Il 10 di giugno dell’anno 2000, un sabato, alle 17, un’afa approssimativa induceva inerzia e disagio a Milano, città in cui, nella via Spartaco al civico 8, io incontrai un caro amico per assistere a una mostra allestita nell’allora prestigiosa sede della Fondazione Prada. Si trattava di un’esibizione dell’artista Marc Quinn, che consisteva anzitutto nell’introdurre gli spettatori in una Galleria delle Statue in ottavo. A differenza del celebre corridoio degli Uffizi, erano qui distribuiti in prossimità delle pareti otto corpi a grandezza reale, scolpiti in un marmo candido, tra cui mi pare di ricordare la celebre Selma Mustajbasic. Quinn non era ancora approdato alla forma dei Flesh paintings o tantomeno di Evolution. Le figure umane rappresentavano corpi monchi, raffiguravano disabilità, includevano pacatezza neoclassica in un’oscenità svuotata del dolore. Io e l’amico, che lievemente claudicava per via di un’infiammazione tendinea dovuta all’utilizzo persistente di certe calzature scamosciate, superammo lo schieramento di quei marmi forse grossolani, riflettendo sull’indistinguibilità nel contemporaneo tra grossolanità e raffinatezza, tra speculum e figura, tra superficie e superficie. Svoltando a sinistra fummo introdotti nella seconda sala della mostra. Qui, a dire il vero in uno spazio troppo ristretto per apprezzarne l’aura e la pressione psichica, stava l’installazione Garden: una vetrina parallelepipeda raggelata con un circuito raffreddante, alta più di tre metri e larga più che dodici e profonda cinque, che in sé custodiva in sonno criogenico una miriade di vegetali, sotto silicone. Osservai il pallore dilagare nel volto del mio amico, la sua cifra nervosa esprimersi con rari tremiti nelle posture, una delle mani che sistemava gli occhiali secondo certi standard comportamentali, a significare che questa installazione lo interessava. Pronunciò poche frettolose parole a commento dell’opera di Quinn, tra cui: “alchimia”. Intendeva, lo sapevo, in senso letterale, ammesso che un senso letterale l’abbia, questo ambiguo sostantivo. Avvertii in lui, insieme al suo interesse, crescere una forma di diniego a fronte dello scabroso, il ritrarsi davanti allo sciabordare di un’onda panica, capace di azzerare le gerarchie e le geografie a cui ci si è dedicati con ardore freddo e a cui si è lavorato con minuziosa devozione. La sua giacca scamosciata veniva afferrata dalla sinistra essangue ad altezza del bavero. Il mancamento di senso che colpisce il fare o il lavorare o il costruire – qual è la reazione più assennata e glaciale di fronte a questo scempio? Forse queste aggressioni alla pazienza, queste guerre nemmeno più tumultuose al mistero che pervade il fenomeno, queste impotenze esibite in faccia alla potenza che qualunque arte ha tentato di intercettare e veicolare – forse questi disfacimenti privi di regola, ammiccanti e che credono di essere seducenti, meritano una vendetta: in qualche senso gelida anch’essa, quindi nipponica, o perlomeno marziale. Si tratta di superare e, forse, di trascendere la forma disagevole e nichilista, incapace di arginare il disordine delle acque e gli sprechi dissennati che l’universo perpetra in oscure, distanti regioni…
Mi sono dilungato su questo aneddoto perché, a distanza di anni, qualcuno ha vendicato l’affronto supponente con cui Garden di Quinn si presentava all’assalto non dell’arte, ma del sistema artistico del suo tempo. A compiere in modo raffinato questo rito vindice è Antonio Riccardi, con la pubblicazione di un ibrido narrativo e filosofico e poetico, “Cosmo più servizi” (edito da Sellerio). Il titolo completo è in verità: “Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami cimiteri e vecchie zie rimaste signorine”. Un tempo alcuni avrebbero definito “prezioso” questo libro. Già una simile osservazione esprime con precisione quanto fu orrendo quel tempo. Prezioso, questo libro, lo è; ma il senso è altro. Di cosa si tratta, dunque? Per conoscerne materia e profilo, è utile un’occhiata alla scheda editoriale: http://bit.ly/1pCRJfJ. E’ molto bella anche l’intervista dell’autore a Fahrenheit: http://bit.ly/1pCRBwS.
E’ un ibrido totale, come qualunque opera d’arte, la quale non è fatta di un’unica materia, non si regge su un’unico genere, non accade un’unica volta e non appartiene a nessuno o a niente. “Cosmo più servizi” è un ibrido anche dal punto di vista degli stili del tempo. Formalmente e per certi versi è un trattato settecentesco (direi: francese) e per certi versi una variazione seicentesca, una convocazione della civiltà occidentale ottocentesca e una progressione di stampo novecentesco. In sé, è un puro libro del ventunesimo secolo.
A parte la volutamente eccessiva premessa aneddotica, sono costretto a produrre su questo libro un ragionamento approssimativo, vista la natura dello spazio in cui tento di svolgerlo. E’ imbarazzante per me, perché dovrei distendere la descrizione di questo oggetto con falcate mentali ampie, intorno a un esercizio di attenzione che la splendida e insidiosa prosa di Riccardi esige e, volente o nolente il lettore, con lieve tirannide induce. Ci sarebbe da scrivere tanto su un libro che a prima vista parrebbe un intrico molto strutturato di testimonianze culminate in emblemi. C’è qui, forte, fortissima, una poetica che è una metafisica “qualificata”. Ci sarà tempo, in altri modi, per pronunciare che missa est e in questo testo ci ritroviamo, comunità di sparuti, piccoli ammiratori di un perpetuo mistero.
Va tenuto presente, anzitutto, che l’autore è un poeta e un poeta abbastanza centrale nella nostra scena, attuale e italiana. Perfino affrontando il labirinto, la sua consapevolezza sarà di ordine poetico. Si tratta infatti di un saggio labirintico nel senso più mitico del termine: non c’è qui via di uscita e c’è sempre via di uscita. Tale rapporto tra fuoriuscita e contenimento è anzitutto interno al testo (e, quindi, all’individuo che lo scrive e a quello che lo legge). Si danno qui un’intimità e un’esternazione, un dentro e un fuori, che stipulano la necessità di una corrispondenza perfetta tra interno ed esterno nella propria psicologia. Intendo che sarà necessario ripercorrere la propria formazione, confrontarsi e collimare con i movimenti millimetrici che l’autore imprime alla sua materia, ai suoi articolati saperi, ai pozzi artesiani di scienza che negli anni ha acquisito e reso più profondi con un lavoro paziente e monastico.
E’ un libro grave. Intrattiene una sorta di feeling (e nell’àmbito semantico di questo esotismo si gioca una sfida lirica molto importante) con il memorabile, inteso in quanto vita da sempre morta. La collazione è collezione: un artificio, certo, però un artificio umano, in cui la narrazione conduce a esiti assoluti. Ci si ferma un passo prima della pratica metafisica, in un’ascesi oggettuale e spirituale, condotta in forza di un sentimento al contempo raggelante e fecondo, sempre rinnovato, dei saperi e della finzione, come esigenza psichica di senso dell’apparizione umana sul pianeta Terra. Tutto è in “Cosmo più servizi” assolutamente psichico e non psicologico, anche se sempre viene sollevata una barriera di discrezione su ciò che è personale. Personale sì, ma non individuale, poiché qui individuo è identico ad assoluto: è l’assolutezza del topico, un ring in cui viene giocato l’incontro di lotta immobile, come in certe gare di arti marziali. Si coltiva tale sensazione di immobilità che rappresenta ogni dinamismo possibile. La vita o, meglio, le vite tutte fanno perno su un nucleo allegorico che paventa e certifica un’imminenza continua, senza requie ma con reliquie, e ogni reliquia testimonia della requie e ogni requie è tutto: movimento, stasi e inframmezzo esistenziale. La “poetica delle reliquie” inquieta e tale inquietudine è un brivido umano che rende conto, come può, di un mistero fittissimo e incoercibile, clamoroso in un murmure silenzio, meccanico come meccanica è la circolazione del sangue attraverso la sede cardiaca che lo tempera nel calore e nel gradiente glaciale, azzittendo le proteste del flegma e inducendo una flemma impassibile ma attenta, sempre attenta, continuamente attenta: è la “veglia interna”.
Fa impressione notare come, in un arco di tempo che oggi pochi considerano tale, la narrazione autentica sia stata demandata alla responsabilità dei poeti. Molto concretamente: non c’è una narrazione più aperta e perturbante di quella che, con i loro testi, hanno consegnato alla lingua e letteratura italiane alcuni poeti, tra cui lo stesso Antonio Riccardi, che in “Cosmo più servizi”, in un modo estremamente diverso e e con differente potenza rispetto alla poesia di cui è autore, mette in scena la scena muta, dove sinistramente brillano in una luce spettrale tutti i racconti, resi cristallo e pietra dallo sguardo di Medusa della storia storica e metastorica, cioè dal fenomeno umano. E’ quindi come un’estensione cognitiva e sentimentale della poetica che Riccardi ha espresso da subito e una volta per tutte con il suo capolavoro “Il profitto domestico”, a cui qui aggiunge, poiché la prosa è di necessità meno intensa della poesia, una vibrazione di incertezza per l’appunto “personale”, sorta di tasca dell’esistenza dove si fanno i conti con la propria egoità e dove si toccano i piccoli misteri dell’io. Diorami, maschere funebri, dipinti, architetture, immaginari coagulati e infine solidificati per sempre in teche, ossa, oggettini che trattengono grammi di tabacco e microingranaggi, bambole secentesche, tassidermie, rosòlii, oritteropi e tutta Brasilia: la lista è infinita e non lo è, in quanto è più indefinita che infinita, l’acribia del catalogatore è l’unica strenua avventura che fa corrispondere la scoperta antartica alla conservazione della minima memoria da parte di un’avuncola. Il gesto è dunque assoluto, così come lo sguardo. E’ un’interezza ontologica coincidente con la sua espressione totale estetica – si gioca qui nella rima che frattura il tutto con il nulla. Non c’entra il crepuscolare, poiché qui si misurano i gradi e le convoluzioni delle tempeste solari, identiche a quelle geologiche che, nei millenni, fruttano un geomorfismo in cui la chimica minerale è uguale a quella organica. Tutto ciò esprime un sentimento energetico del mondo, uno spazio alchemico dove cade tutto, come in una Stonehange ubiqua ab aeterno: cade la parola (e quindi la frase e quindi il verso e quindi la struttura e quindi il libro e quindi la forma e quindi la lettura ovvero la percezione…) e cade l’azione. Parola e azione cadono, ma concorrono alla descrizione del consolidamento o della fluidificazione di un’energia, dalla concrezione fino alla sparizione subatomica. Questo è il culto della penultimità: enuncia implicitamente che l’ultimità è ben altra cosa. Si tratta di un momento assoluto della composizione artistica: la necessarissima testimonianza, che conosce l’indifferenza con cui viene assunta dalla storia, e però continua a testimoniare. Mi pare l’unica prospettiva (non l’unica poetica, sia chiaro, anche se la sento tanto tanto vicina al mio “personale”) con cui uno scrittore possa guardare al mondo e tentare di stare prossimo alla presenza di senso.
Questo saggio andrebbe letto e riletto da chiunque nutra, non si sa perché, la sconsiderata ambizione e di scrivere davvero. E’ “Il bosco sacro” eliotiano di Riccardi.
Oggi, più che mai, superata una certa mente umanistica, il tempo esprime nitidamente l’elemento umanistico, e “Cosmo più servizi” non è che una delle molte manifestazioni del tempo nel tempo, una conchiglia in cui risuona la totalità dei mari, dagli oceani ai laghetti aziendali (che sono mari), dall’Egeo al Bacino di Canberra, verso il poema assoluto, che non è testo cosa forma lingua cosmo o servizio.