Domani si parte: alle 22.30, per la regia di Federica Restani (che è anche voce recitante insieme a Raffaele Latagliata), i danzatori Chiara Olivieri e Daniele Ziglioli daranno vita alla prima rappresentazione della Fabula Orphica, testo non propriamente teatrale del sottoscritto. Lo spettacolo si terrà, a meno di improvvisi rovesci climatici, nel cortile d’onore di Palazzo Te, nell’ambito del festival teatrale europeo Arlecchino d’oro.
Prima che il contributo che segue venga pubblicato sull’installazione web www.fabulaorphica.com, riproduco qui parte di un dialogo avvenuto via mail con un lettore particolarmente attento (in maniera filologica) alla questione del mito orfico. Dapprima, dunque, la sua mail che propone questioni fondamentali e poi il mio tentativo di risposta…
—– Original Message —–
From: blepiro
To: giuseppe.genna@fastwebnet.it
Sent: Saturday, June 24, 2006 5:17 PM
Subject: circa la Fabula Orphica
Caro Giuseppe,
ho letto finalmente il testo di Fabula Orphica. Ho visitato il sito-istallazione (e rilanciando ti dico: espandilo. Che sia base fissa dell’immaginario orfico, in un’esplosione di riferimenti incentrati o prossimi a Orfeo – in un modo simile ma diverso a 24/7 e all’istallazione su l’Anno Luce). Ho ascoltato. Ho visto. Ho assistito.
Ho letto il testo e: finalmente. La struttura è buona, riluce, risuona. Le riflessioni artigianali sono ottime, anche se forse dicono troppo. Bellissimo questo tipo di lavoro sul mito, d’altronde lo condivido in pieno, così come ne ho condiviso l’emersione dalle pagine de “i Miserabili”.
Un paio di cose mi preme di esporti. Leggendo il testo, che è un nucleo densissimo di mito, proprio forse perché lo spazio-tempo mitico è così contratto, mi è capitato di inciampare su tutte le formule tipo: “Che è Io”, ” io sento che sono “io””, etc. Anche nel Dies Irae ne notavo l’insistente presenza. Ma la mia mente, in qualche modo, le rimuoveva, pensava ad esse come a un eccesso brutto e non fertile. E mi domando anch’io quale sia la profoda ragione di questa rimozione. La rimozione nella Fabula Orphica, per quel che ho detto sopra, non è possibile: quindi o apertamente si considerano come un orpello pesante, nudo, ridondante, oppure si fa il salto e se ne cerca ragione. Oso: non dovremmo cercare di dire la medesima cosa ma senza usare espressioni che implichino un riferimento così esplicito, nudo e brutale all’ Io, io, “io” e ai vari Tu/tu/”tu” ?E’ possibile?
L’altra questione riguarda un elemento “mancante” della Fabula Orphica (che dovrebbe avere una lunga parte di movimento, perché il testo mi sembra breve, o sbaglio?). Quando mi sono posto il problema di parlare di Orfeo (operazione per la quale “si necessita di molto coraggio e di parecchia irresponsabilità”), avevo pensato a una soluzione teatrale. Influenzato da Euripide, mi venivano sempre fuori strutture con un Coro. E forse manca una pluralità di voci. Non dico che il doppio non abbia una serie di valenze ulteriori. Ma anche il principio della pluralità nell’/dell’Io, del Collettivo, era importante (e presente). E allora magari un “Coro” potrebbe nascere dalle due voci sovrapposte e moltiplicate. Lo spazio c’è (“questo è il segreto rivelato”).
Perché un coro? Perché tutta la tragedia, secondo Nietzsche, è un’allucinazione del Coro.
—– Original Message —–
From: giuseppe genna
To: blepiro
Sent: sabato 24 giugno 2006 17.47
Subject: Re: circa la Fabula Orphica
Carissimo,
ti rispondo subito, perché le due questoni che poni sono le fondamentali, e a lungo ho sragionato (ci intendiamo se dico così?) su come risolvere i problemi che metti in luce.
Anzitutto la questione dell’espressione circa l’“Io Sono”. Tre, le strade percorribili: tacerne alludendo (sarebbe l’anagogico di Auerbach, che non comprende la valenza iniziatica della domanda sull’Io); tacerne non alludendo (faccio letteratura pura); esprimerla. La terza soluzione non è praticabile da me, ma da un realizzato. Se dovessi collocarmi in un percorso alchemico, direi che sono in vista della Via Umida e sto adesso arrivando al Nero, forse. Quindi, reiterando la domanda e la questione “Io”, commetto un errore di ybris, elemento che, Nietzsche consenziente, è altrettanto quintessenziale nella tragedia. Tieni presente che non il testo sbaglia, ma chi fa il testo: il tragico va a esorbitare il testo. Questo per me è fondamentale. E’ un movimento irrinunciabile per sbalzare, certo non da un punto di vista formale, l’intera teleologia del testo stesso. Quanto alla reiterazione eccessiva (davvero eccessiva) di queste espressioni, non so se ti è mai capitato di leggere Shankara o Ramana Maharshi, oppure di sentire parlare il Dalai Lama: quella reiterazione, che porta noia, getta al tempo stesso un seme. Sono disposto a caricarmi della responsabilità della noia, di passare per stronzo o incapace, pur di arrivare fino in fondo con una struttura che parte essendo retorica e arriva a sfondare la retorica. Del resto, me ne frego totalmente della bellezza del testo: non sta lì il perno, per me. La bellezza è oltre e io cerco di dirla con l’irritante reiterazione del termine “beanza”.
Seconda questione. Orfeo non è una tragedia. E’ un mito che precede la tragedia. Orfeo incarna il tragico, che è una potenza, non una forma. Il suo percorso prescinde, a mio avviso, dall’elemento dell’inconscio collettivo, che si incarna in comunità e politicamente (oltre che esteticamente – qui seguo Vernant) giustifica la presenza del coro. Siamo con Orfeo, intendo, in uno spazio in cui l’alterità non è data. Euridice è una componente di Orfeo. Certo, c’è la prima parte della Fabula, quella che concerne gli Argonauti, dove la comunità esiste: ma sta sullo sfondo, Orfeo la liquida essendo utile alla comunità – poi inizia il percorso interiore. Sarebbe la traduzione laica del detto esoterico del Vangelo, mi pare in Matteo: “Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Siamo servi inutili”. In quell’inutilità si gioca molto di psichico: di depressivo, per esempio. E si gioca con un movimento più basso, ma molto simile, rispetto a quello che viene compiuto nella catabasi e nell’emersione fallita dell’Io. Per questo, il coro è muto, non è che non ci sia: sono gli spettatori. Ho a lungo parlato con Federica Restani (la regista) circa questa possibilità, che è trita e ritrita, con ben altre significazioni, nelle pratiche dell’avanguardia teatrale. Resto però convinto che qui il coro debba proprio allucinare senza parlare. E che in tale allucinazione si getti un seme che, su duecento persone, magari attecchisce in un unico paio di occhi. Lo scopo è questo, ammesso che si tratti di scopo. Perché tutta la Fabula è composta secondo modalità meditative che prima mai avevo utilizzato, non avendovi accesso.
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