Tommaso Ragno da Franz Kafka: “Una relazione per un’accademia”

Una strepitosa interpretazione dell’attore regista, giunto a un culmine della sua maturità artistica: scrittura e identificazione totale della “narrazione” kafkiana in un’ora di non-monologo, di fecondazione eterologa in cui si è concepiti in modo altro e si nasce a una nuova forma, si perdono autonomia e ossigeno, per entrare in un altro regno animale, in cui non si pensava di essere: i primordi del tempo di specie, ovverosia l’origine universale.

In un caso come quello installato da Tommaso Ragno nella recente storia del teatro nazionale, con la scrittura regia e interpretazione di “Una relazione per un’accademia” di Franz Kafka (visto al Teatro Franco Parenti di Milano), bisognerà fare difetto a se stessi e discriminare attentamente dove il testo divora l’attore e autore di teatro, mentre è il caso di custodire la bella salma dello scrittore che porta a termine la scrittura tutta, il cadavere Franz Kafka, morto in vita e messo in teca per tranquillizzare il genere umano, colui che era morto per vivere accettando l’addomesticazione al nulla, a chiunque, a ogni cosa, un gesto di grazia e di vago accenno di sorriso. Solo distinguendo testo e interpretazione (così si sarebbe detto un tempo, che fu bellissimo), solo così si manterrà diritto ed efficace lo sguardo fiero ed enfatico dello spettatore e della spettatrice assai interessati, di fronte al mezzo miracolo compiuto dal Ragno divenuto Scimmia: il disvelamento di chi siamo davvero noi, noi che riteniamo di essere noi, i non unici bipedi, i non unici simmetrici.
Questa premessa, di cui sarà perdonata l’eventuale cripticità per via della natura del sito in cui essa viene pubblicata, cioè un luogo tutto dello scrivente in cui ci si piglia la via di fuga (non la libertà!) per cui la parola fa un po’ quello che vuole – questa premessa indica che abbiamo proprio assistito alla pre-messa. La fase sacrale cioè, quasi mai notata e ancor meno fenomenologizzata, della messa che la Catholica ha impartito in forme diversissime a latitutidini distanti per millenni. La pre-messa: quel balbettio di chi si approccia a vedere finalmente quale carne può mangiare e a saggiare il grado alcolico del sangue. Tale pre-messa ha in “Relazione per un’accademia” il suo pontefice e il suo verme. Qui si dà (per Kafka e per Ragno) il buco nero da cui sussurrare il biascichìo di universi altri.
Tutto ciò che è inutile e criminogeno santifica le preparole di questo previcario del Cristo messo in croce. Nemmeno: messo in gabbia. Nemmeno: messo in una gabbia per tre lati, mentre il quarto è la parete di una cassa. Verso la quale spegne lo sguardo Pietro il Rosso, la scimmia ferita e catturata nel corso di una spedizione di caccia di una ditta straniera, scesa nel Continente Nero a fare razzie nei territori ghanesi della Costa d’Oro. La scimmia ferita sarà la ammaestrata. A darle il nome, Pietro il Rosso, è il rimbalzo su un’altra scimmia ammaestrata, cioè semplicemente Pietro, che si aggiunge artatamente essere perita da pco tempo, mentre il nostro neo-umano Pietro il Rosso è colorato dall’aggettivo che indica la tinta della cicatrice lasciata da uno dei due proiettili che l’hanno colpita. L’altra pallottola ha procurato un danno più grave, penetrando il fianco, forse anche il gluteo, spezzando un tendine, uno sciatico, qualcosa che ancora fa zoppicare la scimmia e mette in dubbio che la sua raggiunta natura umana lo sia completamente.
Il racconto, se di racconto si tratta, e non si tratta di racconto, è in ogni caso leggibile qui.
Vediamo cosa ne fa Tommaso Ragno in scena.

Anzitutto: è una scena? Lo è. E lo è come quasi nessun’altra, a parte alcune di cui si scriverà in queste pagine nei giorni a venire, poiché è evidente che, nel tempo in cui smuoiono i canoni, tra cui il canone “arte”, il teatro, che è esso stesso un canone, recupera la verità che sta all’origine di tutti i canoni e la intravvede come elemento del proprio futuro. E quindi recupera la scena.
Il termine greco antico σκηνή indicava una strumentazione estremamente ridotta, quintessenziata, una costruzione in legno fragile, precaria, leggera, un’impalcatura di legni o tavole. Non stava al centro del teatro, si trovava dietro la cosiddetta orchestra. La scena della “Relazione” di Tommaso Ragno è esattamente una σκηνή: un seggiolo con leggiò traballante, metallico ma incongruo a trattenere stabile, e serrato nella concetrazione, l’oratore che parla davanti al senato accademico. C’è solo questo a fare scena: il trespolo, che pare un’opera d’arte di Fausto Melotti.
E poi, ovviamente, c’è questo essere che arriva, e non arriva solo, poiché c’è l’impresario, che pare piuttosto un attendente, ad accoglierlo, a sistemarlo per l’importante accademica occasione.
La Scimmia Ragno si muove: quando sta ferma, si muove.
Si muove? E’ un parkinson senza fine, una scossa di vibrisse e arti, un sisma, un raccapriccio degli organi interni, un’ortopedia male riuscita e a cui si somma un sistema nervoso mutato sì, ma male, per un’aberrazione delle frenologie e delle sensitività intercettate da ogni fisiatra che si rispetti. Quale, del resto, la Scimmia Ragno è: un eccelso fisiatra di qualsiasi corpo, esterno e interno, visibile e sottile e invisibile, organico e animico, che ha di sé un rispetto intollerabile, se non fosse accompagnato dalla giustificazione di avere raggiunto un livello “europeo medio” di cultura e savoir-faire. Il tremito e le scosse, la scimmiesca disposizione all’impossibilità di stare fermi insomma, non smettono un attimo di attirare lo sguardo altrui, per insinuare il sospetto che il processo di normalizzazione non sia concluso del tutto. Però a smentire l’ipotesi sta la retorica e la persuasione della Scimmia Ragno: il suo amore per le metafore (gli uomini stanno per sempre “oltre la barriera”…) è pari soltanto all’ipotassi con cui si permette salite tonali da mezzosoprano, flebilità sonore cilestrine verso l’alto dei cieli o mutamenti di registro da lasciare attoniti, imperativi, perentori. Centinaia, letteralmente centinaia, di cambi di tono e di registro da parte del Ragno fattosi Scimmia, parlando e straparlandpo queste paginette kafkiane, che vengono espirate in un’ora che lascia turbati e vedovi di mondo, di specie, di globo terracqueo. Con qualche significativa variazione che vi viene praticata (moncamenti minimi e aggiunte pochissime) il testo sarebbe comunque l’importante deposito certo, l’atto notarile della conquista dell’animalità umana da parte dell’animalità scimmiesca. E invece non è così.

Se possiamo permetterci di parlare di capolavoro, e ci permettiamo di farlo, è proprio su questo punto che dobbiamo insistere – ma insistere come su un chiodo che non si riesce a piantare a muro per la durezza della parete, non c’è calce o tufo ma pietra impenetrabile, il chiodo è arrugginito e l’arte del tutto inutile. Insistiamo cioè nel dire che questo testo non lo è, proprio perché interpretato da Tommaso Ragno. Che, scrittore di scena e regista e interprete, trucca la scimmia da scimmia, con il suo ebefrenismo da spastico primate, ma compie una più decisiva e inaudita (davvero inaudita, alla lettera) mossa artistica, trasformando il limpido dettato di Kafka in un mormorìo distinguibile sì, ma a pena, le parole sfiniscono nelle parole che vi succedono, si biascicano passi fondamentali del rapporto rivolto a quegli accademici che sono le spettatrici e gli spettatori, si fatica ad ascoltare, si capta, e sia chiaro però che nessuno perde una parola o una frase, ma solo a prezzo di una fatica che si perdona euforicamente a un simile miracolo: una scimmia divenuta umana, ovverosia, per quanto si sapeva poco dopo Darwin, qualcosa di impreciso ma plausibile. Il simile conosce il simile – così sentenzia la filosofia, la quale non si permette di asserire: l’uguale conosce l’uguale. La scimmia è simile, non uguale. Anche quando sarà uomo, gli è simile. Così simile a noi è la Scimmia Ragno. La disidentificazione del simile, che racconta la sua propria identificazione con noi, è l’orrore. L’abisso è l’occhio che guarda l’occhio, cioè la violazione di uno dei princìpi fondanti della Repubblica di Platone, qui riletta da Franz Kafka alla luce (o meglio: al buio) di un inaspettato Immanuel Kant. Devo al fraterno amico, scrittore e filosofo Pino Tripodi l’osservazione molto precisa e sorprendente della prossimità del testo della “Relazione” a Kant: dall’imperativo categorico alla domesticazione, dal “come se” al celebre “legno storto”: “Il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. Da un legno storto com’è quello di cui l’uomo è fatto non può uscire nulla di interamente diritto”. Questa è la citazione scolastica usuale. Che tuttavia è una rozza semplificazione del passo originale, in uno degli scritti di filosofia della storia, cioè Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico:

«Il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. Questo problema è quindi il più difficile di tutti e una soluzione perfetta di esso è impossibile: da un legno storto, come quello di cui l’uomo è fatto, non può uscire nulla di interamente diritto. Solo l’approssimazione a questa idea ci è imposta dalla natura»

Kafka rovescia tutto. Il leggìo sulla scena di colpo è un trono. Il re intronato, rintronato, detronizzato. La somiglianza, cioè l’approssimazione, è imposta dalla natura. L’identità è finita.
Del resto, Kafka aveva commentato che “così come lo conosciamo quello dell’appercezione non è un concetto di estetica”. Perché l’appercezione è questione dell’intelletto. Altra è la percezione dell’arte, rispetto alla conoscenza intellettuale, la quale richiede a una scimmia diventata umana una compiuta relazione accademica. E la questione dell’intelletto è ben al di là del regime universale di istruzione al passaggio di specie che la Scimmia Ragno compie nell’inimmaginabile spazio compresso di cinque anni – in cinque anni perdendo la memoria o trattenendola in appercezioni estetiche, dal sapore vomitevole dell’acquavite all’ustione del fornello della pipa. E’ come se Brentano si perdesse nella giungla e venisse ammaestrato come un Mowgli. La fenomenologia come fatto estetico di natura: sporca, confusa. Nessuna intenzionalità trasparente. Ma, come detto, queste sono fòle filosofiche sul testo kafkiano, da evitarsi qui.
Non queste fòle hanno la possibilità di testimoniare il miracolo che è il teatro nel suo stato più puro, ovvero impuro.
Lo può piuttosto lo strabismo con cui otteniamo l’allineamento del Ragno alla Scimmia e della Scimmia all’Umano.
Ecco davvero lo spettacolo che non è uno spettacolo.
Non lo è, anzitutto, perché non è una narrazione. La Scimmia narra sì, ma da un report scritto sulla sua evoluzione o devoluzione. Quando ricorda, la sua narrazione non è più tale: il biascichìo e la frastagliata pronuncia blesa, a cui il Ragno sottopone il linguaggio umano della scimmia, si avvicinano a una poesia da mormorìo ultraterreno che è quello dell’angelo necessario di Wallace Stevens. Approssimazione al senso, eppure il senso arriva. Declinazione tonale, ottave per aria, Melotti appunto, la musica fatta forma. La lingua perduta degli uccelli non ha nulla a che fare con la pesantezza della lingua trovata degli umani. Che quella lingua non la vogliono più, è pesante e indegna di attenzione. Non è una via di fuga.
L’azione non è dunque narrativa, ma emblematica: tutto in uno, tutti separati da tutti, tutti uniti agli altri, in azione eppure immobili: c’è lì uno, un qualcuno, un animato, un animale, un retore, un mistificatore forse, un carrierista, un nostalgico, un impuro, un ibrido, uno sciancato, un alcolista di riporto, un ammaestratore di maestri, un ladro, un catturando, un secondino, un carcerato, un fumatore, un vizioso, un accumulatore seriale, un furbastro, un degenere, un imitatore, un Noschese in pelliccia, un annusatore, uno schifiltoso, un braccato, un eroe, un prodigio, un viaggiatore del tempo, un abbattitore solitario delle lunghe leggi dell’evoluzione, un rappresentante del passato, un esponente del futuro, un moribondo, un amante cinico e irrispettoso, un vagabondo, un europeo, un borghese, un relatore a un’accademia, un violatore delle leggi divine e delle regole prometeiche, un sottrattore abusivo della fiamma di Prometeo, l’annunciatore della fine o dell’origine della specie, un guitto, uno scrittore, un abile lettore, un attore, un interprete, un regista. Un Ragno senza cefalotorace.
Tutto questo c’è. Ma non un’azione romanzata, non un racconto, non una narrativa.
La Scimmia Ragno dà l’addio allo spettacolo. Dà l’addio alla scrittura – e questo accade dal 3 giugno 1924. Si può dare l’addio alla scrittura e continuare a scrivere?
O, più radicalmente, detto anche per lo scrivente, si può dare addio alla scrittura e continuare a vivere?
O sarà un’esistenza spastica, parkinsoniana, blesa, confusiva ma più saggia di chi sussurra all’orecchio del Mandarino morente il messaggio per la periferia dell’impero?
Con queste contorsioni trattenute, il cefalotorace piegato in una gobba che fa conca alla parola sottile ed efficace, la Scimmia Ragno ha divulgato conoscenze, ha tenuto una relazione, sulla scena verso di noi, il popolo osceno.


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