
I risultati definitivi delle legislative in Francia, la sera di domenica 7 luglio, consegnano ai francesi, e a chi palpitava per le sorti democratiche del Paese, un momento storico, cioè molto poetico, vale a dire estremamente politico. Tutto d’un tratto, queste funzioni della vita, storia e poesia e politica, si reinstallano e fanno crescere, come erba secca e data per morta che rifiorisce dopo lunga siccità, il canone stesso della memorabilità, la quale appunto determina ed è determinata da storia e poesia e politica. Da questo punto di vista, le legislative francesi sono l’ultimo evento di un periodo ormai molto antico e non certamente contemporaneo, che è il lungo momento ideologico, quando il simbolo funzionava e mobilitava la storia e la politica, per non parlare della poesia. Tuttavia queste consultazioni sono anche uno dei molti primi momenti di una contemporaneità che prescinde del tutto da storia e simbolo e poesia e politica e ricordo.
Il primo turno mostrava già i segni di questa compresenza tutta contemporanea di opposti. Ne avevamo discusso qui. Pareva crollare la pregiudiziale antifascista, elemento fondamentale a formare il giudizio politico, se ancora il giudizio è elemento politico nella nostra contemporaneità.
L’unico modo per ricreare l’evento storico e politico era dunque confermare la pregiudiziale antifascista, a prescindere dalle differenze programmatiche delle liste che avevano da unirsi, pur di fermare la “presa del potere” di Le Pen e Bardella.
Ora che il secondo turno si è concluso, e lo ha fatto con il più clamoroso dei rovesciamenti delle aspettative e dei sondaggi, con la vittoria del NFP e del gruppo macroniano di Ensemble!, che appunto insieme hanno sconfitto l’avanzata dei neofascisti, qualche considerazione si può depositare, sapendo che il momento storico non è affatto concluso. Si deve infatti decidere all’Assemblea nazionale quale maggioranza governerà il Paese. E, mentre ciò matura in un processo difficoltoso di veti incrociati, si forma a Bruxelles il terzo gruppo per numero di parlamentari: quello delle estreme destre, sfacciatamente neofasciste, del gruppo Patrioti creato da Viktor Orbán, un’accozzaglia di filoputiniani e paranazisti, se non del tutto neonazisti, da fare accapponare la pelle e abbacinare lo sguardo.
Considerazioni volanti, dunque:
- Non è vero che non abbia vinto Macron.
Se i riferimenti si fanno al 2017 o al 2022, si sbaglia per storia e dunque per statistica. Ormai due anni sono un’era geologica, quanto ad accadimenti, che influenzano l’atmosfera in cui emerge il consenso elettorale. La politica, al culmine della sua maturità democratica, entra nella propria crisi, per questo processo di velocizzazione dei fatti e del processo in cui maturano. Non maturano più in effetti: sorgono e vanno a evanescenza. Resta l’aria, resta l’atmosfera: spesso intossicata da quel fossile inquinante che è il neofascismo di epoca Mad Max, di epoca MAGA, di epoca QAnon.
Per un’analisi politica bisogna dunque non considerare il passato, ma strettamente ciò che avviene, per proiettarlo in possibili traiettorie future, le più numerose che si riescono a escogitare, sapendo che la storia ne smentirà la quasi totalità. E’ mutato il carattere quintessenziale dell’analisi.
Macron perde, rispetto alle precedenti legislative, una settantina di seggi. Al contempo, rispetto alle aspettative e ai poll prende il triplo di quanto ci si attendeva, come sottolineato dal primo ministro Gabriel Attal nel discorso fatto nell’immediatezza del post-voto direttamente da palazzo Matignon. La coalizione centrista è il secondo gruppo in assoluto all’Assemblea. Il partito Renaissance, diretta emanazione di Macron, ottiene 102 seggi e si attesta come la seconda lista di Francia, a 24 seggi dal Rassemblement National e sopra France Insoumise per 28 seggi. Non esiste maggioranza possibile senza il macronismo, a meno di ipotizzare un governo degli estremi, che il voto nazionale ha appunto escluso.
La maggioranza parlamentare di Macron era a pezzi, con tutta probabilità a rischio di non passare settembre. Il presidente era ricorso (“Come Giove”, ha chiosato il socialista Raphaël Glucksmann) a una forzatura per applicare la tagliola al parlamento in merito alla contestatissima riforma delle pensioni. Andare alle urne, se pure è sembrato a molti osservatori una follia o un azzardo incomprensibile, avrà portato sì la Francia a mutare maggioranza parlamentare e a trattare come si è abituati nei regimi proporzionali, ma il punto era tenere la Repubblica nell’alveo della democrazia liberale e non invece immaginare un’organicità di proposta politica maggioritaria. Si consideri che proprio oggi Le Pen ha annunciato a Bruxelles l’entrata nel gruppo Patrioti di Orbán, Bardella ne sarà il presidente e il militare italiano Vannacci il vice, il gruppo è terzo per seggi in parlamento. Serviva uno stop, dopo l’avanzata degli estremismi fascisti nel continente. Lo ha invocato Macron, quello stop. La politica e la popolazione gli hanno detto sì.
L’ondata democratica che si è sollevata alla decisione di Macron di andare alle urne ha dunque permesso che si formasse un patto costituzionale, il quale è l’unico grande, immenso, profondo momento ideologico capace di agire politicamente nella nostra confusa contemporaneità, per opporsi alle forze che vogliono mutare il sistema democratico in cui viviamo da decenni.
2. Ora, esercitata la funzione di argine all’ondata neofascista, con cui si è garantito il carattere repubblicano e democratico del Paese, si passa a un secondo livello. Che si riassume poi in una domanda: come va governato il regime repubblicano e democratico? Questo momento, che era l’atto primario e il processo e l’esito di ciò che fu la politica in un’epoca precedente, arriva oggi per secondo. Importa poco che il baricentro si sposti più a sinistra, più al centro o più a destra. Importa anzitutto la tenuta della repubblica. In questo ring parlamentare, che giunge come momento secondo, sembrerà che torni a trionfare, l’arte della politica – ma già non è più così. La politica è infatti ben oltre la politica per come la si intendeva anche solo qualche anno fa.
Il processo innescato dalla decisione di Emmanuel Macron non si ferma infatti a ciò che succede nel 2024. Mira al 2027, quando si terranno le elezioni presidenziali. La sfida di Macron era un pericoloso e assai contestabile win-win: se il fronte repubblicano avesse perso e Le Pen avesse ottenuto la maggioranza assoluta, Macron avrebbe poi smascherato l’incapacità e il dilettantismo del RN nel governare la nazione, logorando in coabitazione il premier fascista e facendo arrivare sfiancata Marine Le Pen alle presidenziali; se invece il fronte repubblicano avesse vinto, come è stato, Macron avrebbe comunque salvato la direttrice repubblicana e democratica, dando per scontato che in ogni caso la maggioranza di governo non c’era più.
Oggi il rischio sembrerebbe: la paralisi nell’azione di governo e la difficoltà a reperire una maggioranza coerente, secondo molti osservatori, avranno la conseguenza di portare tra tre anni a un duello Melénchon vs Le Pen alle presidenziali. Detto che ciò era plausibile anche alle presidenziali precedenti nel 2022, quelle vinte da Macron per la seconda volta, con percentuali molto basse, bisogna sottolineare che la strategia dell’Eliseo è dinamica. Significa: lo scenario politico non può stare fermo nei prossimi due anni.
Un’osservazione di passaggio: scommettere in un logoramento del RN nel corso di tre anni di governo dilettantistico e guidato da un velleitario ventottenne fascista che non sa come coprire finanziariamente il taglio dell’IVA che è nel suo programma elettorale, non tiene conto del carattere specifico della nostra contemporaneità: non avrebbero avuto per nulla peso le contraddizioni a carico di Le Pen, esattamente come accade per le menzogne e gli atti sconsiderati di Trump negli Usa o per Meloni in Italia, la quale si è rimangiata qualsiasi promessa elettorale e tutto il suo storico programma politico. Era un calcolo sbagliato solo per questo motivo, quello di Macron. Avrebbe distrutto la prerogativa antifascista, e si sarebbe trattato di una perdita clamorosa, una rottura di livello che, se avvenuta una volta, è avvenuta per sempre.
La garanzia fornita da Macron, in quanto presidente non dimissionario né dimissionabile fino al 2027, non avrebbe retto in termini politici, se non addirittura di legittimazione istituzionale (l’apertura di conflitti di competenza con il premier su quanto la Francia avrebbe detto in Europa era altamente probabile).
3. Una maggioranza è nei fatti possibile: va dai socialisti ai centristi ai repubblicani che non hanno seguito l’ex presidente Ciotti, il quale tutti ha meschinamente tradito, per andare a sostenere l’ipotesi Le Pen: una maschera grottesca e ipocrita, l’inutile idiota, perenne in quella commedia dell’arte che è la politica universale di ogni tempo e luogo.
Chi pensasse che i socialisti, in una maggioranza simile, tornerebbero a percentuali irrisorie a una cifra, può considerare un fatto: la partecipazione a un simile governo significa qualcosa se e solo se, nel contempo, si deposita e si radica una prospettiva socialdemocratica nella società e nell’alveo del consenso elettorale potenziale. Se i socialisti hanno la loro Bad Goderberg e il loro Godesberger Programm entro il 2025, se trovano i finanziatori e incontrano la popolazione e i territori per ascoltare e interpretare e proporre soluzioni a problemi molto antichi, mantenendo un credo europeista assoluto e preparandosi alle riforme che l’UE deve affrontare per non trasformarsi in un grande mercato privo di soggettività politica – se la partecipazione al governo avviene mentre si dà questa creazione di soggetto socialdemocratico, essa non risulterebbe affatto dannosa, ma responsabile. Per evitare il rischio di restringimento del campo socialdemocratico, Glucksmann potrebbe imporre a tale maggioranza l’abolizione dei provvedimenti più contestati a Macron dal punto di vista sociale, proponendo il programma di politica interna di tutto il NFP, incluso Melénchon. E Macron farebbe bene ad accettarlo e anche gli indispensabili neogollisti. E’ insostenibile finanziariamente? Discutiamolo nel punto successivo, il quarto di questa analisi.
Un processo analogo deve prendere corpo nel centrodestra. Qui la situazione è più semplice. Tutta la coalizione Ensemble!, compreso Horizons dell’ex premier Édouard Philippe, deve proiettarsi molto velocemente in campo neogollista, per arrivare alla rifondazione di un soggetto conservatore repubblicano, il cui punto qualificante sia l’indisponibilità radicale a governare con l’estrema destra. Si tratterebbe di un soggetto europeista, da inserire nel gruppo europeo dei centristi popolari. Di fatto Philippe o Attal sono già centrodestra. Bisognerebbe compiere il passo di riconoscere che De Gaulle ha la possibilità di fornire un’eredità ad altezza 2025, ben più che il neoprotestantesimo in cui Régis Debray ha stagliato la figura di Emmanuel Macron (che peraltro, essendo un conoscitore e un esperto dell’ermeneutica di Paul Ricœur, ha come perno l’idea di spazio continentale di Kant e il suo è un liberalismo appunto kantiano, in fin dei conti, in salsa neoliberista).
Nella composizione del parlamento europeo avremmo dunque entro il 2027 il risultato che i gruppi PPE e S&D dovrebbero crescere, a discapito dei liberali di Renew Europe, che Macron si era speso per fondare e lanciare, determinando una maggioranza a tre per il ciclo Von der Leyen. Se i liberali ritengono di proporre una prospettiva degna del tempo che sta arrivando, si accomodino.
In Francia si tratta di arrivare a 2027 con almeno un totale del 60% di consenso elettorale a favore di due formazioni che rinnovano le funzioni avute da socialisti e repubblicani nel corso della Quinta Repubblica, da Mitterrand a Jospin da una parte e da Chirac a Sarkozy dall’altra. Con il doppio turno alle presidenziali, nessun problema di desistenza collegio per collegio. Dando per scontato che Le Pen possa aspirare ad accedere al ballottaggio (perché, con i risultati finali delle coalizioni a queste legislative, non accederebbe), va tenuta lontana dall’Eliseo.
4. Macron ha dimostrato un narcisismo e un’insipienza politica non rare al giorno d’oggi. Lo ha fatto per sette anni. Dallo scatenamento dei gilet jaunes alla paralisi nazionale indotta dall’insensata riforma pensionistica, fino all’abbandono della medicina di base nella gran parte degli estesissimi territori rurali, Macron sembra non avere colto alcune sfide cruciali del nuovo tempo e che il suo europeismo, per essere tale e all’altezza, dovrebbe avergli impartito come lezioni da non dimenticare.
E’ difficile riuscire a persuadere un liberale al carattere aperto (e apparentemente antidisciplinare) delle soluzioni a tali sfide in epoca contemporanea. Un liberale non crederà mai alla possibilità di un reddito universale. Il che è fatale che avvenga, se la storia continua sugli attuali binari. Uno può non credere all’opportunità di un reddito universale, perché ritiene che il lavoro sia un momento altissimo di creatività umana, i cui caratteri di equità e desiderio e maturazione vanno esaltati. Ma un liberale proprio non può credere a una società dei bonus.
A emblematizzare gli errori di Macron basterebbe in ogni caso il Trattato del Quirinale. Firmato nemmeno tre anni fa da lui e dal presidente della repubblica italiana Mattarella e benedetto dall’allora premier Draghi (se non pensato direttamente da quest’ultimo), il trattato implicava la nascita di un’agenzia unica del debito francoitaliano, a scudo antispeculativo. Il presupposto filosofico ed economico di un’azione simile risiede nella mutazione genetica del concetto di debito. Tutta la politica liberista sembra ancora sotto lo scacco di una scienza, l’economia, che si fonda sulla scarsità delle risorse. Non è più così. L’automazione, l’impiego massiccio e massivo di intelligenze artificiali e il ricorso a energie pulite non più proprietarie scateneranno un arricchimento che sfigura del tutto i canoni economici, così come il digitale ha sfigurato quelli politici o, che so?, quelli letterari. I canoni sono abbandonati e sottoposti a una programmazione senza sosta, che si verifica di punto in punto ogni minuto – e ciò vale anche per finanza ed economia. Se uno ritiene per esempio che, nel 2100, il codice della giurisprudenza sarà un libro con le pagine stampate in via definitiva e innovabile all’edizione dell’anno dopo o degli anni successivi, non ha capito cosa sta per succedere: sarà l’intelligenza artificiale giurisprudente a rendere quantistica la composizione specifica delle norme locali, così come le diagnosi differenziali già oggi vengono più velocemente e meglio formulate da AI. Il debito, che Mario Draghi ha trasformato concettualmente e praticamente, dividendolo in una componente “buona” (investimenti per il progresso) e in una “cattiva” (spese che non fruttano socialmente o produttivamente), non si dice che sia alla fine dei suoi giorni: nessun canone scompare; semplicemente, perde di centralità, sopravvive in un’atmosfera fitta di elementi e con alto rumore di fondo, sfinisce, da primario diviene secondario.
Pensare di non aumentare il salario minimo o di riformare in senso austero le pensioni, suscita un’acuta e giustificabile preoccupazione per una possibile tempesta speculativa, perlomeno in liberisti come il ministro delle finanze e scrittore erotico Bruno Le Maire, non a caso immortalato in un romanzo di Houllebecq. Lo spazio unico fiscale europeo consentirebbe di praticare la “bontà” del debito, lasciando alla letteratura soft porno i ministri delle finanze.
5. In Francia la pregiudiziale antifascista non è caduta. In Italia, sì. Prima di votare chi si autodefinisce rassicurante e di centro, come Forza Italia, bisognerebbe riflettere sul fatto che quella formazione politica, anche per storia del suo fondatore, oltre che per convinzione degli esponenti in vita, preferisce mantenere il potere insieme a chi predica la pregiudiziale fascista, come il Salvini visto in un video tragicamente comico insieme a Wilders e Le Pen a Bruxelles, mentre irride Macron in quanto questi sarebbe finito, secondo questo crocchio degno di Alan Ford, proprio qualche giorno prima della scoppola elettorale rimediata dalla destra lepenista.
La pregiudiziale antifascista non esiste più negli Stati Uniti e in molti altri luoghi del pianeta. In Italia, dove il fascismo è nato, l’amor suo non muore. Si potrebbe pensare che abilità competente, efficacia dell’azione di governo e capacità di programmare il futuro siano elementi in grado di sconfiggere l’ipotesi antisistema. Ma la ricetta liberale si sta dimostrando inefficace a interpretare il tempo, se non ha al fianco la forza empatica e progettuale del progressismo. Ciò che serve anzitutto è la pregiudiziale costituzionale: riuscire a fare percepire che la Repubblica c’è, agisce, aiuta, sente e impara, garantisce equità e diritti e doveri. Reimparare che siamo in marcia verso il futuro.
Serve il socialismo della Costituzione.
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