che di solito ci si tiene sempre alla lezione naturalista: abbiamo citato Mann, ora possiamo ricordare per la Spagna Ramón Pérez de Ayala e, ancora spostandoci su un altro continente, gli americani.
In un tempo di soggezione a quella letteratura (da parte della stessa Francia) il mondo raccontato da Proust o rientrava nella categoria dell’assolto e del compiuto o contrastava con la generale nozione del reale.
Come si vede i termini del problema permangono gli stessi: fare del romanzo una fotografia della realtà o saltare la realtà per l’assoluto della poesia.
Alla fine degli anni Trenta appare sulla scena Sartre che, partendo anche lui dalla ragione naturalista, tenta però una deviazione filosofica e soltanto verso la fine della sua carriera, con “Les mots”, presenterà un’altra immagine di autobiografia.
In un arco così ampio di tempo è più facile vedere come la suggestione proustiana sia stata radicalmente corretta e spostata verso le rive del saggio.
Sartre metteva in quello che pure doveva essere un libro di rievocazione un sistema d’interpretazione molto lontano dall’ipotesi globale e indiretta di Proust, e d’altra parte proprio nell’opera di Sartre il fenomeno della dilatazione, della rottura con il passato istituzionale, appariva in tutta la sua forza.
Che è poi una diretta conseguenza del ribaltamento iniziale di Proust: non più generi, non più confini rispettati, ma l’ambizione di coinvolgere tutto in un’unica aspirazione. Ne consegue che nel nome di Proust si è combattuta una lunga guerra, anche quando non lo si nominava o si faceva finta di non vedere come stessero le cose.
Era entrato nella coscienza stessa del secolo e restava sul fondo delle intenzioni e dei progetti.
Ma quanto non era stato possibile nell’ambito del raccontare, diventava un obbligo della critica.
La biblioteca che gli è stata dedicata, e che ogni anno continua ad arricchirsi di molte voci, è sterminata, quasi si volesse aggredire per particolari ciò che conserva intatto il suo vigore e la sua luce.
Si direbbe che con questo sistema di approssimazioni per particolari, spesso apparentemente marginali, la letteratura intenda rimuovere un’opera che non ha perso nulla della sua intensità e dell’originale ricchezza delle sue proposte.
Ecco perché il continente Proust, mantenendo questo dato costante della sua integrità, non solo continuerà a suscitare la curiosità degli indagatori critici ma costituirà una tentazione. Beninteso, perché ciò avvenga occorre che si torni a una composizione dell’intero quadro letterario, e con questo non si intende soltanto un ritorno ma piuttosto una forma di rammemorazione e di rinnovata fiducia nell’opera del romanziere.
Il secolo – specialmente nella sua seconda metà – non sembra per ora disposto a una simile presa di coscienza nella generale confusione e nel clima di sospetto che un po’ tutti nutrono nei confronti della letteratura stessa.
Si è detto che per un certo aspetto proprio Proust ha iniziato questo tempo di sospensione.
Quando si pensa e alla vastità dell’opera e alla carica di rivoluzione che essa rappresenta, si è portati a far partire dall’impresa proustiana questa sorta di paralisi.
Noi stessi l’abbiamo detto, ma occorre aggiungere una distinzione: il vuoto che Proust ha lasciato dietro di sé, e nei suoi immediati dintorni, offre col suo peso specifico di rinnovamento un altro dato, quello dell’opportunità di una continuazione sia pure sotto altri climi.
Sono passati da allora moltissimi anni e nessuno oserebbe sostenere che tale suggestione non sia più valida: il curioso di questa situazione è che ben pochi abbiano raccolto l’invito.
È stato per insufficienza di mezzi o piuttosto ci si è lasciati accecare di fronte a un esempio che per tranquillizzare le coscienze è stato dato per improponibile? Chi legga o rilegga Proust potrà in un primo tempo convenire sulle ragioni di questa lunga sospensione di attività del romanzo; ma appena metta in moto i meccanismi segreti della memoria e tenti di riassumere dentro di sé l’indicazione proustiana, dovrà convenire che là è stato aperto un nuovo mondo della psicologia, che sarebbe errato ritenere esaurito o peggio ancora datato. Qui sta, dunque, la grandezza della “Recherche”, nel senso che Proust ha chiuso e rifiutato la parte morta della letteratura e le ha fornito una nuova mappa e nuovi strumenti di penetrazione e di ricognizione.
Ha ucciso un tipo di romanzo che, del resto, stava boccheggiando da tempo e ha prospettato un altro romanzo che potesse contenere lo studio del cuore umano nella sua integrità e nel rispetto della libertà.
Il che equivale a mettere sullo stesso piano e con uguali diritti la facoltà d’invenzione e la qualità critica: un premio per la sopravvivenza di un genere troppo spesso sottoposto ai richiami del tempo immediato e alle insidie del consumo.
Nel chiudere uno scaffale, Proust si è preoccupato di aprirne un altro, lasciandoci uno dei documenti più concreti e importanti della nostra storia nascosta, temuta e il più delle volte rimossa e cancellata.
La memoria non è stata soltanto il suo punto di partenza, lo strumento magico; per noi, per chi verrà dopo è anche, è soprattutto uno stimolo e il modo di ricordarci che non c’è letteratura là dove si cerca di diminuire o alterare le ragioni dell’intelligenza.
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