A furia di insistere sul dato metafisico che, silenzioso e senza forma, fa emergere parole e figure del romanzo su cui sto lavorando, può sorgere l’idea che io tratti di Dio. La domanda su Dio è un approccio scorretto, nel caso in questione: poiché tutto si ridece a una domanda a Dio. Il lume, in questo caso, è il teologo, ben poco frequentato in Italia, Emil Fackenheim ed è da lui che traggo alimento per tentare di non concedere la più importante vittoria postuma alla Cosa che irradia il Male perché è il Male, cioè la possibilità antiumanistica dell’apertura, l’opzione della domanda e della fede. Ciò, tuttavia, riguarda la religione e non la metafisica.
L’erudito documento che pubblico di seguito è un passo di certe riflessioni del Patriarca di Venezia, Angelo Scola, peraltro uno dei membri della Curia più avvertiti sul piano teologico: e si tratta comunque di un raro esempio di come metafisica, ontologia, teologia e religione si intersechino in un inganno dialettico che ha permesso alla religione più diffusa al mondo di espellere da sé ogni metafisica operativa e quindi di formulare la domanda a Dio di cui il romanzo pretende di essere silente portatore. Laddove si “richiama la necessità di tener ben fermo, nel percorso dell’ontologia simbolica, che la questione del fondamento non coincide immediatamente con la questione di Dio”, si oppone, nel nuovo libro a cui lavoro, il principio contrario: la pietà e l’innocenza nascono solo se nel fondamento dell’essere non si ravvede alcun limite figurale, e cioè il Dio cristiano. Il che non si trova in Fackenheim, se non come derivazione al principio della possibilità di domanda: è questo, per me, l’obbiettivo fondamentale – lasciare aperto, aprire quel principio di domanda.
INEVITABILE ONTOLOGIA
di ANGELO SCOLA, Patriarca di Venezia
La questione cristologica centrale finisce per mostrarsi intrinsecamente connessa con quella ontologica per essenza, in quanto emerge dalla distinzione reale (differenza ontologica) come tale: gli esseri sono limitati, l’essere no! In questa divaricazione sta la radice di ogni pensiero religioso. Dalla teologia viene allora una luce alla filosofia? Una luce che la lasci essere nella sua propria autonomia mentre la urge a non desistere dal porre la domanda ontologica centrale indipendentemente dalla capacità di trovare – in se stessa – la risposta compiuta (sottolineo compiuta)?
L’ontologia è inevitabile. Essa rispunta sulle ceneri della pretesa kantiana di critica radicale alla metafisica o di quella heideggeriana di un suo superamento radicale. Né appare, alla fine, pertinente l’intento di indagare la questione di Dio a prescindere dall’essere, tanto più che, ad un’attenta considerazione della dottrina classica dei trascendentali (la cui validità è da rivendicare con coraggio, anche dopo la nascita della filosofia trascendentale come ha mostrato Balthasar versus Rahner), questo tentativo si rivela in un certo senso superfluo.
Qui si vede l’unità profonda di tutta la tradizione occidentale di pensiero che alla fine regge anche di fronte alle proposte di destruktion più radicali. Come giustamente è stato notato, il tema di Dio che si intreccia, senza confondersi, con il tema del principio (arché), finisce per riproporsi sempre e comunque in termini linguistici sostanzialmente equivalenti, la cui ultima radice non si discosta, lungo tutto l’arco del pensiero occidentale, dalla formulazione originaria legata alla riflessione presocratica.
Nell’atto di coscienza che intenziona il reale si manifesta, nel cuore stesso dell’essere, una differenza, una distinctio tra la cosa concreta, la res, e l’essere come tale. Come coniugare allora l’identità e la differenza, l’uno e i molti? Come il divenire può stare senza annullare l’essere o come l’essere può, nel suo grembo, permettere il divenire?
A chi sostiene che teologia e filosofia, cristologia e ontologia si illuminano a vicenda nella rispettiva necessaria autonomia, e lo sostiene, a partire per così dire “dall’alto” (cioè dalla teologia in quanto fondata sulla rivelazione), toccherebbe ora l’onere di fornire un percorso ontologico. Questo per mostrare il rigore della démarche, consentendo a tutti gli interlocutori la possibilità di verificarne la validità. Altrove ho già sinteticamente riproposto, riconoscendone tutti i debiti, quel percorso di ontologia del simbolo reale che finora pare a me il più convincente, anche sul piano propriamente filosofico.
Basti richiamare che l’ontologia simbolica articola, a partire dalla differenza ontologica, le nozioni di realtà, verità, ragione, volontà, decisione, fede, rivelazione secondo una forma che consente il superamento degli esiti antiontologici della filosofia trascendentale e della fenomenologia.
«L’essere possiede un carattere che ultimamente lo sottrae alla portata dell’uomo. Tecnicamente ciò significa affermare che l’essere è indeducibile. Eppure si comunica. Come? Si comunica nel segno. È e-vento. L’essere nel segno si ri-vela interpellando il soggetto a cui è destinato, affinché quest’ultimo possa assentirvi. In quanto evento l’essere si dà sempre in un segno, in quanto è rivelazione l’evento dell’essere interpella sempre una coscienza che lo possa accogliere. La libertà dell’uomo deve concorrere necessariamente con la ragione nell’assenso all’essere. Tuttavia l’uomo non può sapere autonomamente quale sia il compimento dell’appello che l’essere gli rivolge. Tecnicamente si deve dire che l’uomo non può risolvere la differenza dell’origine che pure gli si comunica. In questo senso si deve riconoscere che la struttura ultima dell’atto di coscienza che si rapporta (intenziona) alla realtà, ha la forma di fede (non però di un generico concetto di credenza)».
La volontà riproduce una struttura analoga a quella dell’intelligenza proprio perché si realizza nell’orizzonte di un’evidenza di tipo simbolico. La decisione è possibile perché nessuna determinazione concreta diventa motivo dell’atto di volizione se non in quanto anticipa un orizzonte generale che lo supera; d’altro canto – sempre in analogia con la dimensione teorica – la decisione è necessaria perché il volere non giunge alla consapevolezza della sua ragion d’essere originaria se non attraverso determinazioni oggettive concrete che ne rivelano la trascendenza. In questo senso si può dire che la dimensione pratica mostra nell’evidenza simbolica la qualità dell’alterità: il termine ultimo del volere è anticipato come ciò che è voluto, ma non può mai essere adeguato. Trascendenza del volere ma limitativa del suo potere. Come, a livello teorico, la struttura originaria è irriducibile all’evidenza univoca del concetto, così a livello pratico essa è ultimamente indisponibile: resta sempre altra.
In sintesi, nell’evidenza originaria l’apparire (immediato) è apparire dell’essere, perché è posto dall’essere che è altro dall’apparire. Questa è la differenza ontologica indeducibile concettualmente, e dice che il modo per accedere alla verità dell’essere non è concettuale. L’ esperienza etica specifica che la differenza in questione dice strutturalmente alterità. Allora la differenza stessa urge alla decisione di cui manifesta tutto il senso, senza che quest’ultimo possa essere disponibile.
È così fondato il rapporto verità-libertà: la libertà si rivela – in modo radicalmente indeducibile, che esige di attuarsi attraverso il determinarsi storico-concreto del Dasein – perché l’apertura originaria alla verità (dimensione teorica) urge ad una decisione per il fondamento che però resta indisponibile (dimensione pratica). In questo senso l’evidenza della verità è anche l’evidenza della libertà (a condizione che si concepisca l’evidenza come simbolica). E, correlativamente, il sapere della verità è anche sapere della libertà.
L’ontologia simbolica conclude pertanto ad un superamento del pernicioso estrinsecismo tra fede e ragione invalso a partire dalla filosofia moderna. Postula pertanto un ripensamento del rapporto filosofia-teologia sulla base di una «riformulazione dei concetti di ragione e fede non più a partire dalla loro distinzione presupposta, ma dalla radice comune dalla quale procedono e che misura la loro reciprocità». Non per questo la fede si confonde con la ragione né si sostituisce ad essa, ma ne costituisce per così dire il fondamento critico.
Ora, se guardiamo alla fede cristiana, «essa si presenta come l’attuazione, per grazia, di questa struttura originaria della fede. Infatti, la dedizione incondizionata di Dio agli uomini (resa pienamente visibile nell’avvenimento di Gesù Cristo) manifesta la pura gratuità della decisione divina di comunicarsi. E ciò al punto che la rivelazione biblica ha potuto scoprire come la comunicazione della verità all’uomo (rivelazione) implichi la creazione stessa dell’uomo e, quindi, l’istituirsi della storia. Proprio il carattere gratuito della dedizione di Dio all’uomo spiega perché Dio si riveli nel segno interpellando la libertà. Tecnicamente questo significa che “secondo l’autocomprensione della fede cristiana, la possibilità di accedere al senso originario della trascendenza è subordinata all’evento che ne realizza storicamente l’evidenza” (A. BERTULETTI, Fede e religione: la singolarità cristiana e l’esperienza religiosa universale, in AA.VV., Cristianesimo…, op. cit., 99). Evento, rivelazione ed atto della coscienza appaiono in tal modo come ontologicamente indisgiungibili».
Si rendono qui inevitabili due corollari.
Il primo richiama la necessità di tener ben fermo, nel percorso dell’ontologia simbolica, che la questione del fondamento non coincide immediatamente con la questione di Dio. «Dio non può venir «costruito» a partire dal mondo mediante il mondo nel senso che all’(essere) reale «semplice, indivisibile ma non sussistente» venga giustapposta una essenzialità in-finita». Ciò non significa ovviamente negare la possibilità di inferire l’esistenza di Dio.
Il secondo corollario è pure d’importanza capitale. Quando si afferma l’irruzione di Cristo nella storia e si passa dall’ontologia simbolica, in sé aperta, ai dati della religione rivelata, «è ormai per principio sicuro che questi dati non hanno lo scopo di colmare le insormontabili lacune della ragione o di aiutarla in direzione di un sistema conclusivo, giacché questi dati sono validi unicamente per quello per cui si danno: Dio che si schiude in una libertà che come tale non si può mai risolvere in oggetto della ragione».
È forse così posta la strada per cogliere come, nella questione di Dio in quanto fondamento, sia decisivo poter rinvenire nello stesso tempo una unità tra assolutezza e storicità, tra necessità e libertà, tra identità e differenza, senza “portare” la polarità all’interno del fondamento stesso, perché ciò ne vanificherebbe la natura di struttura originaria. L’indagine sul fondamento così condotta, una volta che per grazia l’evento di Cristo fa la sua irruzione nella storia, trova una risposta conveniente, nel senso medioevale ed etimologico della parola. Se in Cristo Gesù vero Dio e vero uomo si dà un passaggio dall’archetipo (Dio) all’immagine (uomo) senza che Egli perda la natura di archetipo, allora si può in un certo senso capire che egli senza eliminare l’immagine (l’uomo) potrà introdurla, purificandola, nella comunione divina; ma per capire adeguatamente si dovrà ovviamente distinguere nell’unito tra natura e grazia. Apparirà allora plausibile perché Dio, che non ha bisogno del mondo, crei il mondo e quindi che esista l’essere e non il nulla. Tanto più che questo essere contingente, che si impone all’atto con cui la nostra coscienza immediatamente intenziona il reale, è ultimamente espressione di un dono ineffabile di amore che, nel mistero insondabile dell’Uni-Trino, si produce. Un mistero in cui la differenza è portata nel fondamento come origine e principio di ogni differenza possibile [] senza che la sua natura di fondamento ne risulti alterata. Se in Dio infatti c’è posto per l’uno, l’altro e la loro unità, se in Dio, come diceva Bonaventura, vi è productio similis, allora si capisce che l’alterità della creazione non sia una caduta, ma immagine di Dio senza essere Dio. La productio dissimilis della creazione si spiega a partire dal fatto che «processiones personarum in Deo sunt causa et ratio processionem creaturarum a Deo».
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