
Che Jake Gyllenhaal costituisca ormai non più una promessa, ma una premessa del cinema Usa contemporaneo – è cosa nota, buona e giusta. La capacità mimetica del protagonista di “Guilty” è definitivamente emersa in “Guilty”. Tende alla disperazione ridondante, all’occhiaia efedrinica, allo sbuffo e al sospiro a causa dramma o trauma. Però sempre per un problema di scrittura scenica. Non è colpa sua. Non gli si può addebitare nemmeno un euro di credito da vantare nei suoi confronti per via della scelta dei copioni. E’ teatrale, in senso alto. Sarebbe shakespeareano, se esistessero scrittori shakespeareani, il che non è, né negli Stati Uniti né qui in Italia. Gyllenhaal sarebbe perfetto per un cinema o una tv seriale europei, per una sesta inarrivabile stagione di “Le bureau des légends”, ma la saison si fa attendere un po’ come la terza di “Mindhunter”: si capisce che non c’è più speranza. Quando Tom Ford ha diretto Jake Gyllenhaal in “Nocturnal Animals”, un po’ di Europa si è vista. Così nell’anno magico di Denis Villeneuve, il 2013, con “The prisoners” ed “Enemy”. Il Gyllenhaal maturato saprà imporre il registro qualitativo più consono alle altezze che gli sono destinate.
Intanto si produce in un classico e di questo gli siamo immensamente grati. La devastazione progressiva ha infatti preso le produzioni grandi piccole medie e grasse e magre, le quali ormai da anni gigioneggiano young adult perché ovunque nel mondo è un “Me contro te”, è un tiktokeggiare, nella vana speranza e pensando pure convintamente che il mercato sia quella roba lì e non invece il terreno da inventare e l’orizzonte da esplorare scoprendolo, mentre le AI più in gamba stanno provando a tradurre in ologrammi 3D e b/n “Sátántangó” di Béla Tarr e una miriade di autoproduzioni è la linea di superficie dello tsunami all’orizzonte, pronto a sommergere le istituzioni editoriali tutte. Il classico a cui Jacob Benjamin Gyllenhaal presta intelligentemente tutto se stesso è un legal che sta nel cielo degli archetipi di tutti i legal, trattandosi di una serie tratta da un titolo di Scott Turow, insieme a Grisham il padre del thriller da tribunale. La struttura è classica, riattata a un presente inconcepibile e inconcepito da Scott Turow. Creata da David Kelley, dimentabile producer ma ricordabile coniuge di Michelle Pfeiffer, ha l’intelligenza di convocare un cast eccellente attorno agli occhi sempiternamente sgranati di Gyllenhaal, a partire da Peter Sarsgaard, il cui personaggio sembra uscito da un romanzo di Paolo Sorrentino, visto che si chiama Tommy Molto. Il soggettone aveva già avuto gli onori della cinepresa in occasione dell’omonimo film, interpretato da due celebrabili protagonisti, Greta Scacchi insieme con Harrison Ford. La struttura è solida, l’affabulazione passabile, l’interpretazione è la migliore degli ultimi prodotti di grandi piattaforme. Non si riflette, si segue. Ci si contenta, si sta. Se solo si guarda il plateau, si desidera che spuntino dal futuro classicheggianti operazioni come questa, che fa il pari con il contemporaneo “Sugar” con Colin Farrell diretto da Adam Arkin.
La crisi endemica del seriale, mentre stanno crollando le soglie di attenzione delle masse di youngest adult a cui le produzioni aspirano di prendere proprio l’attenzione, lascia desertificato il campo culturale. Non c’è più il discorso, collettivo o individuale, intorno all’ultima creazione. Il cinema, che con la fisica ha fatto il secolo scorso, è trascinato così come il calcio dagli e-sport. Siamo in transizione e servirebbero due mosse: andare a lowest budget, per creare avanguardia pura, dunque poverissima, che è l’unica possibilità per inventare l’effetto non speciale e non invece per decrescere più o meno infelicemente; buttarsi avanti nella questione del nuovo device relativo alle immagini, come sopra accennato a proposito delle AI generative e delle tecniche ologrammatiche. La narrazione è la vittima sacrificale del processo di trasformazione. Lo stile non lo è nemmeno più, è una vittima dimenticata, uno che è morto nel 1230 fuori Narni o Alcamo. Resta l’invenzione filosofica poetica: a quella bisogna guardare, sapendo che essa tende a non farsi vedere né a calpestare plcoscenici.
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