Oggi, sulle pagine de “il venerdì”, il magazine settimanale di “Repubblica”, due pagine su “YARA. Il true crime”, il nuovo romanzo edito da Bompiani: una conversazione con Massimo Pisa sul libro e sulla tragedia. Massimo Pisa, che tra le altre cose è anche cronista di nera, fu in prima persona nel campo di Chignolo, al ritrovamento dei resti di Yara. Va aggiunto che si tratta dell’autore dell’eccezionale saggio “Lo stato della strage” (Clueb), sullo snodo fondamentale di Piazza Fontana.
Un estratto dal pezzo, visionabile in immagine cliccando sulla foto sotto:
Altri casi, altri innocenti in passato avevano rapito l’immaginario del Paese. Lei stesso ha scritto in passato di Alfredo Rampi.
«Rispetto a Vermicino, Brembate è più complessa. Quei tre giorni pieni di immagini, nel 1981 diventarono mitologia oscena, in una generazione che stava vivendo la demitizzazione della politica e dell’impegno. Furono unici. La rappresentazione sacra di un presidente della Repubblica che va ad affacciarsi a quel buco e urlare ad Alfredo: come stai? Lo strapaese. Giancarlo Santalmassi che chiude quella diretta fiume riflettendo: “Dovremmo chiederci che cos’abbiamo visto”. È filosofia, è Platone. Ed è, insieme, l’Italia che sta diventando berlusconiana che vuole vedere tutto, tutti i buchi, tutta la morte».
Qui, invece?
«Yara sussumeAlfredino e lo rilancia in una nuova dimensione. Ri spetto al pozzo di Vermicino, qui l’obiettivo vede fin troppo. È quello del microscopio atomico che arriva al Dna della colpa. La morte diAlfredino non aveva colpe, se non le nostre di spettatori voyeur. A Brembate, in quella violenza insensata, si sollevano sospetti in direzione di tutti, anche dei genitori. E nemmeno il Dna nucleare, nemmeno le garanzie della comunità scientifica riescono a farci elaborare la scienza della colpa. Tutto è interpretazione. Come avverrà qualche anno più tardi con il Covid».

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