
Giugno ci costringe alle visioni. Le gemme stanno già avvizzendo. Basterebbe questo. Non è sufficiente alla vista. Si cerca ovunque la morte, guardando. Si tenta. Prova e riprova, arrivi al morto finto. Tale è dopotutto l’avvizzito. “Kinds of Kindness”, ultimo titolo firmato Yorgos Lanthimos giunto in sala (mentre già se ne annuncia un altro ancora con gli stessi attori e la prima foto dal set di una scena forse di erotismo solitario e trattasi di remake di k-comedy sci-fi, ovverosia coreana) esibisce l’avvizzimento come metodo e pervicacia, come zucchero e tumore alla papilla. Il gusto è chimico, al solito. Inconsistente la struttura. Il modo dovrebbe essere uno stile, ma non funziona mai nessuno stile, mentre i modi funzionano eccome, quindi l’assunto è falso o irrealistico. In questo caso, le bontà e le beatitudini ineriscono essenzialmente tre funzioni narrative e modali:
- I colori nei tagli delle scene. Sempre sorprendenti, per tutto l’arco della produzione cinematografica di Lanthimos, con l’apice del tutto immaginario dell’arancione dell’aragosta di “The Lobster”, in quest’ultimo lavoro raggiungono un apice di manierismo che, come tutti i manierismi, non escludono il genio: Luis de Góngora tutto sommato, e tutto sottratto, sarebbe facilmente additabile quale genio manierista. Però con il cineasta e cinefilo greco siamo al genio manierato, quindi a nessun genio. Importa forse qualche spettatore il dolcevita del protagonista sia di un violetto fatto produrre appositamente e lavato con il Woolite, a bagliori e gibigianne inerendo alle primavere fantasiose nell’urbanistica usuale tv comedy USA ’50/’90. E così gli arancioni, l’acne che rimbalza nello sdrucimento dei muri, gli outfit sempiternamente out e mai fit, oppure fittissimi. Un gongorismo cromatico che allappa. Serve? No. A cosa dovrebbe poi servire? Al senso. Ce n’è? Di senso? Sì, di senso: ce n’è? No, in technicolor, si sa, il senso svanisce come uno spot Woolite.
- L’atto erotico, compulsivo, bagnaticcio, isterico, irriguardoso soltanto rispetto a se stesso, se pure l’atto erotico fosse un sé e ancor più uno stesso. “Potrai scopare quando vuoi!” è un motto che Yorgos Lanthimos fa sussurrare e ululare già al primo episodio dal coprotagonista più vecchio e prestigioso. Nel secondo sketch, ché poi di questo si tratta, un video casalingo dell’amata moglie scomparsa (però dispersa solo da qualche ora) non è il filmino famigliare che si pensa, pensa un po’: è un video porno coniugale, un’ammucchiata con la coppia di migliori amici. Lo scandalo rende la signora non mia, ma di nessuno. Privo di borghesia, privo di classe ed esposto a un’anestetico diffuso mortalmente (l’avverbio si riferisce alla noia) worldwide, il film, che da tempo non è più film e cioè pellicola, riesce nell’impresa che il costrutto nemmeno ce la faccia a essere distrutto o a distruggersi, come era nel pleistocene previsto dai messali cinematografici di quell’antan (il pleistocene è vintage?) e ora bellamente ignorato e disertato da sinapsi, corpi, ovaie vere e non finte come quelle dei film di Lanthimos, dove la donna ulula e sussurra e pretende di avere il diritto di fare questo e non si capisce cos’altro. Un patriarcato senza arca, un patrito dunque.
- La paranoia e il controllo come ossessione dell’epoca da rappresentarsi per essere autentici rappresentanti dell’epoca. No, ciccio: non vale. Se stai dalla parte dell’inautentico, sappi che nessuna epoca regge l’inautentico. Vale ancora intercettare un motivo sociale, se non un movente, recepirlo come ossessione ed enfatizzarlo quasi a *momento politico* di quell’affaire che si dovrebbe tessere tra film, schermo e spettore o spettatrice? No. Il politico non risiede più a queste nostre latitudini, ormai private del ricordo da parte di alcunchì, se non i morenti o giù di lì che in effetti sono io; e nemmeno l’estetico è una piattaforma di lancio del momento politico, nemmeno di abbattimento, nemmeno di critica, ma – e questo conta più di ogni altra cosa – nemmeno di creazione dal nulla, di invenzione che piazzi e spiazzi, che emblematizzi il detto e il sottopancia, incendiando furiosamente tutte le accademie. Non esiste infatti più nessuna accademia. Si stenta peraltro a rinvenire il fuoco. E certamente non è tale il controllo, sardonicamente sospeso nel vuoto di senso, con cui Lanthimos sembra approcciare un tema, magari quell’idolo della tribù che è “la società della sorveglianza”, visto che quanto a temi non ha a disposizione altri o facenti funzione di. La paranoia, il controllo totale, se uno pensa a “Tempi moderni” di Chaplin, mortifica il pensiero e il pensiero Lanthimos medesimo in particolare.
Questo dunque abbiamo visto, per tre ore quasi. O meglio: non visto. Nessuna filosofia oculare è infatti applicabile a un testo che pretende di esserlo per pura ybris del regista, ma anche degli enfatici interpreti, tesissimi a rendere di sé un’immagine che si scolpirebbe nel memorabile o addirittura nell’eterno, se ancora ci fossero kilobyte a disposizione. E non ce ne sono più.
Nessuna critica esiste. Non andate a vederlo.
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