Tentativo di risposta a Francesco Pacifico

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• CENNI DI AUTOPETICA SUL DIES IRAE: UN TENTATIVO DI RISPOSTA A FRANCESCO PACIFICO
di GIUSEPPE GENNA

Anzitutto: vale la pena di rispondere a una recensione. Per me, questa è una novità. E’ una sorpresa che il dialogo, rispetto a certi piani, anagrafici (Francesco Pacifico appartiene dopotutto alla mia generazione) e poetici, ha luogo, ha un suo spazio che diversi scrittori da anni stanno progressivamente costruendo. Diciamo certi scrittori, ed è questa l’unica osservazione che riservo all’elemento dequalificante (per me) che parte dei miei colleghi non si azzardano ad aprire pagina dei libri che pubblico. La motivazione di questo sdegnato disinteresse, piuttosto, mi interessa: e si tratta della supposta sciatteria prosastica di cui sarei autore. Questa supposta sciattaggine è dovuta suppostamente a una fretta della pubblicazione, che rompe una sorta di codice non scritto, per cui è inopportuno pubblicare tanto. Non sono l’unico scrittore in Italia a pubblicare una media di un libro all’anno: si consideri Evangelisti, per esempio, ed è il nome che faccio perché è il nome più prossimo quanto alla poetica a cui mi ispiro. Non solo: Evangelisti è uno scrittore che ha perfettamente consapevolezza dei meccanismi delle poetiche di genere e una suprema conoscenza di quello che Francesco Pacifico, nel suo articolo, definisce "gnosticismo".


Lo "gnosticismo", descritto nelle sue linee essenziali da Pacifico, viene messo in relazione con una scrittura che esorbita dai canoni della tradizione prosastica italiana: poiché la scrittura deriverebbe dalla componente razionale del composto umano (il che non è vero né per lo gnostico né per me, che gnostico non sono), la salvezza e l’illuminazione sarebbero precluse all’esercizio della letteratura, ma tenterebbero di sfondare questa barriera ontologica facendosi disordinatamente strada all’interno del testo, per apici, salti, cortocircuiti. Ecco perché Pacifico lega un’impostazione gnostica della letteratura a una sintassi apparentemente sbagliata e disordinata: la correzione e il labor limae sarebbe un nulla rispetto al vero obbiettivo della scrittura letteraria gnostica, che è veracemente quello di spalancare fenditure attraverso cui una trance illuminativa potrebbe emergere.
L’analisi di Pacifico non corrisponde alle mie intenzioni e nemmeno alla mia poetica, ma si sa: il testo, licenziato, è passibile di ogni interpretazione e soprattutto può essere oggettivamente del tutto distante dalle intenzioni originarie dell’autore. Non discuto, dunque, il Dies Irae in quanto libro finito, ma mi pongo sul piano delle intenzioni poetiche e cerco di spiegare i motivi per cui le impressioni di Pacifico sono plausibili.
Sono cresciuto immerso nella comunità poetica e, fino a 25 anni, non avevo in mente di dedicarmi alla prosa. Ciò anzitutto perché la forma principe della prosa, cioè il romanzo di eredità borghese, mi sembrava un canone formale, per dirla con Piperno, "sputtanato". Il romanzo è per me una forma storica che ha esaurito la sua compulsione all’imitazione e al disvelamento della realtà. E’ ovviamente una sensazione del tutto personale, che lascia spazio a perplessità condivisibili. Ciò che mi spinge a una considerazione simile è la mancanza di pratiche epiche nel romanzo contemporaneo italiano, almeno nelle stagioni in cui mi sono formato. Tragico ed epico, a mio parere, sono due potenze metastoriche che la letteratura incarna via via in forme differenti a seconda dell’ambiente e del periodo storico – cioè all’immaginario collettivo sul mondo in cui la comunità elaboratrice e vivente opera. In Italia c’è un problema di blocco della tradizione, che impedisce di percepire queste potenze come tali, e le traduce in forme, secondo una poetica dei generi che viene data per scontata: da un lato c’è una linea minoritaria, che il critico e grande traduttore (non a caso di Céline) Giuseppe Guglielmi denominava "linea calda" (da Dante a Giordano Bruno allo Zibaldone a Petrolio di Pasolini), mentre è maggioritaria e praticamente monomandataria la "linea fredda", cioè l’atteggiamento di stampo petrarchista che impone un’attenzione massima alla cristallinità di uno stile controllato ed eventualmente "piano". Questo controllo, come sottolinea nel suo pezzo Francesco Pacifico, coincide con l’"amore" dell’autore per il testo. Se pensiamo alle nostre neoavanguardie, ci accorgeremo che esse appartengono in toto alla "linea fredda" e tanto più sarà vincente questa sorta di metapoetica in un momento in cui il ruolo della critica è clamorosamente vacante.
Non c’è dubbio che esistano rapporti tra posizioni spirituali o ideologiche e atteggiamenti stilistici: la storia della critica e di certa filosofia del Novecento risiede in questo abisso dalle pareti inscalfibili e non scalabili. Tra l’altro, parlare di una posizione spiritualista o metafisica, in Italia, espone al grave equivoco che ci si trova automaticamente in territori religiosi; il che, oltrepassate le Alpi, cessa di essere. Pur non riconoscendomi affatto nello gnosticismo per come lo interpreta Pacifico, dirò che la poetica del Dies Irae, che fa perno essenzialmente sulla Waste Land di Eliot più che su DeLillo, è metafisica proprio secondo le indicazioni del Bosco Sacro, la raccolta di scritti di poetica dello stesso Eliot. La lingua utilizzata è antisereniana, se fosse possibile un’illecita trasposizione nell’àmbito della poesia, e i ritmi sono essenzialmente mutuati dallo Zibaldone leopardiano – un testo che a tutt’oggi non viene assolutamente considerato un modello stilistico. L’apparente furia compositiva del Dies Irae corrisponde a una sintassi in cui le evenienze endecasillabiche o alessandrine vengono sottoposte con scientezza a zeppe, delocalizzazioni di emistichi, errori e inserzioni di scazonti. Sulla scorta delle ultime teorie del ritmo (penso soprattutto a Meschonnic) e delle teorie fisiche (qui mi riferisco alle nozioni quantistiche di entanglement e non località), il tentativo poetico è quello di rendere paradigmatico in letteratura un mondo che sta mutando quanto alla sua interpretazione.
Sono costretto a esorbitare su altro piano, più intratematico: viviamo in un mondo, in un universo in cui i fisici hanno provato definitivamente l’inspiegabilità della casualità oggettiva di fondo. E’ molto peggio dell’imporsi del principio di indeterminazione di Heisenberg: Pribram e Bohm, in questo, hanno contribuito ad abbattere definitivamente una visione deterministica della realtà che, pur messa in crisi da Einstein, è ora sperimentalmente insostenibile. Sia chiaro che non mi interessa assolutamente tradurre letterariamente le matematiche quantistiche od ologrammatiche. Mi interessa invece il processo di avvicinamento tra fisica e metafisica che, perfino in un tempio del determinismo come il MIT, sta spaccando realtà che davamo per accertate. Sostenere questa posizione coincide con la necessità di interrogazione sulla coscienza più che sull’io psicologico, come forza più che cognitiva e più che emotiva, cioè più che mentale. E’ molto chiaro che la psicologia, in questo senso, passa in secondo piano, e che non si può pretendere, da un narratore che non si interroga sullo psicologico ma sul coscienziale, una rappresentazione tradizionale delle psicologie.
Valga il medesimo per quanto concerne il complotto nel Dies Irae: paradigma interpretativo della realtà in letteratura – americana soprattutto – fino a un certo punto, oggi è a mio avviso esaurito come strumento ermeneutico del mondo. L’immagine che adotto è piuttosto quella della nuova visione del trauma (che non ha nulla di freudiano) emergente dalle ultime scoperte neuroscientifiche. Il trauma che spezza la psiche risolto attraverso l’unità coscienziale che subisce la rottura della psiche: è un rozzo riassunto della posizione emergentista, che gioca un ruolo decisivo nella mia poetica. Il Dies Irae non è una storia di complotti, ma di traumi e del loro eventuiale scioglimento. E il trauma esige una sintassi rinnovata, laddove esso muti la sua stessa quintessenza, il che è ciò che sta accadendo.
Sul piano stilistico, mi si deve dimostrare l’illegittimità di una ripresa consapevole della "linea calda". Se un petrarchista come Leopardi è autore (contestato dai contemporanei) di violazioni stilistiche devastanti, sorge il sospetto che, esattamente come ai tempi di Leopardi stavano per mutare i paradigmi di fondo, anche oggi molti addetti ai lavori non si accorgano o non sappiano o non studino quanti e quali paradigmi stiano mutando.
Un’ultima dichiarazione, improvata e perciò contestabile come tutte le asserzioni fin qui enunciate. E’ una dichiarazione in forma di domanda.
Mentre lo stile è còlto da entrambi gli occhi fisici, mi viene da domandare con quanti occhi si osserva internamente ciò che il linguaggio cerca di catturare: cioè la scansione di significati. Non sarà che la sintassi gnostica a cui fa riferimento Pacifico non sia per nulla disordinata, ma accordata con le modalità di captazione dell’unico occhio della visione interna? Non sarà che l’immaginario in sé, che è ciò che per me è tecnicamente il metafisico, cioè il potenziale non ancora in atto, disponga di una sintassi che, agli occhi fisici, sembra caotica come agli occhi dei fisici la casualità oggettiva e la non localizzazione?
La discussione è aperta.


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