Carmelo Bene: Autointervista

Un quarto di secolo fa, sulle pagine de il manifesto, nel maggio 2000 dunque, Carmelo Bene autointerveniva con un’autointervista che così definiva il proprio oggetto: “(o la solitudine di un poema impossibile)”. Erano note in margine a “l mal de’ fiori”, poema leggendario che invertiva il celeberrimo titolo di Baudelaire, ai tempi diventato come la Coca-Cola, prima che ogni bevanda sgasasse nell’oggi in cui non c’è frizzìo ma o apocalisse nucleare o intelligenza artificiale speranzosa. Ecco il testo del grande CB.

Di tanta produzione non importa se letteraria o pittorica, in tutta l’espressione artistica si può sempre rintracciare un età, addirittura il decennio, l’anno. In questo caso c’è un anacronismo talmente deliberato (questo verso sa di Novecento, quest’altro sa di Quattrocento)… non ha anagrafe, non può essere stipato, incenerito in un loculo. Stiano tranquilli i vostri poeti (eccettuata la vera poesia profusa da Elsa Morante ne La serata a Colono incorporata nel Mondo salvato dai ragazzini), le anime belle. Preferisco rileggere, se ho tempo, Wittgenstein, Schopenhauer, Lacan che ho frequentato, che non intrattenermi…. Basta con il consolatorio: non c’è niente da consolare! Basta con il giornalistico genio e sregolatezza. Il genio è rigore. Il genio è qualcosa di humus , di umile: fa quello che può. La mia massima ambizione è sempre stata quella di diventar cretino, perseguita con accanimento sin dalle operine giovanissime. Non vi sono età, vi sono flussi e riflussi, maree nella loro variazione continua. Basta insolentirmi con l’avanguardia! Mi si dia piuttosto del reazionario, dell’antidemocratico. Basta con quella che qualcun’altro ha ben definito la tirannia delle plebi. Il pluralismo d’oggi è questo. Tutto mi deborda, mi travalica, mi supera: è proprio laddove mi supero… solo ciò mi interessa… il resto è poesia.

 Qui siamo nel deserto: non ci sono incontri/scontri, non v’è tenzone. Manca l’avversario, come manchi tu: non ci sono dibattiti. Mancato da – per – sempre. Non c’è da “rimandare l’ardua sentenza ai posteri” (come suona Marziale: “Postumo, tardi è l’esser nato ieri”) poiché non vi sono posteri, non vi sono contemporanei: non mi sento contemporaneo a niente. Questo poema è solo, chiuso nel suo stesso impossibile: perché possibile è solamente quanto avverrà, il futuro (scontato che il tempo Aion non esiste). Il futuro/passato: questo anche è il possibile, ma l’Immediato è impossibile. E’ l’Immediato che io cerco! Sulla scorta dell’Ulisse di Joyce, di Villon, di Arnaut Daniel, di Rabelais, se vogliamo… Sulla scorta anche del grande pensiero filosofico che però per giungervi ha dovuto impiegare migliaia di anni e pagine scritte, cosa che la grandissima poesia riesce a restituire in un flash, purificata da tutto l’apparato descrittivo sillogistico. “Io mi vergogno… d’essere un poeta”, mutuato da Laforgue ma gozzaniano, mai come qui calza a pennello: il versificatore è un limite banale. Qualunque interferenza è un pisciar fuori dal vaso: non si può interferire su qualcosa che è già un’interferenza continua o una digressione perpetua che smargina: c’è solo lo smarginamento. Qualsiasi intervento su uno smarginamento del linguaggio da se stesso non può che rivelarsi incongruo. Questa poesia d’anime belle che non si è mai ammantata non dico del comico, ma del ridicolo! Il ridicolo che amo vestire: è il mio abito da sera! Che non è il grottesco. Non m’interessa il cittadino. Ma nemmeno l’uomo è così affascinante. Occorre affrontare questo esercizio in versi, traverso discipline “categoriali” anch’esse però portate al loro limite, scompigliate. Non mi sono ancora spogliato del tutto. Chi non riesce a superarsi, almeno non stia ad insolentire: a catalogare, a stipare, a minimizzare, a mistificare. Così come lo Stato cura molto il museo (attentato all’Immediato), tempio popolato da miscredenti in cui si pensiona il presente, Immediato perché nell’impossibile. Si smemora anche d’esso il presente. Il possibile cos’è? E’ culto dei morti come bluff. E’ un futuro/passato vissuto da avanzi di galera a piede libero che si ritengono, grazie a questa mortalità, viventi, ma tali non sono: non sono viventi perché non sono! Tutto ciò nel poema è spacciato. Se chi legge non sente peggio per lui: non per lui è stato scritto.

[…]Qui non ci sono valori… Schopenhauer ha finto di tributare una certa agape, commiserazione del prossimo, io non commisero nessun vivente. Tutto ciò nel poema è stucchevolmente chiarito. Una lezione che ho inteso impartire al “me stesso” e che gli estranei devono rispettare non perché “non addetti ai lavori” ma perché questo non è un lavoro. E’ tra le cose che non sono appunto: questo è il fallimento nel senso di Andrea Emo, che non è il forfait in senso dispregiativo. “Che cosa di grazia vi ha messo in contatto con la parola”. L'”Io sono un lettore comune” e qui fuori di casa e di testa. L’amor (s)cortese è un’altra variante della degenerazione erotica che con l’o-sceno non ha niente da spartire. ‘L mal de’ fiori è un poema fondamentalmente destinato all’o-sceno, al porno come eccesso del desiderio e fine della conflittualità soggetto-oggetto. Laddove i corpi giocano come cadaveri, oggettità pietrificata, inanimata.

[…] Anche Hoelderlin viene affrontato sotto la minaccia costante del materialismo storico da cui puntualmente è travolto: pochi versi dice il Croce sono sublimi. Basta e avanza. Questo termine “irrapresentabile”: è da “esibirsi” nella differenza sulla scena della pagina. Il giorno dopo, qualsiasi giornalista di colore adopera questi termini proibitivi che diventano le famose canzoni da organetto di Nietzsche. Se qui ci occupassimo del nucleare non interverrebbe nessuno: invece sarebbe paradossalmente un argomento più semplice e più trattabile anche se richiederebbe uno studio serio ed approfondito di matematica e fisica. Diversamente sull’irrapresentabile s’arrischiano tutti, come sulla poesia che dovrebbe essere proibita ed interdetta. Se poi, come in questo caso, si autointerdice tanto meglio. La stessa composizione Francois Villon la riscriveva in francese arcaico: perché vestisse l’inattuale. E Rabelais manda tutto l’umanesimo a catafascio. Non mi muovo da lì: è la mia compagnia. La grande poesia si rivolge solo ai poeti. Se ne offendano pure i “lettori comuni”.


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