Igino Domanin: “Grand Hotel Abisso”


E’ in libreria il saggio di Igino Domanin “Grand Hotel Abisso”, edito da Bompiani nella collana Agone, diretta da Antonio Scurati. L’autore è uno dei pochi intimi che mi restano e c’è una ragione se è un mio intimo; tale ragione è deducibile da quanto e da come vado a scrivere a proposito di questo libro, che in un certo modo conclama per se stesso una centralità, oggi, in Italia. Si tratta, per ammissione stessa dello scrittore, di un “ibrido filosofico”. E’ abbastanza sconcertante che non venga dichiarato “ibrido narrativo”: significa che coglie uno stato di esaustione della manovra filosofica, intesa all’occidentale. Igino Domanin ha frequentato la facoltà di filosofia presso la Statale di Milano nei miei stessi anni; llì si è laureato; lì si è specializzato, avendo una mente non specializzanda, da non specializzare in nulla, poiché mossa da ciò che quella filosofia occidentale censura, cioè il movimento profondo che viene evocato nella realtà psichica dall’ossessione. Funziona da motore l’ossessione e non il trauma o l’assenza di trauma, il che invece viene rivendicato dai debolissimi teorici di questi mesi. Che ci sia o meno il trauma è un fatto che pertiene a una religione apparentemente laica, che però produce i suoi bigottismi. La fase terminale del paradigma psicoanalitico ha prodotto questo sussulto: l’ansia di determinare un vortice traumatico quale forza nominativa, come se con estrema levità potesse ripetersi una fase adamitica in cui i nomi non erano ancora stati dati e, in forza di una paura di base, si reificava una scelta in forma di necessità, di esorcismo, di fantasma: la nominazione, appunto. Non essendo così ingenuo filosoficamente, Igino Domanin colloca in una strana temporalità questa fase attuale, che è invece ingenua. Di cosa tratta dunque la sua esemplare descrizione? Tratta di una manifestazione della fine. E’ la fine di un ben più vasto paradigma rispetto a quello psicoanalitico, e cioè del paradigma che si ritiene essere stato una tradizione o perlomeno un canone: quello dell’umanismo occidentale, un portato supposto e supponente, e quindi saprofita, dell’intero corso della filosofia, almeno per come l’hanno insegnata a inizio Novanta in un ateneo periferico e incantato dai minimi misteri della moda (con tanto di inclusione del disvelamento della moda medesima, il quale fu praticato da Simmel sulla scorta di Nietzsche, propagandato sotto altre vesti, e quindi sotto altri soggetti della moda, dal teorico tedesco György Lukács, da un cui passo proviene l’espressione “grand hotel dell’abisso”, con cui Igino Domanin intitola il suo “ibrido filosofico”. Va detto che la fase terminale di questo occidente non è per nulla tale: è la fase terminale non dell’occidente in senso geografico o filosofico, bensì di un’illusione del tutto novecentesca. “Grand Hotel Abisso” è l’antropologia di tale coma irreversibile, che culmina con la morte di un soggetto, che fu molto storico, a modo suo ovviamente, e cioè propalatore di un canone storico fantastico, anche se questo canone fantastico si ammantava di un realismo metallico tutt’altro che poetico. Si tratta qui dunque dell’estinzione dell’uomo dialettico e, al tempo stesso, del lavoratore jüngeriano, figura messa in un cantuccio del XX secolo, in quanto sospetta di filofascismo teoretico.
Il libro di Igino Domanin non ha nulla a che vedere con il lessico poco vivace che impegno in questa mia piccola kritik-zur. L’autore è invece molto vivace e inscena una narrazione: una narrazione vera. Cade, cioè, nel cuore stesso dello speculum che sta esorcizzando, poiché nessuna narrazione è vera e tantomeno è realistica. Proprio qui, a questo incrocio, esercitava i suoi poteri affabulatori l’illusione novecentesca. Le narrazioni non novecentesche sono sempre state ben più che vere, invece. Lo sconcerto e il piacere che si prova a leggere le cronache allucinate e allucinogene con cui Igino Domanin ci conduce in un vorticare impazzito di “viaggi” a oriente di nessun occidente, attraverso una sloganistica che giustamente si ritiene erede dello stile aforistico praticato dalla migliore filosofia del secolo scorso – proprio quella sorpresa, quell’intrattenimento infinito e quello spazio biancastro in cui è gettato chi legge: ecco gli elementi sintomatici di una morte che non smette mai di morire: la morte occidentale. Questa è la cifra totale di un tempo che è passato. Non so quanto quel passato sia presente ora in noi attraverso una sintesi, così come non so se sia stato propriamente trasceso. Mentre affoga nello squallore atemporale e anumanistico della Thailandia a Pattaya, l’autore può dunque dire bene e in certo senso benedire comminando l’apoftegma: “Ho visto le menti migliori della mia generazione passare interi fine settimana all’Ikea”. Ha davanti a sé una fase ultima, ma non ultima in senso assoluto, quindi indefinitamente ultima, di un soggetto e di un mondo che pretendevano di essere “sempre accesi”. E allora? Richiede forse una mimesi questo tempo esausto, che non è il tempo e non è l’esaurimento? No. Ecco l’angolo decisivo, ecco il momento centripeto fatale, ecco la gran paura che sopraggiunge in una forma informale: il terrore della fine di un “io” novecentesco, che prima del Novecento e dopo il Novecento non è mai stato né mai sarà quell'”io”. E quale “io” rimarrebbe) Quale sarebbe dunque lo stile dell'”io” in questo momento? Igino Domanin rappresenta, credo con estrema consapevolezza, filosofica letteraria e umana tout court, la condizione dello smarrimento non soltanto psicologico, ma più latamente psichico: non si è più nei territori controllati dall’egoità e non si è ancora nei territori del trascendimento dell’egoità. Questa “larga rima” non è l’occidente: è la letteratura.
Esiste un’antropologia del momento letterario? No. Perché? Perché è quel momento, il momento della letteratura, a rivelarsi l’istante che fa terminare davvero sempre e ovunque l’illusione occidentale, qui intesa quale illusione filosofica novecentesca. La filosofia non è quello che è stato emesso filosoficamente nel Novecento. La filosofia è una pratica altra, sempre attuale, molto concreta, priva di mezzi di espressione, che sono da reinventare ogni volta, con enorme frustrazione di chiunque impegnasse in questa atletica formale il proprio “io” . E’ il motivo per cui i testi filosofici della supposta tradizione occidentale sono sempre stati letterariamente significativi: dal poema parmenideo alla gnomica eraclitea, passando attraverso i libri platonici, i finti dialoghi di Giordano Bruno o di Galileo Galilei, le meditazioni di Cartesio, la trattatistica della durezza spinoziana, giù giù fino alle invenzioni di Wittgenstein, dopo l’esplosione artistica e testuale del Settecento tedesco e francese o la bildung poematica e postgoethiana imposta da Hegel… Quando mai, dunque, non si è trattato di un ibrido filosofico? Mai. E quale spazio esiste per una filosofia post-filosofica, cioè post-occidentale, cioè post-umanistica? Non esiste nessuno spazio. O la filosofia si riappropria del suo stesso movimento, che risiede nello stare privi di pensiero, oppure è destinata a un ibrido che non ha nulla della narrazione e nulla della stessa filosofia. La questione non tocca “Grand Hotel Abisso”, in quanto Igino Domanin è uno scrittore autentico, quindi il suo destino è narrativo, non filosofico. Aprite questo saggio che non è un saggio: ci sono momenti di narrazione intensa, unica nel panorama presente. Accade perché l’autore dispone di una lingua. Tale lingua non ha nulla a che vedere con lo stile (tra l’altro: ma dove stavano i redattori Bompiani, i correttori di bozze Bompiani, gli editor Bompiani? La cura editoriale del testo è emblematica della società che Igino Domanin descrive con una declinazione del tutto idiosincratica dello sguardo fenomenologico…)
Siamo in un tempo in cui non ha senso affermare che “Grand Hotel Abisso” è bello o non è bello. E’ invece, in un qualche modo, cruciale; laddove si sia consapevoli che il cruciale oggi non appare sponsorizzato o divulgato come se fosse cruciale e, del resto, della crucialità la storia, storica o metastorica che sia, si fa beffe. Quindi affermo altro: leggetelo, questo libro, in quanto davvero è un libro.

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