Scusate: me e i miei libri. Dialogo a distanza con lo scrittore/lettore

Devo scusarmi, ma sento la necessità di parlare di me e delle mie cose.
sl.jpgOggi, incontro con un bravo scrittore, che non è stato compreso a pieno, finora. Scopro che è un lettore dei miei libri. Ne parliamo e io parlo come secondo me si parla di letteratura, e quando io dico: “A me, i miei libri non soddisfano, non è quello che voglio fare e nemmeno quello che volevo fare”, l’uomo manifesta delusione, rabbia, incomprensione. Dice: “Hai fatto marchette, in pratica? Nel nome di Ishmael è una marchetta?”. Cerco di spiegargli. Non ha letto Assalto a un tempo devastato e vile, e quindi mi identifica con i tre libri che hanno per protagonista Lopez (escludo Catrame, che è un libro breve e non un thriller). Cerco di spiegare che a me la narrazione attraverso romanzo non ha più nulla da dire. Che la mia poetica è un’altra. Che per me è fondamentale sovvertire e spaccare la forma romanzo. Alludo al romanzo, dicendogli: il prossimo libro è pensato come un insieme di metope. Lui risponde: “Sì, ma lo stile… Il tuo stile… Ishmael, Il Drago e Grande Madre Rossa hanno il medesimo stile, è il tuo stile!”. Rispondo che io non ho stile. La delusione si ingrossa. Argomento: lo stile è zero, è difesa psichica, a me la scrittura e l’opera servono come arco di dissoluzione delle difese psichiche. C’è un’intenzione, per ogni libro, che è quella di arrivare a punti di me in cui la coscienza non è previamente giunta, e ciò non ha nulla a che fare con lo stile. La lingua è inesistente, il suo primato è superficiale. Faccio l’esempio di ciò a cui io guardo: i monumenti sacri induisti e buddhisti, scolpiti da anonimi che cercano di arrivare a dissolvere la psiche perché ritengono che l’uomo non sia solo corpo e psiche, sono opere che non vengono restaurate, perché essi stessi non sono il monumento: il monumento è il tempo che erode il monumento. Io guardo a questa cosa qui. Il romanzo tradizionale (che non esiste; diciamo, grezzamente, il romanzo che narra chiudendo, più o meno linearmente) non è più da me avvertito come forma veritativa: cioè, non mi fa calare in zone che non conosco. Posso raccontare storie, certamente, riutilizzare lo stile delle storie a cui certi lettori si sono abituati (lo scrittore/lettore in questione, per esempio, si è talmente abituato che il Dies Irae lo percepisce in continuità con la trilogia di Lopez). Mi continua a rispondere che i lettori così vengono delusi, che la mia è un’operazione elitaria. Gli controbatto che ciò a cui io penso e a cui mi piacerebbe lavorare è un’installazione, un ciclo di installazioni, di cui certi inserti e il finale del Dies Irae costituiscono un esempio. Si inalbera quando dico che non mi importa se i lettori saranno trecento. Dice: “Trascuri il lettore”. Non trascuro il lettore. Il lettore è il tempo dei monumenti induisti: è l’erosione del libro, che viene consumato dai climi mentali e dalle ore di attenzione e di differenti comprensioni e prospettive spese da chi legge un romanzo del sottoscritto. Quanto alle marchette, si tratta di un falso problema: io ho scritto e scrivo con il massimo dell’onestà, in una forma che sorgivamente farei germogliare in altro modo, rendendomi impubblicabile. Ho scelto, invece, di usare squarci in strutture di genere consolidato, ma il genere non esiste, non ha per me più senso che esista. Per me: non per gli altri scrittori o per i lettori. La fatica che ho speso nell’organizzare e nel portare a termine un romanzo che nessuno aveva tentato prima, per esempio, è il mio tentativo di dissolvere il genere storico. Se sbaglio, vividdio: posso sbagliare, sono libero di sbagliare… giunigredo.jpgDi fronte a ciò che sogno, l’autore/lettore arretra, abbastanza deluso: questo ciclo aperto, in cui il lettore non è più guidato, anzi, è portato a provare il dolore della mancanza di riferimento, il punto silenzioso che prima fa paura ed è nero, poi si illumina e diventa incandescente, dove non è più differenza tra me che scrivo e il lettore che legge – il punto preciso dell’abbraccio, del coito, dell’osmosi, della ricongiunzione di due parti innaturalmente separate… La polemica continua. Cito Hugo, Wallace Stevens, Eliot, Kafka, Celan, Burroughs, Petrolio di Pasolini: scrivevano calcolando i lettori del proprio tempo? Oppure si inabissavano alla ricerca di ciò che sarebbe stato abbracciabile dai lettori di ogni tempo?
Ognuno, ovviamente, ha la propria estetica: sia lo scrittore sia il lettore. Ognuno prende questo relitto, questa reliquia, che è il libro, messaggio lanciato privo di bottiglia, e lo legge come vuole. L’autore abbandona il proprio parto. Io sento questo, altri sentiranno altro.
Mi spiace che lo scrittore/lettore sia rimasto deluso e abbia percepito in me una falsità inesistente, nel momento in cui ho detto che, se dovessi giudicarmi, Assalto a un tempo devastato e vile e alcuni stralci di Dies Irae sono le cose scritte da me che mi soddisfano a pieno, perché mi hanno consentito un lavoro di inabissamento e incanto. I thriller erano votati alla fine del genere thriller, alla comunicazione di determinate informazioni, alla scrittura che poteva spaccarsi e permettere finestre sull’oscurità che non si sa: a me interessano quelle finestre. I lettori sono liberissimi di apprezzare non i buchi, ma il pieno. Ho scritto anche il pieno. Lo avrei scritto diversamente, date altre condizioni storiche. Un libro non è per sempre, nel mio caso. Lo stile è molti stili, poiché ciò che conta, per me, è l’indole della lingua, avvertire l’indole della lingua e starci. L’indole della lingua non è la lingua e non è lo stile.
Infine, il rapporto col popolare. Cosa fa uno scrittore? Intercetta. Intercetta ciò che è immaginario puro e comunitario, a più livelli. Gli immaginari fioriscono o sono già fioriti. A me interessa ciò che può fiorire. Se sbaglio a intercettare, sono un cattivo scrittore, epperò libero. Questa libertà il nostro tempo mette a repentaglio, io avverto la pressione di un simile repentaglio. Io spero di sfuggire al repentaglio e di potere scrivere fuori da ogni repentaglio: lo sguardo dell’altro non mi mette a repentaglio, a meno che non sia uno sguardo giudicante, la pupilla che percepisce in base a ciò che è avvenuto. La pupilla è aperta, essa stessa presenta il fundus oculi come un buco nero. Andare nel buco nero è la mia ambizione. L’esaurimento della letteratura, questo fallimento a priori praticato con inesausto amore, è la mia ambizione. La penultimità della letteratura è l’ambizione a questo esaurirsi, che fa la letteratura: l’eterno tentativo (eterno quanto è eterna la forma umana: quindi, è già terminato…) di avvicinare la letteratura all’ultimità che “significar per verba non si porìa”. Tu sei quello che tu vuoi, ma non sai quello che tu sei.


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