
L’eccezionale meditazione costituita dal capitolo 42 del capolavoro di Herman Melville, “Moby Dick”, è uno dei momenti più metafisici di una delle narrazioni più metafisiche nell’intera storia della prosa mondiale. Qui il dato emotivo è trasceso e sussunto in una nuova oggettività: il cosmetico spirituale è la luce, del mondo, della mente, del cosmo. Traduzione di Cesare Pavese.
Che cosa la Balena Bianca era per Achab, è stato accennato; che cosa a volte essa fosse per me, resta ancora da dire.
Fuori da quelle più ovvie considerazioni intorno a Moby Dick che non potevano non risvegliare occasionalmente nell’anima di chiunque una certa apprensione, c’era al suo proposito un altro pensiero, o piuttosto un orrore vago, senza nome, che a volte soverchiava completamente tutto il resto con la sua intensità; eppure era tanto mistico e quasi indicibile, ch’io quasi dispero di renderlo in forma comprensibile. Era la bianchezza della balena che sopra ogni altra cosa mi atterriva. Ma come posso sperare di spiegarmi qui? Eppure, in qualche modo oscuro e approssimativo devo spiegarmi, altrimenti tutti questi capitoli potrebbero riuscire in nulla.
Sebbene in molti oggetti naturali la bianchezza accresca raffinatamente la bellezza, quasi le impartisse una sua speciale virtù, come nei marmi, nelle camelie e nelle perle; sebbene vari popoli abbiano in certo modo riconosciuto una qualche supremazia regale a questo colore, poichè persino i barbarici e fastosi antichi re del Pegu ponevano il titolo di «Signore degli Elefanti Bianchi» al di sopra di tutte le altre loro magniloquenti attribuzioni di dominio, e così i moderni re del Siam spiegano lo stesso niveo quadrupede nello stendardo reale, la bandiera annoverese porta l’unica figura di un niveo destriero e il grande Cesareo Impero Austriaco, erede dell’onniregnante Roma, ha per colore imperiale la stessa tinta imperiale; sebbene questa supremazia si verifichi nella razza umana stessa, dando all’uomo bianco una signoria ideale sopra ogni tribù scura; sebbene la bianchezza sia inoltre persino stata adoperata a esprimere la gioia, poichè tra i Romani una pietra bianca segnava un giorno felice; sebbene in altre umane simpatie e simboli questo stesso colore sia fatto emblema di molte cose nobili e commoventi, come l’innocenza delle spose e la benignità della vecchiaia; sebbene, tra i Pellirosse dell’America, il dono di una cintura di conchiglie bianche fosse il pegno d’onore più profondo; sebbene in molti paesi la bianchezza raffiguri nell’ermellino del giudice la maestà della giustizia e contribuisca alla pompa quotidiana dei re e delle regine, tirati da cavalli bianco-latte; sebbene persino nei più sublimi misteri delle più anguste religioni essa sia fatta simbolo della divina immacolatezza e potenza, onde la bianca fiamma a due punte dei Persiani adoratori del fuoco fu ritenuta la più santa sugli altari, e nei miti della Grecia il Grande Giove in persona s’incarna in un niveo toro; sebbene per i nobili Irochesi il sacrificio invernale del sacro Cane Bianco fosse la solennità di gran lunga più santa della loro teologia, essendo quell’immacolata e fedele creatura ritenuta il messaggero più puro che essi potessero mandare al Grande Spirito con le loro annuali proteste di fedeltà; sebbene tutti i sacerdoti cristiani derivino direttamente dal vocabolo latino che significa bianco il nome di una parte del loro abito sacro, il camice[1] o tunica, portato sopra la sottana; sebbene tra le sante cerimonie della fede cattolica il bianco sia particolarmente impiegato nella celebrazione della Passione di Nostro Signore; sebbene nell’Apocalisse di S. Giovanni i redenti indossino robe bianche e i ventiquattro vecchi stiano vestiti di bianco dinanzi al grande trono bianco e all’Unico Santo che vi siede, bianco come la lana; pure, malgrado tutte queste accumulate associazioni con tutto ciò che è dolce e venerabile e sublime, sempre cova nell’intima idea di questo colore qualcosa di elusivo che incute più panico all’anima di quel rosso che atterrisce nel sangue.
È questa elusiva qualità che fa sì che il pensiero del bianco, quand’esso sia separato da più benigne associazioni e accoppiato con un qualunque oggetto in se stesso terribile, accresca questo terrore fino all’estremo limite. Testimoni, l’orso bianco polare e il pescecane bianco dei tropici: che cosa se non la loro levigata e fioccosa bianchezza li rende quei supremi orrori ch’essi sono? È quella spettrale bianchezza che dà una così orrenda benignità, anche più ripugnante che non spaventosa, alla muta fissità dei loro aspetti. Cosicchè nemmeno la tigre dalle zanne feroci può col suo araldico mantello scuotere il coraggio come l’orso e il pescecane dal bianco sudario[2].
Ricordate l’albatro donde vengono quelle nubi di spirituale meraviglia e di pallido terrore nelle quali quel bianco fantasma vola in tutte le immaginazioni? Non Coleridge[3] per primo gettò quest’incantesimo, ma la grande, la rude laureata di Dio, la Natura[4].
Famosissima nei nostri annali dell’Ovest e fra le tradizioni indiane, è quella del Cavallo Bianco delle Praterie; un magnifico corsiero bianco-latte, dagli occhi grandi, di piccola testa, col petto largo e la dignità di mille re nel portamento altero e sprezzante. Era il Serse riconosciuto di grandi mandrie di cavalli selvaggi, i cui pascoli in quei tempi avevano per barriera soltanto le Montagne Rocciose e gli Allegani. Pieno di slancio, alla loro avanguardia, egli li conduceva all’ovest, come quella stella eletta che ogni sera guida nel cielo gli eserciti della luce. La lampeggiante cascata della sua criniera, la ricurva cometa della coda, lo investivano di bardature più splendide di quelle che orefici e argentieri gli avrebbero mai potuto fornire. Un’imperatoria arcangelica visione di quel mondo occidentale non decaduto, che agli occhi dei vecchi cacciatori e trappolatori riviveva le glorie dei tempi primordiali quando Adamo andava attorno maestoso come un Dio, largo di fronte e senza paura, come questo cavallo magnifico. Che marciasse tra i suoi aiutanti e marescialli all’avanguardia d’innumerevoli schiere che senza fine si rovesciavano sulle pianure come un Ohio, o che, mentre i suoi sudditi gironzavano a brucare tutt’intorno all’orizzonte, il Cavallo Bianco li passasse in rivista al galoppo, con le froge calde arrossate attraverso il suo fresco candore; sotto qualunque aspetto, sempre egli era per gli indiani più coraggiosi l’oggetto d’una tremante reverenza e paura. E, da ciò che è tramandato nella leggenda intorno a questo nobile cavallo, non si può mettere in dubbio, che fosse essenzialmente la sua spirituale bianchezza a rivestirlo così di divinità e che questa divinità avesse in sè ciò che, pur imponendo l’adorazione, nello stesso tempo costringeva a una specie di terrore senza nome.
Ma ci sono altri esempi in cui questa bianchezza perde tutta l’accessoria e bizzarra sublimità che la informa nel Cavallo Bianco e nell’Albatro.
Che cos’è che nell’albino ripugna talmente e spesso ributta, tanto che qualche volta egli è aborrito persino dai suoi conoscenti e parenti? È la bianchezza che lo riveste, espressa nel nome che porta. L’albino è altrettanto ben fatto che gli altri uomini, non ha deformità sostanziali, e pure questo suo semplice aspetto di totale bianchezza lo rende più bizzarramente orribile dell’aborto peggiore. Perché mai, questo?
E nemmeno sotto tutt’altri aspetti, manca la Natura, nelle sue meno palpabili ma non meno malvage attività, di disporre tra le proprie forze questo supremo attributo del terribile. Dal suo niveo aspetto il fantasma spietato dei Mari del Sud è stato chiamato la Raffica Bianca. E nemmeno in qualche storico esempio, ha l’arte umana del male omesso un aiuto tanto efficace. Come fieramente si accresce l’effetto di quel passaggio di Froissart quando, mascherati del simbolo niveo della loro fazione, i disperati Cappucci Bianchi di Chent assassinano il loro balivo sulla pubblica piazza!
E in certe cose nemmeno l’esperienza comune, ereditaria, di tutto il genere umano manca di testimoniare la soprannaturalità di questo colore. Non si può dubitare che la qualità visibile nell’aspetto dei morti che più atterrisce chi guardi, è il pallore marmoreo che vi si posa: come se davvero quel pallore fosse altrettanto il segno della costernazione nell’altro mondo, quanto della trepidazione mortale in questo. E da quel pallore dei morti noi prendiamo il significativo colore del sudario in cui li avvolgiamo. Nemmeno nelle nostre superstizioni manchiamo di gettare lo stesso niveo mantello intorno agli spettri, tutti i fantasmi sorgendo in una nebbia lattiginosa. Sì, mentre ci colgono questi terrori – bisogna aggiungere – il re stesso del terrore, com’è personificato dall’evangelista, monta un suo cavallo pallido.
Perciò simboleggi pure l’uomo, negli altri suoi umori, qualsiasi cosa magnifica o bella col bianco: nessuno può negare che questo colore nel suo più profondo significato spirituale evochi nell’anima una spettralità particolare.
Ma, sebbene questo punto sia stabilito senza dissensi, come potrà l’uomo mortale dar ragione del fatto? Analizzarlo parrebbe impossibile. Possiamo dunque, citando alcuni di quegli esempi in cui questa faccenda del bianco si trovi esercitare sopra di noi, sebbene un po’ modificata, la stessa stregoneria – sebbene, per la circostanza del tutto o in gran parte spogliata di ogni diretta associazione che gli impartisca qualcosa di terribile –, possiamo così sperare di giungere a qualche casuale indizio che ci conduca alla nascosta causa che cerchiamo?
Proviamo. Ma in un argomento quale è questo, sottigliezza si richiama a sottigliezza, e senza immaginazione nessuno può tener dietro a un altro in questi recinti. E quantunque, senza dubbio, alcune almeno delle impressioni fantastiche che saranno presentate il più degli uomini possa averle provate, pure pochi forse ne sono stati interamente consci nell’atto, e perciò può darsi che non riescano a ricordarle ora.
Perché mai all’uomo di libera idealizzazione, cui accada di essere informato soltanto all’ingrosso del carattere speciale della festa, la menzione pura e semplice della Pentecoste[5] porta nella fantasia tanto lunghe, tetre e silenziose processioni di pellegrini lenti, abbattuti e incappucciati di neve novella? O perché al protestante degli Stati del centro dell’America, il quale non abbia studiato e non patisca di sofisticherie, la fuggevole menzione di un Frate Bianco o di una Monaca Bianca evoca nell’anima una statua tanto cieca?
O che cosa c’è, a parte le tradizioni di guerrieri e di re segregati (che non possono bastare a dar ragione della cosa), a far sì che la Torre Bianca di Londra colpisca tanto più fortemente l’immaginazione di un americano mai mossosi di casa, che non quelle altre storiche costruzioni lì accanto: la Torre Byward, o persino la Sanguinosa? E quelle torri più sublimi, i Monti Bianchi della Nuova Hampshire, donde mai, alla pura menzione del nome, infondono in particolari umori quella immensa spettralità nell’anima, mentre il pensiero della Catena Azzurra della Virginia è pieno di una molle, rugiadosa e lontana fantasticheria? O perché, senza riguardi alle latitudini e alle longitudini, il nome del Mar Bianco esercita un richiamo così spettrale sulla fantasia, mentre quello del Mar Giallo ci culla con terreni pensieri di lunghi e molli pomeriggi laccati, sulle onde, seguiti dai più sfarzosi e pur sonnolenti tramonti? Oppure – per scegliere un esempio interamente irreale, indirizzato senz’altro alla fantasia – perché, leggendo le antiche fiabe dell’Europa Centrale, «l’uomo pallido e alto» delle foreste dello Hartz, il cui immutabile pallore scivola silenzioso sopra il verde dei boschi, perché questo fantasma è più terribile degli urlanti demonii del Blocksburg?
E nemmeno sono affatto i ricordi dei suoi terremoti distruttori di cattedrali, né gli stampedi del suo mare impazzito, né la spietatezza dei suoi aridi cieli senz’acque, né la vista del suo immenso campo di guglie piegate, di volte divelte, di croci cadenti (come i pennoni obliqui di flotte ancorate), né i suoi viali suburbani di pareti precipitate l’una sull’altra come un mazzo di carte sparso: non è nessuna di queste cose soltanto, che faccia di Lima senza lacrime, la più strana, la più triste città che si possa vedere. Poichè Lima ha indossato il velo bianco, e c’è in questa bianchezza del suo dolore un orrore più grande. Antica come Pizarro, questa bianchezza mantiene le rovine di Lima per sempre attuali: non vi lascia penetrare l’allegro verde della rovina assoluta e distende sopra i suoi bastioni infranti l’irrigidito pallore di un colpo apoplettico che immobilizza le sue stesse distorsioni.
So che la comprensione comune non confessa che questo fenomeno della bianchezza sia la causa prima per cui si esagera il terrore di oggetti altrimenti terribili, e che la mente poco immaginosa non sente alcun terrore in quegli spettacoli la cui orridezza per un’altra mente consiste quasi soltanto in quest’unico fenomeno, specialmente se presentato sotto una qualsiasi forma che comunque s’avvicini al mutismo o all’universalità. Quel che voglio dire con queste due proposizioni, potrà forse venire rispettivamente chiarito dai seguenti esempi.
Primo: il marinaio, quando si avvicina alle coste di terre straniere, se nottetempo ode il muggito di frangenti, si mette alla vigilanza e prova appunto tanta trepidazione da aguzzargli tutte le facoltà; ma venga, in circostanze esattamente simili, chiamato su dalla branda a vedere la sua nave trascorrere su un mare notturno di lattiginosa bianchezza, come se, da promontori intorno, lo circondassero a nuoto branchi di orsi bianchi schiumosi, e allora egli proverà un muto, superstizioso spavento, il sudario spettrale delle acque imbiancate gli riuscirà orribile come un vero fantasma; invano lo scandaglio lo assicurerà che i bassifondi sono ancor lontani: cuore e barra gli cadranno, e non avrà riposo finchè sotto non gli tornerà l’acqua azzurra. Eppure qual è il marinaio che vorrà dirti: «Signore, non era tanto la paura di dare in scogli nascosti, quanto la paura di quell’orribile biancore, che mi ha così agitato?»
Secondo: all’indiano nativo del Perù la vista continua delle Ande ingualdrappate di neve non reca nessuno spavento, se non forse la mera fantasia dell’eterno squallore gelato che regna a simili altitudini, e il pensiero naturale di quale cosa terribile sarebbe smarrirsi in una solitudine così inumana. Molto simile è ciò che accade al pioniere delle regioni vergini dell’Ovest, che osserva con relativa indifferenza una prateria sconfinata ricoperta di neve distesa senza che l’ombra di un albero o di un ramo vi rompa l’estasi immobile di tanto candore. Non così il marinaio che contempli il paesaggio dei mari antartici; dove egli a volte, per un trucco infernale delle potenze del gelo e dell’aria, vede, tutto tremante e già seminaufragato, invece di arcobaleni che parlino di speranza e conforto alla sua sventura, ciò che ha l’aspetto di uno sconfinato cimitero che gli sogghigna coi suoi esili monumenti di ghiaccio e le sue croci scheggiate.
Ma tu dici: «Secondo me, questo capitolo alla biacca intorno alla bianchezza è soltanto una bandiera bianca sporta da un’anima codarda: tu ti arrendi a un’ubbia, Ismaele!»
Ditemi, perché un gagliardo puledro partorito in una pacifica valle del Vermont, remoto da ogni animale da preda, perché, nella giornata più piena di sole, se voi soltanto gli agitate alle spalle una pelle fresca di bufalo, in modo che nemmeno la possa vedere ma soltanto ne fiuti la selvaggia muschiosità ferina, perché mai trasalirà, sbufferà e con occhi dilatati scalpiterà in accessi di spavento? Non c’è in lui nessun ricordo di sbudellamenti da parte di creature selvagge in questa sua verde patria settentrionale, cosicchè la strana muschiosità ch’esso annusa non gli può richiamare nulla che sia associato con l’esperienza di anteriori pericoli; poichè, cosa sa mai, questo puledro della Nuova Inghilterra, dei neri bisonti del lontano Oregon?
No: ma tu vedi qui, persino in un bruto privo di parola, l’istinto della conoscenza del demonismo del mondo. Quantunque a migliaia di miglia dall’Oregon, pure quand’esso annusa quel puzzo selvaggio, le laceranti, sbudellanti mandrie di bisonti gli sono altrettanto presenti che al derelitto puledro selvatico delle praterie che proprio in quell’istante quelli stanno forse calpestando nella polvere.
Così, dunque, i soffocati sconvolgimenti d’un mare lattiginoso, gli squallidi scricchiolii dei frastagli agghiacciati delle montagne, i desolati mucchi erranti di neve delle praterie: tutte queste cose sono, per Ismaele, ciò che una scossa di quella pelle di bufalo è al puledro atterrito. Quantunque nessuno sappia dove stiano le cose ignote di cui il mistico segno dà tali accenni, pure, per me come per il puledro, queste cose in qualche luogo devono esistere. Quantunque in molti dei suoi aspetti questo mondo visibile appaia fatto nell’amore, le sfere invisibili vennero fatte nella paura.
Ma non abbiamo ancora risolto l’incantesimo di questa bianchezza né trovato perché abbia un così potente influsso sull’anima: più strano e molto più portentoso, dato che, come abbiamo veduto, essa è il simbolo più significativo di cose spirituali, il velo stesso, anzi, della Divinità Cristiana, e pure è insieme la causa intensificante nelle cose che più atterriscono l’uomo!
È forse ch’essa adombra con la sua indefinitezza i vuoti e le immensità spietate dell’universo, e così ci pugnala alle spalle col pensiero del nulla, quando contempliamo le profondità bianche della via lattea? Oppure avviene che nella sua essenza la bianchezza non è tanto un colore quanto l’assenza visibile di colore e nello stesso tempo la fusione di tutti i colori: avviene per questo che c’è una tale vacuità muta e piena di significato in un paesaggio vasto di nevi, un incolore ateismo di tutti i colori, che ci fa rabbrividire? E quando consideriamo quell’altra teoria dei filosofi naturali, che tutte le altre tinte terrene, qualsiasi decorazione maestosa e graziosa, le dolci sfumature occidue dei cieli e dei boschi, e i velluti dorati delle farfalle e le guance di farfalla delle ragazze – quella teoria che tutte queste cose sarebbero soltanto astuti inganni non connaturati in realtà alle sostanze, ma soltanto sovrapposti dall’esterno, cosicchè tutta la divina Natura si dipingerebbe soltanto come la prostituta le cui lusinghe non ricopron altro che l’intimo sepolcro –, e quando andiamo ancor oltre e pensiamo che il mistico cosmetico, il gran principio della luce, che produce ciascuno dei suoi colori, rimane in se stesso sempre bianco o incolore e, se operasse sulle cose senza un mezzo, vestirebbe ogni oggetto, persino le rose e i tulipani, con la sua tinta vacua: quando meditiamo tutto questo, l’universo paralizzato ci sta innanzi come un lebbroso; e come quei risoluti viaggiatori della Lapponia che si rifiutano di portare occhiali colorati sugli occhi, così lo sventurato miscredente contempla, tanto da accecarsi, il monumentale sudario bianco che gli ravvolge ogni prospetto intorno.
E di tutte queste cose la balena albina era il simbolo.
Vi stupite dunque della caccia feroce?
[1]In inglese, alb.
[2]A proposito dell’orso polare, chi desiderasse andare più a fondo in quest’argomento potrebbe forse ribattere che non è la bianchezza presa in se stessa che aumenta l’intollerabile orrore di quel bruto, giacchè, analizzato, quest’orrore più forte viene, si può dire, soltanto dal fatto che l’irresponsabile ferocia della creatura si riveste del vello dell’innocenza celestiale e dell’amore: e quindi, portando insieme nella nostra mente due emozioni così opposte, l’orso polare ci spaventa con un contrasto tanto innaturale. Ma anche accettando tutto questo per vero, pure non si arriverebbe, se non fosse per la bianchezza, a quell’intensificazione di terrore.
Quanto allo squalo bianco, la candida scivolante spettralità di questa creatura osservata nel suo umore ordinario durante il riposo, corrisponde bizzarramente alla medesima qualità del quadrupede polare. La caratteristica è vividamente colta dai francesi nel nome ch’essi dànno a questo pesce. La messa cattolica dei morti comincia col «Requiem æternam» (eterno riposo), donde il nome di Requiem dato alla messa stessa e ad ogni altra musica funebre. Ora, alludendo alla bianca, silenziosa immobilità di morte di questo squalo e alla molle micidialità delle sue abitudini, i francesi lo chiamano Requin. [N. dell’A.]
[3]Allude al poemetto di Samuele C. Coleridge (1772-1834) The Rhyme of the Ancient Mariner (La ballata del Vecchio Marinaio), dove un albatro ucciso perseguita con spaventi e con sventure la nave, simboleggiando poteri soprannaturali.
[4]Ricordo il primo albatro che vidi. Fu durante un lungo colpo di vento in acque remote nei mari antartici. Dopo la mia guardia franca del mattino, ero salito sul ponte coperto di nubi e là vidi, gettato sulle boccaporte di maestro, un essere regale, pennuto, d’immacolata bianchezza e dal sublime e romano rostro adunco. A intervalli esso allargava le ali immense da arcangelo, come per abbracciare qualche arca santa. Stupefacenti palpitazioni e sussulti lo scuotevano. Quantunque incolume materialmente, esso cacciava strida come il fantasma di un re in preda a una soprannaturale disperazione. Attraverso i suoi inesprimibili, stranissimi occhi mi pareva di scorgere segreti che giungevano a Dio. Come Abramo dinanzi agli angeli io m’inchinai: l’essere bianco era tanto bianco, le sue ali tanto immense, e in quelle acque del perpetuo esilio io avevo perdute le meschine memorie di tradizioni e di città, che ci distraggono. A lungo contemplai quel prodigio di penne. Non posso dire, ma soltanto far sentire, le cose che mi guizzarono allora nella mente. Ma infine mi riscossi, e volgendomi domandai a un marinaio che uccello fosse quello. Un goney, rispose. Goney! Non avevo mai sentito quel nome; è concepibile che questo essere glorioso sia completamente sconosciuto alla gente di terra! mai prima? Ma qualche tempo dopo imparai che goney era un nome che i marinai dànno all’albatro. Cosicchè, in nessun modo poteva la magica Ballata di Coleridge avere avuto comunque a che fare con le mistiche impressioni che provai quando vidi quell’uccello in coperta. Poichè io allora nè avevo letto la Ballata ne sapevo che l’uccello fosse un albatro. Pure dicendo questo non faccio altro che rendere ancora più splendido il grande valore della poesia e del poeta.
Affermo dunque che nella meravigliosa bianchezza corporale dell’uccello si nasconde essenzialmente il segreto dell’incantesimo, verità che è dimostrata ancor più da questo, che per via di un’improprietà di termini ci sono degli uccelli chiamati albatri grigi, e questi li ho veduti sovente, ma non mai con tali emozioni come quando ho contemplato l’uccello antartico.
Ma come era stata catturata la mistica creatura? Non riferitelo, ve lo dirò: con una lenza e un amo traditori, mentre l’uccello fluttuava sul mare. Alla fine, il Capitano ne fece un postino, legandogli intorno al collo una tessera di cuoio scritta, con la data e la posizione della nave, e poi lasciandolo fuggire. Ma io non ho nessun dubbio che la tessera di cuoio indirizzata all’uomo fosse portata in Cielo, quando l’uccello bianco volò a raggiungere i cherubini alati, invocanti, adoranti! [N. dell’A.]
[5]In inglese Whitsuntide (tempo della giornata bianca), donde le associazioni, impossibili in italiano.
Scopri di più da Giuseppe Genna
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.
