Il pericolo della riscrittura

x2.jpgRiscrivere espone a un pericolo. Bisogna affrontare molte pavidità, del tutto interiori, nell’isolamento, ma riguardanti l’esito concreto e materiale, cioè esterno, di ciò che si sta riscrivendo. Interpretazioni che diventano surinterpretazioni, irregolarità che vengono normalizzate, timore di risultare incompresi che per l’editore si commutano in allerta mercantilista con subitaneità. Si è doppiamente soli: nel senso che si è soli, ma sdoppiati. Un occhio suppostamente esterno si inserisce nel processo creativo. Bisogna tenere a freno la potenza normalizzante di questo sguardo secondo, sempre mentale, sempre giudicante: ipergiudicante – superegoico. Riproduco un brano dal bel saggio Riscrittura come interpretazione. Dagli umanisti a Leopardi di Francesco Tateo. I passi di e su Leopardi non hanno a che vedere nei loro termini con quanto penso di avere fatto o di fare: non sto a livello di Leopardi e non ci penso nemmeno ad avere scritto un classico. Vorrei porre l’attenzione sui rischi e i processi evidenziati da Leopardi, invece: si tratta di qualcosa di estremamente profondo rispetto ai movimenti di revisione, ai pericoli che corre l’esito che si raggiunge, alla castrazione della rottura delle norme ottenuta tramite fantasia: al libro che, scritto, si continua a scrivere nell’abbraccio eventuale dei lettori e, purtroppo, anche delle accademie che non comprendono e oggettivizzano ciò che non è oggettivizzabile. Tanto più che qui Leopardi sta alludendo a rotture di schemi e generi, così come il romanzo si propone l’allargamento della gabbia del genere storico romanzesco. L’ultimo passo, in corsivo e sottolineato dal sottoscritto, è una perfetta definizione di quello che intenderebbe essere il romanzo. gg

leopardiclass.gif‘Classici’ non appare che una volta nell’indice leopardiano, in
un’accezione perfettamente contraria a quella di ‘antichi’, per designare
appunto l’esattezza della pedanteria che guasta l’irregolarità
del genio: «È un curioso andamento degli studi umani, che i geni
più sublimi liberi e irregolari, quando hanno acquistato fama stabile
e universale, diventino classici, cioè i loro scritti entrino nel numero
dei libri elementari e si mettano in mano dei fanciulli, come i
trattati più secchi e regolari delle cognizioni esatte» (Zibald. 307).
Segue uno sfogo contro i grammatici, in cui Leopardi recupera significativamente
la figura di Omero, che «scriveva innanzi ad ogni
regola» e «non si sognava […] che la sua irregolarità sarebbe stata
misurata, analizzata, definita e ridotta in capi ordinati per servir di
regola agli altri, e impedirli di esser liberi, irregolari, grandi e originali
come lui». È un discorso che può trovarsi testimoniato in tutti
i tempi e in forme diverse, ma che qui appartiene ad un filone
chiaramente riconoscibile che va da Poliziano, passando forse per
l’anticlassicismo secentesco, al Vico, e che assume Omero quale
simbolo del genio anteriore alle norme dell’arte, come assume Virgilio
quale simbolo dell’arte matura. Un discorso plurisenso, che
s’intreccia con la topica riguardante le forme di barbarie e che ha
anch’esso la sua matrice nella cultura umanistica
.

Intuizione originaria di Leopardi è l’identificazione dell’antico
con la distanza e con l’eco, con l’immagine della distanza e col senso
della perdita, si direbbe della negazione e del nulla, che non è
disvalore ma valore dello spirito e della sensibilità, dell’umanità
autentica, il contrario della inconoscibile materia e dell’immobile
natura.


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