
Quando arrivò “Goldrake”, il cui titolo non era “Goldrake”, perché era “Atlas Ufo Robot”, ma in realtà era “Ufo Robot” e “Atlas venne aggiunto dal titolo di un catalogo di vendita televisiva, praticamente un po’ come “Mazinga” non era davvero “Mazinga” poiché era il successore di un antenato mai visto se non in Giappone, tale “Mazinga Z”, e comunque il titolo era “Mazinger”, onomastico mai utilizzato nella storia su tutta la superficie nazionale italiana, quando ancora mancava poco perché “Jeeg robot d’acciaio” facesse cantare sulla medesima superficie nazionale che esso correva “per salvare la gente dell’umanità”, un sintagma che prevedeva filologicamente ciò che sarebbe avvenuto nel quarantennio successivo, ovvero l’aspirazione di tutta l’umanità a diventare gente – quando tutto ciò iniziava, con la messa in onda in Italia della prima puntata di Goldrake alle 18.45 del 4 aprile 1978, Aldo Moro era stato sequestrato dai brigatisti da 19 giorni. Quante puntate di Goldrake mancavano alla morte del presidente Dc?
Certamente meno puntate di quelle che avrebbero condotto due persone vestite in modo bizzarro, nei medesimi tubi catodici in cui era vestito in modo altrettanto bizzarro tale Actarus che diventava il robottone Goldrake, i cui nomi, Ezio Greggio e Gianfranco D’Angelo, venivano celebrati perché in una trasmissione priva di senso e popolarissiva, “Drive In”, si mettevano davanti a un cocker e lo invitavano a compiere evoluzioni, che il cane puntualmente non compiva, all’urlo di “Haaaas Fidànken”. La popolazione sobbolliva di entusiasmo. I bambini urlavano “Haaas Fidànken” correndo per i corridoi scolastici all’intervallo. Il cadavere di Moro si decomponeva secondo ritmi estranei alla biologia ma ancora non pienamente consentanei con il codice binario che, ai tempi, fruttava giochi elementari e a fortissimo abbassamento cognitivo, come il tennis di PONG, che quindi non era tennis ma ping pong, diffuso da Atari e diventato console poco prima che ad Aldo Moro capitasse l’incidente diplomatico a Porto Rico.
Corentemente tutto ciò avveniva nell’incoerenza di chi faceva esultare il popolo, dopo l’inesistente depressione collettiva degli anni suppostamente plumbei, urlando il nome di “Teomondo Scrofalo!” a un’asta tv fake come quelle vere, mentre già l’urlo di Tardelli aveva isterizzato l’aria, tesa ancora per la discrezione e il silenzio fatti calare da Aldo Moro con la sua ultima missiva alla famiglia.
In piena consequenzialità con questa situazione, si diceva, Goldrake arriva al confronto finale con il nemico Vega, il quale ha reso stanziale una base sulla Luna, dalla quale invia mostri monotematici (uno che sa solo arrotare, uno che spara soltanto fiammate, uno che è un abile judoka e di più non sa fare), tutti respinti dal robot transumano che sarebbe poi un dragone. Tale confronto finale, con Goldrake che decide di andare direttamente sulla Luna a eliminare il gran nemico, e non si comprende francamente perché non lo abbia fatto prima, tale confronto non lo si vedrà mai in Italia, perché la Rai non acquisì i diritti per trasmettere l’ultima puntata della serie. In tempi di ferrea coerenza e di vita vivente per un principio probabilistico solido, ciò avrebbe creato suspence. Invece creò oblio: c’è già Mazinga da guardare, vada a quel paese o a quel pianeta Vega, che peraltro ricorda vagamente l’attore Paolo Stoppa vestito con un mantello viola, colore notoriamente portasfiga, molto più spento e lugubre di quello indossato a Wimbledon dalla principessa Kate.
Goldrake avviene in una piccola comunità texana del Giappone. Bisogna ripetere quest’ultima sentenza descrittiva? Facciamolo: un robot pilotato da un giovane principe extraterrestre sta nello hangar di un istituto di ricerche spaziali, di stanza in un Giappone che è il Texas. Ad aiutarlo c’è un tizio che nessun ragazzino dei tempi riesce a capire se si chiama Alcor o Alcool. Venusia, la quota rosa degli eroici piloti di robot che difendono il pianeta, siccome è donna, spara le mammelle, che sono missili.
Il 14 settembre 1978 un ulteriore alieno atterrava sugli schermi italiani. Non era un cartone animato giapponesi, come allora si definivano gli anime. Era Robin Williams in un telefilm, “Mork & Mindy”, in cui l’extraterrestre salutava pronunciando nasalmente l’idiolettico “Nano-nano”. Ogni suo gesto, ogni sua prospettiva e intenzione era del tutto incoerente con la realtà reale e anche con quella finzionale, perciò doveva risultare comica. Risultava paradossale, invece, un autentico cortocircuito di linguaggio e logica e principio di azione. Significativo, quando l’alieno televisivo precedente era un logico implacabile e iperrazionalista come il dottor Spock di “Star Trek”.
A proposito di comicità: mentre Ronald Reagan succede a Jimmy Carter alla presidenza USA e dà forma all’ideologia neoliberista che configura gli anni Ottanta occidentali, approda sugli schermi la sit-com di maggior successo dell’epoca, “I Jefferson”: c’è un pubblico che continua a ridere fuori scena, come se si fosse a teatro, e ride e si stupisce e applaude praticamente a ogni battuta, non nel senso comico, ma appunto teatrale.
Intanto la proliferazione televisiva di anime dal Giappone è inarrestabile e vastissima. Il loro nome è legione e cioè, per fare davvero qualche nome presente e attivo nella legione, tra i moltissimi: Astro Boy, Rocky Joe, Sampei, Baldios, Trider G7, Belle e Sebastien, Gotriniton, Sandybell, l’Uomo Tigre, Hello Spank, Capitan Harlock, Gyakuten! Ippatsuman, Fortezza superdimensionale Macross, Pollon combinaguai, Holly e Benji, Occhi di Gatto, Creamy, bambole e animazione MonCiccì, il ragazzo preistorico Ryu, Candy Candy, Georgie, Lupin, Ken il guerriero, Lamù, i Transformers, Dragon Ball, i Cavalieri dello Zodiaco, Piccolo Lord, Gundam, Kate e Julie e un altro centinaio approssimativamente.
Nel 1989: esordiscono i “Simpson”, si cambia prospetto storico e dispositivo epocale.
Ma ciò che doveva accadere intanto è accaduto. E cosa, specificamente? Almeno tre potenti elementi sono in gioco, così riassumibili:
1. La fine del linguaggio. Probabilmente il biascichio e l’agrammaticalità del cane bipede e iperpeloso “Hello Spank” sono l’apice sintomatico di una mobilitazione totale del linguaggio, diretta verso un senso indebolito e incoerente. Non un nonsense, non un limerick: un senso a bassa intensità. Questa fine del linguaggio non è una fine, non finisce nulla. E’ una trasformazione che fa uscire la vita dal linguaggio, piuttosto. E avviene là, per finire a manifestare qua una maturità, negli anni attuali. Il proliferare di acronimi, di generi e sottogeneri, tassonomie impazzite, scritture non scritture, letture non letture, lessico di base giunto a 320 parole quotidiane, incapacità di sostenere prove di italiano scritto e orale, contrazione giornalistica fino a quella meme on line: tutto nasce lì, alla fine dei Settanta, quando dall’analisi della situazione si passa a una sintesi che non sintetizza nulla. Haaas Fidànken! per tutti, tutti coe il cane Fidànken o il cagnolino Spank, per via nippoamericana (gli Ottanta sono il momento in cui il Giappone è potenza economica mondiale paragonabile all’odierna Cina e rivaleggia con gli USA).
2. La traslazione del mondo, della storia e dello spazio in un purgatorio immaginale bambinizzato. Non c’è aspetto professionale, geografico, storico, fantastico, tecnologico, affettivo, sportivo, competitivo, naturale, urbano, metropolitano, celeste, planetario, cosmico, teologico (“Il Vangelo per i bambini”, addirittura,トンデラハウスの大冒険, ovvero Tondera Hausu no Daibōken, venduto in Italia in videocassette pubblicate da Armando Curcio, questo editore che faceva paura ai bambini per il cognome del fondatore delle Brigate Rosse), artistico, amoroso, romantico, sessuale, parafiliaco, pre-LGBTQIA+, morale, politico, letterario (da “Anna dai capelli rossi” a “Heidi” a “Piccole donne”), meccanico, psichico, animale. Tutti gli aspetti della vita occidentale e orientale sono trasportati in un limbo di immagini memorabili da dimenticare, che però segnano l’immaginario di più generazioni, conducendo all’epoca dell’immaginario collettivo zero, che è poi oggidì, quando qualsiasi immaginario dura un’ora e le generazioni non si fondano più sulla storia delle immagini che affettivizzano durante l’arco della crescita verso l’età adulta). E tutto ciò in un lallare bambinesco, in una immaturità conquistata e mai più abbandonata, nelle fibre dei neogenitori che sarebbero accaduti da fine Settanta agli anni social di Musically divenuto Tik Tok.
3. La previsione della fusione tra umano organico e protesi meccanica, che diventa corpo, deflagra in immagine tra quelle immagini animiche. La lallazione bambina, tutta divertita, con cui Pingu sostituisce San Giovanni e apocalitticamente disvela la verità storica in cui la storia storica termina, per iniziare la sua trasmutazione in storia cosmocentrica: tra corpo e strumento c’è una continuità che aumenta la realtà, rendendola reale e quindi ammettendo che si è vissuto finora una realtà diminuita, cioè abbruttita, che è la realtà in cui si muore. Si muore anche negli anime, sia chiaro. Si muore come non mai. Quanti viventi e robot muoiono nella storia completa dei manga animati negli Ottanta, sugli schermi tv italiani? E tuttavia non si muore più, perché la ripetizione è pressoché infinita e l’aspetto seriale, potentissimo negli anime, funziona per cicli 1.0, 2.0, 3.0, cioè stagioni successive, upgrade del tempo, memoria complessissima di trame complicatissime, che si disciolgono in un oblio accettabile, pur di assistere all’evento del nuovo episodio. Il che crea comunque specialismi e filologie inimmaginabili su aspetti e produzioni futilissimi, se guardati con l’occhio di qualsiasi epoca anteriore a quel salto quantico che fanno compiere la storia giapponese e quella italiana, cioè le due avanguardie antropologiche che si inoltrano da sempre nelle non-storia.
4. La sessualizzazione dello spazio e del tempo, dopo una prima fase di erotizzazione dello spazio e del tempo, diventa annichilimento del desiderio nello spazio e nel tempo. L’aspetto pesantemente pedofiliaco dello stile erotico anime è pregiudiziale? No, è profetico: è il desiderio in forma contemporanea per noi contemporanei di oggi. E’ ciò che motiva QAnon o Trump. La vita sessuale on line è preconizzata e inverata in forma animica: non dell’anima, ma degli anime.
Dentro ci siamo tutte e tutti? Non ci siamo state tutte e tutti, ma ci saremo continuamente tutte e tutti, quando ognuno sarà nessuno e sempre sarà un avverbio davvero di tempo e non di azzeramento del tempo. Incombe su di noi un sempre che i cinquantenni hanno potuto assorbire con gli occhi quarant’anni fa.
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