Ierisera, a una cena esclusiva, molto mondana, la crème dell’editoria. Convocate più di 150 persone che “contano”. Salotti milanesi mobilitati. Io ci sono e sto a un tavolo, accanto a una nota e storica pubblicitaria, una teorica della letteratura, tre editori e una amministratrice delegata. Per tutta la sera, ascolto discorsi intelligenti e posati, buon senso comune placcato a 24 carati, mentre mi piacerebbe stare vicino a uno dei tre editori, che è una persona geniale e che considero un amico di lunga pezza: è il “mio” editore. Impossibile intavolare con lui, a causa della posizione delle sedute, un discorso per me fondamentale che lui ha iniziato. Nello sviluppo della cena, resto solo con la storica pubblicitaria, un docente universitario, la teorica della letteratura, l’amministratrice delegata, un’esperta formidabile di arte contemporanea e i due editori restanti (il “mio” editore è stato risucchiato ad altri tavoli). Stimolato da non so quale domanda circa lo stato delle cose in letteratura, esprimo, per l’irritazione della pubblicitaria (che si alza e se ne va, indignatella, mentre sto parlando) e del docente universitario, all’incirca questa posizione: “Deve essere garantito uno spazio, che nulla ha a che vedere con l’editoria, di ricerca personale di letteratura artistica. Sto parlando di una ricerca che non discute l’esistenza di libri di letteratura. Parlo di un’esplorazione nell’inesplorato, della libertà a priori di prescindere da ogni lettore odierno, di tentare di parlare al lettore che vivrà tra cinquant’anni. Questa cosa non ha alcuna rilevanza sociale, è diversa dalla letteratura. Esorbita la forma-libro per come la conosciamo. Questa cosa è precisamente il cartafaccio di Amerika di Kafka, che doveva essere bruciato. O l’allucinante manoscritto semi-crittografato di Petrolio di Pasolini. Questo, di cui parlo, è un momento di ripiegamento dello scrittore su se stesso e di meditazione circa i semi che gli altri scrittori trascorsi hanno lanciato a fiore di terreno: semi che lo scrittore può fare fiorire, per piantare ulteriori semi. Questa attività è un gioco personale. Ed è l’unico modo, a mio parere, di compiere un salto che la letteratura in sé, per come è stata canonizzata dal contemporaneo, impedisce di compiere. Dov’è l’equivalente letterario di Arvo Pärt o di Anselm Kiefer? L’attività artistica a cui guardo può anche essere definita come estranea alla letteratura. Per compiere questo passo, io ho pensato di saltare del tutto l’editoria. L’editoria, con tutti i pregi che comporta, non può accettare il lavoro che matura e al limite deperisce nel cassetto. Per questo, riguardo all’opera a cui sto lavorando da anni, mi è chiaro che non si verificherà alcuna uscita editoriale. Pezzi sparsi dell’opera vanno già ora in Rete o appaiono come lacerti nei miei libri, ma l’opera in sé, a cui io guardo come a un’enorme installazione d’ordine nemmeno solo testuale, perché ci sono immagini, dvd acclusi o addirittura nascosti tra due pagine cucite tra loro, deve rimanere morta, per vivere eventualmente dopo. E’ in via di sottoscrizione un contratto con un museo estero, dove una delle due copie di questa opera finirà sotto teca. Contemporaneamente, essa, nella sua forma digitale, sarà messa totalmente a disposizione in Rete. La cosa fondamentale è che l’editoria, nel caso sia interessata a un lavoro retorico come quello che sto compiendo, arriverà per ultima. Industria e mercato, comunque, saranno gli ultimi attori, e solo in certa eventualità: che io non abbia commesso un errore marchiano, che sarei comunque felice di compiere quale segno della libertà che mi sono avocato esclusivamente in questo caso. Se il testo interesserà, l’editoria si muoverà. Per contratto stipulato, tuttavia, io sarò non vivente, in quel momento, e l’opera sarà anonima, non recherà il mio nome. Qui si affrontano gangli che io considero fondamentali per un futuro dell’arte: gangli essenzialmente comunitari, che l’attuale comunità non comprende come non è compreso Burroughs – dobbiamo attendere ancora vent’anni perché Burroughs sia compreso, perché Lynch sia compreso: perché i loro gesti e le loro posture accolgano il senso che la comunità identifica come intercettato da quelle forme particolari – e questo accadrà se Burroughs e Lynch non hanno sbagliato. E se hanno sbagliato, non importa, perché finché c’è l’umano questi gesti e queste posture vengono realizzati. Il problema è di questo tempo e non è della comunità che vive questo tempo: è un problema dei creatori che non riescono, tranne poche eccezioni, a rendere rappresentazione di questo tempo e, nello stesso istante, dell’assenza del tempo. Mirare agli universali esige una fase preparatoria di silenzio, in cui è necessario essere liberi, totalmente liberi”.
La pubblicitaria se ne è andata irratata, convinta che io parlassi di letteratura. E non era di letteratura che stavo parlando.
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