Agamben tra le teologie del romanzo

Giorgio_agamben.jpgdi Giorgio Agamben
[da Idea della prosa, Quodlibet, 2002]
[Mentre rivedo il romanzo, ho la possibilità di allargare la visione sugli elementi ideologici che permettono di denunciare la radice criminogena della letteratura. Nel mio caso, non solo il protagonista irradia il Male – e ne è totalmente e personalmente responsabile – utilizzando la retorica letteraria fuori della letteratura, e cioè pensando letterariamente ogni sua strategia, ma chi viene sedotto dal Male lo fa perché non ha compreso il Libro, l’impossibilità e la possibilità della domanda che, unendo l’uomo a se stesso, irradia dal Libro dei Libri come alleanza che ci fa fraterni. Questo prevedeva il progetto umanistico: questo esito criminoso. Il romanzo è anche la denuncia di questo crimine plurisecolare, che ha il suo culmine e la sua figurazione storica: che io racconto senza finzione. E’ un intreccio di teologie che mi permette di sospendere la domanda: “Perché?“, di rimanere nella posizione di apertura indiscriminata verso l’alterità, il che non concede vittorie postume al Male, che è sempre attivo secondo oggettivazione, autoidentificazione. Teologie particolari sono lo sfondo del libro a cui lavoro. Sono Benjamin, Scholem, Taubes, Fackenheim, ma anche Agamben. Per questo è importante ritrovare il ragionamento fondamentale di Giorgio Agamben intorno a cosa sia davvero la metafisica quand’essa è assimilata come legame comunitario di fronte all’apertura indiscriminata che fa l’umano. Per questo va riproposto tale ragionamento, per quanto arduo appaia. gg]

Scholem ha scritto una volta che vi è qualcosa di infinitamente sconsolato nella formulazione dell’assenza di oggetto della conoscenza suprema, che viene insegnata nelle prime pagine dello Zohar e che costituisce, del resto, la lezione ultima di ogni mistica. x2.jpgIn queste pagine, sul limite estremo della conoscenza sta il pronome interrogativo Che? (Mah), oltre il quale non vi è più alcuna risposta possibile: “Quando un uomo interroga, cercando di discernere e di conoscere grado dopo grado fino all’ultimo, raggiunge il Che?, cioè: hai compreso Che? Hai visto Che? Hai cercato Che? Ma tutto resta altrettanto impenetrabile che al principio”. Più intimo e occulto è, però, secondo lo Zohar, l’altro pronome interrogativo, che segna il limite superiore dei cieli: Chi? (Mi). Se Che? è la domanda che chiede il che cosa (il quid della filosofia medievale), Chi? è, infatti, la domanda che interroga il nome: “L’impenetrabile, l’Antico ha creato ciò. E chi è? È Chi?… Poiché è, insieme, oggetto di domanda e indisvelabile e chiuso, è chiamato Chi? al di là non ci sono più domande… Esistente e inesistente, impenetrabile e chiuso nel nome, non ha altro nome che Chi?, aspirazione al disvelamento, a essere chiamato con un nome”.
Certo, giunto al limite del Chi?, il pensiero non ha più oggetto, sperimenta l’assenza di un ultimo oggetto. Ma questo non è sconsolante o, piuttosto, lo è soltanto per un pensiero che, scambiando una domanda con l’altra, continuasse a chiedere Che? là dove, nonché risposte, non ci sono nemmeno più domande. Veramente sconsolante sarebbe se la conoscenza ultima avesse ancora la forma dell’oggettualità. Proprio l’assenza di un ultimo oggetto della conoscenza ci salva dalla tristezza senza rimedio delle cose. Ogni verità ultima formulabile in un discorso obiettivante, fosse anche in apparenza felice, avrebbe necessariamente il carattere destinale di una condanna, di un essere condannati alla verità. La deriva verso questa definitiva chiusura della verità è una tendenza presente in tutte le lingue storiche, che poesia e filosofia ostinatamente contrastano, e in cui trovano, invece, alimento tanto il potere significante dei linguaggi umani che loro ineluttabile morte. La verità, l’apertura che, secondo un oros platonico, è propria dell’anima, si fissa, attraverso il linguaggio e nel linguaggio, in un ultimo, immutabile stato di cose, in un destino
Questo difficile incrocio fra dono e memoria, fra un’apertura senza oggetto e ciò che può solo essere oggetto, è la verità in cui, secondo l’autore dello Zohar, il giusto dimora: “Chi? è il limite superiore del cielo, Che? il limite inferiore. Giacobbe li riceve entrambi in eredità: egli fugge da un limite all’altro, dal limite iniziale Chi? al limite finale Che? e si tiene nel loro medio”

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: