
I risultati del primo turno alle legislative francesi sono incommentabili. Lo sono, in quanto a decidere effettivamente il numero di seggi assegnati sarà la seconda tornata, il prossimo 7 luglio. Ciò, per quanto concerne i numeri.
La valutazione politica, tuttavia, è altra storia – anzi: è la storia, in questo caso. La si potrebbe articolare in alcuni punti, sottoponibili a revisione e annotabili con le cautele del caso:
1. E’ rotto quello che i protagonisti della pubblica opinione chiamano incorrettamente tabù. Non c’è nulla di proibitivamente sacro e nessun archetipo paterno da abbattere nella convinzione certa e forte di non mettere a rischio la democrazia. Democrazia qui intesa nella forma che essa ha preso dopo la sconfitta del nazismo e nei postumi della seconda guerra mondiale. Il tabù va rotto sacralmente almeno quanto necessariamente, avverbi che possiamo considerare sinonimi, ma non in politica, tantomeno nella politica positivista che si dà nelle democrazie liberali. La convinzione, per quanto passionale sia, non è tabù, ma un processo che potrebbe tranquillamente non approdare al ribaltamento di se stessa, perché non è una fede e non entra nella disfunzione dei meccanismi da clan familiare: nella convinzione non c’è nessun padre da abbattere.
Possiamo invece affermare che, se non è rotto un tabù, è infranta una prerogativa democratica: ovverosia la tenuta dell’antifascismo. Siamo a 70 anni dalla caduta dei regimi nazifascisti, protagonisti di un conflitto planetario da milioni di morti. La lezione della partecipazione democratica è stata appresa, anche laddove sia divenuta inerziale o pura ritualità. Chi la ha dimenticata, quella lezione, sono gli abitanti dell’oggi. Il delta tra ciò che si possedeva in termini materiali e sociali 70 anni fa e ciò che si ha e di cui si gode oggi non è per niente percepito. Si sovrapercepisce non la ricchezza totale della società in cui viviamo, bensì l’allargamento della forbice che domina la cosiddetta (ed è detta male così) “redistribuzione” della ricchezza. Dato relativo che prescinde dalla ricchezza generale, in un dominio mondiale in cui vivono e sopravvivono 8 miliardi di persone, un numero di individui mai raggiunto dalla nostra specie in tutta la storia. Questa percezione dell’iniqua distribuzione di ricchezza scatena non più un’azione collettiva, che sia di protesta o di lotta o addirittura di variante rivoluzionaria. La democrazia è penetrata a fondo nell’atteggiamento e nella disposizione mentale dell’abitante medio di un regime liberale. Quindi al limite si va a votare. O non si va a votare, con tanto di deliquio e stracciamento di vesti da parte dei pundit della pubblica opinione, che non comprendono come l’astensionismo non sia mancanza di partecipazione, ma scelta in sé, gesto politico e statuto civile della persona pienamente in grado di esiliare l’arco politico e parlamentare dalla propria intima e pubblica esistenza (senza considerare i casi per cui l’astensionismo si motiva con il truismo “tanto non cambia nulla”, il che significa che secondo chi non esprime una preferenza elettorale la democrazia non è a rischio). Quando l’eversione autentica raggiunge uno stato collettivo, non si tratta mai di una massa organizzata che porta l’assalto ai templi della democrazia, ma di manipoli di qualche migliaio di persone, spesso più tragicamente pittoresche che pericolose per insidia militare di strategia e tattica elaborate all’uopo. Sciamani in Campidoglio, bandiere gialloblù con l’effigie di Ronaldinho in quel di Brasilia.
E’ dunque caduta, e doveva per forza cadere, se le premesse sociali e politiche e antropologiche erano quelle che sono state e sono, la prerogativa antifascista nelle democrazie liberali.
2. Il crollo della prerogativa antifascista è male interpretato. Il terzo della Francia che vota Le Pen e il servo sciocco Ciotti non mi pare definibile come neofascista. E’ invece il classico fenomeno di sovradimensionamento quasi istantaneo di chi porta avanti istanze antisistema. Motivato dal disingaggio (così lo chiamano i francesi e significa: levatemeli tutti dalle palle, quelli al governo e i politici in genere, proviamo quelli che non abbiamo provato finora) e dal lamento (diluvia, governo ladro), il voto esprime un sentimento che appunto dispercepisce la ricchezza generale e la pace continentale, conquistate da una società certamente iniqua verso l’esterno (la politica internazionale occidentale, le restanze del colonialismo, l’espansionismo pur al crepuscolo ma che implica una memoria fatale di antiamericanismo) e molto meno iniqua verso l’interno (uno dà per scontata la sanità pubblica o l’istruzione gratuita e universale: non lo sono per niente, si facesse un viaggio negli Stati Uniti, per riacquisire una percezione corretta dell’esistente in cui si vive da europei).
Questa lamentazione, scatenata dall’antropologia di epoca digitale, la quale comporta una rivoluzione nel funzionamento addirittura fisiologico dei sistemi nervosi, mentre crollano i profili psichici e si assiste soltanto in Italia a un centesimo della popolazione che non studia né lavora né cerca lavoro – questa lamentazione è il carburante che conduce alcune forme profonde a emergere e cercare sfogo “politico” (le virgolette sono motivate dal fatto che il momento e la situazione non sono più canonicamente politici). Sono elementi del conscio e del sovraconscio collettivo, che fanno parte dell’ovvio corredo di un microfascismo antropologico in cui l’umanità versa da Sapiens in poi: paura del cambiamento, incoerenza tra premessa e atto, abbassamento della valutazione cognitiva, necessità del momento fideistico, dualismo con un avversario necessario alla tenuta identitaria. Nel caso della Francia, basti pensare alla questione migratoria: la nazione europea più vergognosamente colonialista è il Paese che si lamenta di più della presenza di colonizzati sul suo territorio. Un crollo verticale del principio di non contraddizione e del principio di reatà, questi due gemelli che stanno velocemente morendo dentro il nostro tempo. In questo schema c’è la premessa, il processo di maturazione e l’esito di tutto quanto qui sopra avanzato in forma di ipotesi politica.
3. Il fronte repubblicano mette in evidenza la centralità della forma repubblicana per la vita europea e, possibilmente, per quella di qualsiasi democrazia liberale contemporanea. L’interpretazione politica di questo momento che è al contempo politicissimo e impolitico, suggerisce che ci troviamo nel mezzo di uno scontro bipolare tra forze sistemiche e antisistemiche. Le forze favorevoli al “sistema” delle democrazie liberali, costrette all’angolo, trovano nel fondamento della vita civile e del contratto sociale la ragione e lo spazio per unirsi; le forze antisistema predicano invece una dissoluzione dei meccanismi repubblicani e un’interpretazione illiberale della democrazia. Ciò sta avvenendo in tutto il mondo. In particolare avviene in quest’emergenza storica che è la Francia del 2024, con l’appello, dopo la formazione in pochi giorni di un fronte popolare di sinistra, alla costituzione di un fronte repubblicano tout court, per avere chance di vittoria ai complessi ballottaggi (le “triangolazioni”) nelle circoscrizioni, in cui il primato relativo è al momento spettante al Rassemblement National di Le Pel e Bardella.
4. Non bisogna dirlo in Francia, ma fuori sì: Marine Le Pen non ha vinto come sperava. La percentuale ottenuta dal suo assemblaggio nazionale, erede in toto del Front National creato tra gli altri dal di lei padre, un’anima gentile e pietosa verso le sofferenze e le necessità del prossimo, ha totalizzato una percentuale inferiore al 30%. Inferiore di tanto: è al 29,1%. Un punto sopra il fronte popolare, che è un altro rassemblement nazionale. E soltanto 9 punti sopra l’odiatissimo Macron. Non andava al 33%, senza l’alleanza con quella figura sovrastorica che è il deietto escrementizio, quello che si presta a permettere il colpo di Stato mentre trema e ritiene di lucrare micragnosamente per se stesso e la propria sacca scrotale, cioè l’eterno Franz von Papen che tradisce Hindenburg e garantisce il cancellierato a Hitler, in queste elezioni francesi incarnato finanche fisiognomicamente da Éric Ciotti. Si tratta del presidente dei repubblicani che è stato cacciato ma ha fatto chiudere a chiave la sede nazionale del partito e si è portato via, insieme alle chiavi, quasi metà degli elettori, in un modo che tuttora è sotto giudizio della magistratura. Senza la spinta del batterio, il pachiderma Le Pen rischierebbe le pernacchie. Poiché i meccanismi elettorali, come detto sopra, aprono a qualsiasi possibilità, con il 29% i fachos potrebbero comunque ottenere la maggioranza assoluta dei seggi all’Assemblea. Tutto ciò perché la legge elettorale francese, che ha funzionato per decenni, era improntata alla possibilità concreta di eliminare i rappresentanti estremi, le ali estreme del parlamento francese, le posizioni ideologiche estreme. Caduta però la prerogativa antifascista, l’estremo non è più tale e aspira a una centralità che gli stessi fascisti non hanno vergogna di chiamare “presa del potere”.
5. Emmanuel Jean-Michel Frédéric Macron è un politico? Se lo è, rappresenta il grado zero di quell’antica arte del governo della città, che ora è in crisi ovunque, tranne che nelle città stesse, le quali, più grandi sono, più si spostano verso posizioni moderate o progressiste. Tra i moltissimi errori di Macron (dai gilet jaunes ai provvedimenti che hanno esasperato il lamento sociale) forse il più grave consiste nel non avere compreso che, avendo egli distrutto alla sua prima elezione i socialisti e in parte i repubblicani, ovvero le parti tradizionali in gioco nella V Repubblica, egli stesso doveva immediatamente depositare sul piano politico ed elettorale un vasto movimento, un’organizzazione larga, che incarnasse l’idea stessa di un centro liberale, un centrosinistra con un po’ di centrodestra. Non lo ha fatto e il risultato è la vittoria di Le Pen e Macron stesso che si inchina a Mélenchon, fin qui odiatissimo (in questo caso vorrei chiarire personalmente che non dò torto a Macron). Appena il presidente è andato in crisi, ed è manifestamente accaduto con le elezioni europee di inizio giugno, sono risaliti nelle percentuali i socialisti con Glucksmann e ha sfondato la barriera del 30% il RN di le Pen. E’ evidente, e lo sarebbe anche qui in Italia, che senza un centro pro-sistema repubblicano, manca completamente la possibilità stessa di un fronte che mantenga nell’àmbito liberale un regime democratico. Se si ritiene che il centrodestra, in Francia storicamente rappresentato dai Repubblicani, sia come la Democrazia Cristiana, ci si sbaglia e di grosso. Il PPE è in grado di governare coi fascisti (lo fa in Italia, in Germania pure in alcuni land, in Francia con Ciotti porta l’estrema destra a un terzo dell’elettorato). Il PPE non è centro. Il PPE deve avere un contrappeso non nella sinistra, ma nell’area in cui dovrebbe stare: nel centro stesso. Renew Europe, gruppo europeo coniato da Macron mentre la sua stella rifulgeva, è un centro liberale che deve per natura disporsi ad accordi con il centrosinistra, pena la perdita dell’equanimità democratica nella situazione sociale e generale. Pena la messa in mora dell’idea stessa europea.
I tentennamenti di Macron sono figli di una visione essenzialmente astratta della realtà, numerica e percentuale, economicista in senso algido, senza il welfare a scaldare l’anima e i corpi. Un errore davvero imperdonabile. Quando si giunge alla visione – ci è giunto Mario Draghi – per cui esiste un debito buono e uno cattivo, quando si arriva a ipotizzare un’agenzia unica del debito per fare fronte ad assalti speculativi, non ha alcun senso intestardirsi su una riforma delle pensioni che manco Lamberto Dini era capace di immaginare. Il continente intero ha mostrato che non è l’austerity la via maestra da seguire, ma l’investimento su grande scala, l’economia di scala interpretata ben al di là dei mortificanti confini nazionali. La visione industriale, che è quella di Macron, è risultata fallimentare e non ha avuto la capacità di radicarsi politicamente in un movimento disgustosamente postmoderno (Ensemble!: è possibile un nome di partito simile?). Ora, per non passare alla storia come colui che ha consegnato la presidenza ai fascisti, tocca a Macron non dimettersi fino al ’27 e agire, insieme alle forze ecologiste e progressiste, per radicare nella società una forza che, insieme alla sinistra ideologica e ai repubblicani moderati, vada al 60% del totale dei consensi elettorali, mentre a oggi si ritrova intorno al 49% (poco più del 50% soltanto se qualche anima buona repubblicana decide di manifestare attivamente un antifascismo che, evidentemente, non è più un elemento energetico).
6. Tutto ciò parla all’Italia. Che ognuna e ognuno mediti come, perché e con quali soluzioni eventuali.
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