
Autore monumentale di opere altrettanto monumentali, attualmente 66 anni di puro dolore e sperpero vitale (sorella seienne morta mentre doveva sorvegliarla lui che aveva nove anni, impieghi saltuari, senza tetto, nutrito a patatine e tè freddo dormendo la notte sotto la scrivania in ufficio, presule tra i mujaeddin afghani, saltando in jeep su una mina in Jugoslavia mentre infuria il conflitto e il migliore amico gli muore a fianco, volontariamente esposto alle radiazioni a Fukushima, cercando la morte unendosi con decine di prostitute in Thailandia, sette pillole per non cedere alla psicosi e alla tentazione di suicidarsi pur avendoci provato due volte, fallimenti grandiosi e successi stratosferici, mondiali, niente Rete o cellulare o smartphone o credit card, una figlia morta per alcolismo qualche anno fa, un tumore al colon che gli lascia ancora pochi anni di aspettativa di vita, espulso dal catalogo Viking perché non accettava semplificazioni stilistiche o alle strutture complesse dei suoi testi), William T. Vollmann si erge come un titano in un tempo di nani e di nanotecnologie. E’ praticamente abbandonato da giornalismo ed editoria, che costituivano le sue fonti di sopravvivenza – e si tratta a uno a cui dare il Nobel per la letteratura a occhi chiusi, foss’anche per il solo capolavoro Europe Central, in Italia edito per Mondadori, qui sotto tradotto imprecisamente, per non riuscire a rendere l’idea di quanto sia gigantesco il prolifico autore (“troppo prolifico!” – Ah, così mi uccidete, contemporanei…). Leggete sempre ovunque Vollmann, non credetegli mai. E’ tra i più vasti spiriti viventi, tra le massime teste pensanti e scriventi, oggi, che tramonta il sole del passato romanzo e della prosa in arte, a cui fornire i motivi per non pronunciare ancora un addio compiuto e deleterio, l’estrazione a sorte della sorte sappiamo già da secoli che colpisce più chi scrive che chi legge. Sia lunga vita a Bill Vollmann, ultimo scrittore. [gg]
Europe Central, dal Capitolo 1
Acciaio in movimento
Non di rado, le cose che ci attraggono in un altro individuo sono piuttosto futili, e ciò che mi aveva sempre compiaciuto in Blumentritt era il suo attaccamento fanatico al telefono.
— Feldmaresciallo Erich von Manstein (1958)
Un telefono tozzo e nero — una piovra, il dio del nostro Genio radiotelegrafisti — possiede una nicchia a Berlino (più probabilmente a Mosca, che un generale tedesco ha definito il nucleo stesso dell’entità nemica). Da qualche parte, tra scogliere d’acciaio, vibra un filo rivestito di guttaperca: «Io qui…» zzzZZZZZ… «la situazione critica… un colpo devastante». Ma poiché queste frasi rimangono non autenticate (e la pena per l’ascolto segreto è la morte), non conviene avvicinare l’orecchio al cavo conduttore, che d’altronde è irto di aculei elettrificati; meglio restare seduti, ubbidienti, ché l’attesa non potrà essere lunga; le trattative sono fallite. Se ne va spiccio Chamberlain gridando: «Pace per la nostra epoca!». La Francia si disinteressa volentieri del governo di Praga. Colonne motorizzate sfilano nella gelida Pilsen e non si fermano. L’Italia prevedeva la ricompensa dell’avventurismo, dalla quale avrebbe avuto l’opportunità di salvarsi, ma, ammaliata dal telefono, sonnambula raggiunge il balcone, dal quale dichiara: «Ora non possiamo cambiare la nostra politica, non siamo prostitute!». Il sonnambulo sempre sveglio a Berlino e il realista che sta per essere ingannato al Cremlino s’indirizzano verso le nozze. «Esploderà come una bomba!» se la ride il sonnambulo. In tutta Europa, i telefoni cominciano a squillare.
Nella sala circolare col lucernario a ventaglio, con dèi greci che fanno corona dietro la tribuna, i deputati austriaci stanno immobili ai loro scranni di legno, i cui intarsi rettangolari neri accrescono l’eleganza; furono i primi ad accettare il nostro futuro; il loro telefono squillò già nel ’38. La Bulgaria, privata dei crediti inglesi che comunque non l’avrebbero salvata, riceve i quarantacinque milioni di Reichsmark del sonnambulo. Il realista non offre crediti a nessuno tranne che al sonnambulo. Mescolando icone come carte da gioco, la Romania ribadisce la sua neutralità nella speranza di essere dimenticata da tutti. La Jugoslavia vezzeggia per ottenere aeroplani dalla Germania e denaro dalla Francia. L’ombra umida di Varsavia è già intrisa di ansimi di panico. Il filo vibra: «Determinazione fanatica… pronti a ogni cosa».
Secondo il telefono (poiché forse io, traditore, una volta ho ascoltato), la Centrale Europa non è affatto un nido di Stati, ma una zona vuota di icone nere e orologi bordati d’oro le cui divisioni territoriali accidentali, interminabilmente contese (in fondo vecchie mura risalenti ai tempi dei Romani), possono essere riscritte a piacimento, con gauleiter e commissari che le sbiadiscono fino a linee tratteggiate grigie di permeabilità comode per le truppe di polizia. È il momento di contemplare quelle onde di tetti rosseggianti che fanno oceano tutto attorno, le isole a torre verde ossidato che emergono dalle facciate bianche in cui sorridono finestre e affondano sotto di noi in scogliere non ancora del tutto cablate dal telefono. È il momento di godersi gli ombrelloni dei caffè della Centrale Europa che paiono anemoni, i suoi vecchi tetti anneriti come da alghe, gli zoccoli che battono e le campane che salgono, le ombre delle persone in massa, così lontane giù nelle vie strette. È questo il momento, perché domani tutto dovrà essere, come annuncia il telefono, “annichilito senza avviso, distrutto, raso al suolo”, germanizzato, sovietizzato, “completamente frantumato”. È un ordine. È una necessità. Non combatteremo come quei molli codardi trattenuti dalla coscienza; liquidiamo la Centrale Europa! Comunque non è troppo tardi per negoziare. Se ci darete tutto ciò che vogliamo entro ventiquattro ore, vi compenseremo con territori nell’infinito Oriente.
Nel Meclemburgo abbiamo preparato la dimostrazione del primo aereo a propulsione a razzo del mondo. Al servizio dell’estasi del sonnambulo, Göring promette che altri cinquecento aerei a razzo saranno pronti in un lampo. Poi fugge per un rendez-vous con la diva del cinema Lida Baarova. A Mosca, il maresciallo Tuchacevskij annuncia che “le operazioni in una guerra futura si dispiegheranno come vaste manovre su vasta scala”. Sarà fucilato di lì a non molto. E i ministri della Centrale Europa, che saranno anch’essi fucilati, compaiono nei balconi retti da statue in marmo di giovvani donne nude, dove pronunciano discorsi onirici, tutto il tempo in ascolto del suono del telefono. La Centrale Europa resisterà, dicono, almeno fino all’inizio del Caso Bianco. A ciascun uomo sarà assegnata una pesante mitraglia, probabilmente forgiata a mano, insieme a dieci pallottole di piombo, tre granate a mano nere a forma di ananas non molto più grandi del manico di una pistola, e un corno da polvere biforcuto d’avorio ingiallito adornato da stelle inscritte in cerchi…
Il telefono compiace: «Avanzata liberatrice… armate d’urto… rapporto di forze meccanizzate».
Oltre la frontiera successiva, dove ogni fila di paletti si inclina l’una dall’altra, i poeti militari del nostro vittimario sventolano orgogliosi via ogni apprensione equalizzando Varsavia 1939 a Smolensk 1634. Mentre schierano i loro scaglioni privi di speranza, noi tracciamo la Linea Ribbentrop-Molotov, su cui stampiamo un „GEHEIM“, che significa segreto. E perché fermarsi qui? Il sonnambulo ottiene la Lituania, il realista la Finlandia. Il nostro credo è una lampada la cui radianza calibrata si china dentro la propria zona d’influenza. “Sono stati e sono gli ebrei a portare i negri nel Reno. È proprio per questo che il Partito afferma che il trotskismo è una deviazione socialdemocratica al nostro interno”. Il telefono squilla; il generale Guderian riceve istruzioni per attivare il Caso Giallo. Faremo ruotare via le foglie d’acero tinte di vino della Centrale Europa e le sue pale torri di chiese esagonali.
2
Non assisterete allo spettacolo; in questo ufficio non si permettono finestre, così potreste sentirvi un poco smarriti a volte, ma almeno non sarete mai soli, poiché sulla scrivania d’acciaio, a portata di mano, si accovaccia quella piovra i cui dieci occhi tondi, ciascuno inciso con un numero, squadrano il mondo. “Il Patto d’Acciaio…una decisione corretta…la mia volontà immutabile… radunatevi intorno al Partito di Lenin e Stalin”. Nel cassetto in basso a destra c’è un cifrario le cui invocazioni governano le velocità e la carica esplosiva dell’acciaio, ma la piovra pare vigilare. Tentate il colpo se osate; quanto possono vedere bene quei dieci occhi? Il sonnambulo nella Cancelleria del Reich avrebbe la risposta (non che la darebbe): sono i suoi occhi, senza palpebre, ovali, che conferiscono loro un aspetto monotono, idiota o isterico; nella fossa fuori, cento altre teste dagli occhi aperti ritornano a essere argilla, non hanno nulla in comune con la piovra, il cui sguardo rimane eternamente senziente.
E il microfono della cornetta? È vero che può udire ogni vostro respiro attraverso i suoi buchi neri? Nel suo quartier generale sotterraneo, circondato da molte guardie, il realista siede stanco dietro una grande scrivania, in attesa delle esigenze del telefono. Benché sia virtuoso nel riattaccare con la stessa forza del soldato che infilza un altro proiettile nel nostro cannone anticarro, riattacca in faccia agli altri, non in faccia al telefono stesso, senza il quale non può vivere. Si identifica nel telefono, che tutto avverte; sa quando Šostakovič pronuncia il suo nome invano. Al primo squillo convocherà i suoi generali a quel tavolo da conferenza col panno verde.
Il sonnambulo è tutt’occhi; il realista è tutt’orecchie; il loro connubio genera il telefono.

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