Una poesia di François Boddaert da “Ce livre de malheur, et des corps”

Il 73enne poeta francese, a inizio Novanta, fece irruzione nella scena letteraria con una strepitosa serie di poemetti in forma di romanzo nero, Eccone un breve estratto, in traduzione fallibile.

Nato il 26 luglio 1951, François Boddaert, dopo studi in arte e filosofia, fonda nel 1978 le edizioni Obsidiane. Ha creato le riviste di poesia Le Mâche Laurier (1994-2008) e Agotem (1994-2008). Nel 2010, è stato il primo a lanciare una rivista di poesia su Internet: Secousse. Residente in un villaggio dello Yonne, è poeta, saggista e romanziere, collabora con numerose riviste e organizza convegni dedicati alla poesia e alla letteratura. La sua opera è pubblicata, tra gli altri, presso le edizioni Le Temps qu’il fait, compresi i versi qui pubblicati, risalenti al 1991 e appartenenti al poemetto Ce livre de malheur, et des corps.

Sollevamento di un corpo

Un amico chiama, è notte, è ubriaco,
il suo corpo sente all’improvviso quell’odore di fine,
la sua voce fa un fracasso di coperchi, di chiodi.
La testa è intontita, la scusa celebre —
qualcuno soffre per l’influenza, qualcun altro ha un carro davanti alla porta —
e c’è un’impazienza verde di sopportare il suo sproloquio.
Dice: “Mi fidanzo” (si conosce questa antica cantilena),
ma il mio stomaco si ribella, e il mio cane ha le zecche.
Ha scritto una poesia, ah no, è incessante,
e parla di convogli, delirio nebuloso,
di convogli fuori dai binari.
Il vuoto sbalorditivo delle vane parole che balbetta
(i vigliacchi, i carnefici), che organizza, che spezza…
Si lascia senza sbiancare la fine gialla alle sue calcagna:
il sonno ha ordini — chi può abolirli?
«Richiamami domani, stasera ti sento male.»

Si riattacca, non fieri, punteggiati di rancori.
Il letto ti accoglie nella sua flebile incoscienza,
ma non si trova più la posizione fatale.
Alla luce che ritorna, ritorna il concerto delle nazioni
e la mischia del rumore: il loro inviato laggiù
ha potuto toccare la ferita di una poiana dei Carpazi,
afflosciata sotto il suo regno.
O Danubio insalubre dei nostri pensieri!
E il fiume trascina un limo di pene;
impregnano le lenzuola, vi si aggrappano e prosperano.
All’improvviso traboccano le sporcizie dell’infanzia:
domani, domani, un soldo, un pensiero cristiano —
la pietà sulpiziana con le sue delizie d’incenso.
In ginocchio verso i preti, la commedia del dono.
Alla fine si prende sonno sull’assoluzione del mondo,
l’anima contristata per i Moldo-Valacchi. (sempre notte)
Suona il telefono (e ancora è ubriaco):
«Il volto dell’altro ti chiama alla vita!
Sai che nei campi l’uomo basta al suo dolore.
Bere è dunque un mestiere più che una follia,
sotto questa solitudine posso ancora pensare…
Ma tu, che rispondi — sono le due? che ti mando al diavolo?»
Non ci si mette a tuonare, l’hai detto e non potresti dirlo meglio,
prendi qualche analgesico e affronta il tuo letto.
Si sbadiglia, si farfuglia, si invocano i Lari,
per servirlo si desidera una milizia di baccanti —
ma non c’è cervo in questa macchia ondulante.
«Sento male, pronto, sento molto male.» Si taglia.
Latae sententiae. Viale dissestato della Vittoria del Socialismo,
cadaveri liberati fanno il segno di vittoria;
tutto dorme disteso — così va la felicità.

Un amico chiama, è lontano, siamo stanchi;
e tornare alla propria stanza con un pugnale nell’inguine.
La civetta familiare sospira in cima al pino.
L’interruttore fa la guardia — la mano non può afferrarlo.
Gli occhi si sciolgono, il gozzo si amplifica,
l’epistassi attende la fuga delle mucosità:
tutto l’animale è tiepido, scorre lentamente.
La civetta stringe un topo tra gli artigli,
qualcosa parla sotto il letto o dietro la finestra;
la voce atona dipana l’antifonario del credere,
sesta, nona, compieta… il libro d’Ore è bianco.
Il sapore del sospetto ti taglia ogni sollievo.
In sogno, la mano afferra il legno liscio del tacere;
i volti dell’altro, riuniti, non evocano davvero nulla;
il topo è spellato; tutt’un sangue ha rotto la diga delle narici.
Quale corpo è sollevato nella notte, che non ha più chiamato?

A ciò che va verso ciò che resta, devozione.


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