
Alfonso Guida è tra i massimi poeti italiani contemporanei nelle generazioni post Sessanta. E’ nato nel 1973 a San Mauro Forte in Lucania, dove attualmente vive. Ha scritto di lui il romanziere e poeta Mario Desiati, già vincitore del Premio Strega: «Quando leggi Guida senti l’odore delle graminacee e l’umido delle case abbandonate, sulla pelle scorre il grattare della ruggine dei vecchi arredi e il refolo gelido dalle finestre usurate». Nel 1998 Alfonso Guida ha vinto il Premio Dario Bellezza per l’opera prima con la raccolta Il sogno, la follia, l’altra morte. Nel 2002 ha vinto il Premio Montale con la plaquette Le spoglie divise [Quindici stanze per Rocco Scotellaro]. Suoi versi sono apparsi su diverse antologie e riviste. Ha pubblicato inoltre Il dono dell’occhio (Poiesis, 2011), Irpinia (Poiesis, 2012), Ad ogni passo del sempre (Aragno, 2013), L’acqua al cervello è una foglia (LietoColle, 2014), Poesie per Tiziana (Il Ponte del Sale, 2015) e Luogo del sigillo (Fallone, 2017). Nel febbraio 2025 ha pubblicato La farragine (Casa del libro edizioni), oltre a Diario di un autodidatta, pubblicato da Guanda e finalista nella cinquina del Premio Strega per la poesia 2025.
La sua “inattualità” è perenne, la sua norma è abnorme, il suo vigore espelle la delicatezza in forma di respiro dolce, mentre chi legge si espone al disastro di una frana continua, della luce in tenebra e viceversa, dell’odio in amore, della naturalezza di certi artifici del passato – e quindi, anche, dei nuovi, disumani perché troppo umani. Si coglie nel poetare di Aldfonso Guida, a partire da echi e prossimanze che vanno da Beppe Salvia a Mario Benedetti, dall’espressionismo irregolare ed esoterico di Dino Campana fino a quello di Amelia Rosselli, e ancora guardando alla scrittura tragica della migliore avanguardia italiana – si coglie, dicevo, un pendolamento e un culto del non riuscito, dell’imperfetto temporale e compositivo. La discontinuità come forma di violenza è il plasma di questo poeta, la cui lingua è una fatale anemia falciforme al contrario: la troppa esuberanza del cosmo schiuma nei suoi versi che rotolano lungo la china della più calda tra le linee poetiche. Un antipetrarchismo non ideologico, ma assunto per temperamento e vocazione, rimbomba o delicatamente svanisce in temperature e profumi di primavere delicate, ma non per questo meno feroci. La blatta cozza contro lo zoccolo alla parete verso l’angolo cieco, sempre. Vaticina qui un mondo che persiste a esistere una voce potente, la quale è abilitata a sollevare la sperenza inesausta di un canone poetico in divenire, fuori da schemi predati. [giuseppe genna]
***
Mi trascino se ragiono, se tento
la pacificazione dello sguardo.
Se tento l’uguaglianza, un dio comune,
proprietà nuda e speculare, tanfo
di brasato e di crauti in locande
da poco. Studiavo un raro progetto,
metalli delle Terre Rare, corpi
transuranici, lo spato d’Islanda,
gli angoli nebulosi e acquei del diaspro.
Sì, è dura città questa luce amara,
l’attesa che un groviglio avvera e sfalda,
tra sonno e patergloria, Ave O Regina
sgomento all’ombra, novena straniera,
stellare, congiunta da alba a maniera,
sterrata radice di foglia erratica.
Tu non vegli più che per trarre amore
dai ritratti e dai corpi nudi, bruni,
baciati, alterni, stupefacenti occhi
di orfani chiusi in soffitta e sodali
disertori di cantine sociali,
circoli e club, furtivi blister vuoti
di ansiolitici, cavità gelate
di veleni metabloccanti e vergini
confuse tra le doglie e il latte munto
dai fidanzati col grappolo in gola
del frutteto sultano e del vigneto
stizzito, affogato da una colata
di cera e cemento, un gergo di malte,
malate madri, trecce calcinate.
Lo squero dei linciaggi, rifiorito,
rimesso al perdono e al patto di un vecchio
vassallaggio di mosche e morganatico
di speranze assorbite, come neve.
***
FERMATO AL TEMPO
Fermato al tempo che guarì luce
dal grano carbonchioso del dirupo
sotto i passi di un risveglio senza eco,
perdo gli occhi in una nebbia di larve.
Nel tanfo di cimice del cilantro
s’insedia la sambuchella raggiante
con le stelle di aneto.
Spostarsi fin oltre questo groviglio
di strade dove i ciechi,
con un ramo in mano, presagiscono un sentiero.
Nulla è vivo e ne subisco l’incanto.
So che potrei uscire e incontrare il giovane
pastore con gli occhi a forma di lacrima.
Gli occhi neri mi riportano al Mar Jonio
dei gelsi, al rosso – sangue, al nero – inchiostro.
Il giovane pastore senza nome
che passa accanto e scarta
le caramelle al figlio.
***
PHASMA
Le palme indiane, la Corypha thebaica.
Brucia l’aria di una stufa di ghisa.
Non scende che ombra sofferente e muta.
Ed è la mente un angolo disteso
che errando va per approdi confusi.
Giorni stremati dal voltarsi inerte
verso il sole, in un tacere di polvere.
Mi aggrappo a un foglio, a un margine del bianco.
***
LA PARTENZA
Metto la voce sul passo del canto.
Ché la sorgente è introvabile.
Il fiume osserva il flusso nei confini.
Io sono l’acqua che leviga il greto.
Metto la voce sul passo del canto.
***
Gli occhi di Vito sono imperscrutabili,
come il suicidio. Non bastano i miei occhi.
Non basta la luce per penetrarvi.
Pare che di notte spaventi i lupi
con un grido o sparando qualche colpo.
Conosco appena la sua voce, un suono
di bar, l’accento di un dialetto attiguo.
Fa buio un uomo solo
perché Amore nasconde.
***
I crani assottigliati delle suore.
Tutto bianco. Sensitivo, tagliente.
Mio solo viso. Il fuoco era un cammino
di piatti e scodelle. Riso, minestra.
La palma fittizia del refettorio.
Romana, Rubina, Maura, Pierangela.
Ridi. Figlie di Gesù che non sanno.
Ridi di tutti quelli che non sanno.
Galline tonde, ancheggianti, ballando.
Era così Cenerina, una lingua
di vento da mercato. Con un taglio
di mano, liquidava il mondo. Vetri
verdi, giardino rosa, vecchia giostra
di ferro e di albicocca. Giovinezza
davvero eterna. Feci l’esperienza
della nascita e di una volta sola.
***
Ciò che sono non può essere parlato,
per intero. Non posso farne voce.
Mi volto in due parole, tra colonne
mentali e mute di deportazione.
C’è una felicità di cani che unge
le mani impietrite dei vecchi. Piove.
Sta per piovere forte. Si è ingrigito,
tra le malve dei tuguri, lo sguardo
dei bambini che urlano bekos: pane.
Nel grigio scalcinato delle foglie,
stanco, mi slaccio le scarpe, cammino.
***
Eppure dovrebbe toccarti questa
luce gioiosa, il sole, il fiume, il bosco
quando un riflesso argentato è il suo inizio.
Così comincia la preghiera. Un suono
di pietanze asserragliate all’interno
di una tovaglia cerata. E il corniolo,
l’impazienza notturna del corniolo
sporge da una porta, infittisce il cielo
con le foglie rosse e i rami ghiacciati.
Ci siamo perduti. E io non trovo pace,
parola, non trovo strada. Mi accerchio.
Di una mente contrita, convulsa. Tu
puoi dire: felice è il sonno dell’alba
perché il buio non tramonta. È l’eterno
che a sera, in festa, esegue la caduta.
***
Ci siamo quietati in un tempo chiusi
per non dire addio né affogare l’acqua
tra due pasture. E l’Angelo commuove.
Perché è il segno di luce che rapisce
le mani o il cieco assottigliarsi ansioso
di una mente col pensiero spezzato.
Sorge l’età del labirinto muto
dove anch’io sarò presto alto o smarrito.
Lungo è il paradiso che quaggiù affiora
se un precipizio calmo urta la soglia.
***
Gelido è il fumo ocra dell’acqua. Andavo
per crepacci. E i pioppi e l’ombra dei miei occhi
striavano d’ospitali rimembranze
la notte che sarebbe giunta a forza
di pietra sul rossore dei miei polsi
sgranati. Cerca in questa ora di pace
la memoria, l’esultanza, la diaspora,
l’erba nel cielo, le radici al viso.
***
Portavo un gibus nero
quando era tempo di gramaglie e fieno
nel vecchio forno pubblico in via Piave.
Ci si alzava alle quattro.
Col pane azzimato e il lievito scuro.
Sono tornato a sognarlo stanotte.
Portavo un gibus nero.
Nero era ogni oggetto, lo sguardo, il volto.
Le lamentatrici funebri uscivano
presto. il grembiule di farina e zolfo.
***
Potrei dirti quale ricordo sfugge
quale romanzo abbarbaglia il notturno
di ieri. Al telefono parlavi di altre
cose, non quotidiane, ma straniere:
tutto il rovesciarsi del cielo sulle
rose dell’orto e nel pellegrinaggio,
da te a me, una testa violenta, azteca.
Avrei chiuso se non fossi stata tu,
mia madre, a raccontare queste fiabe
di rinuncia ospedaliere. Hai mangiato?
lo chiedi sussurrando, sciogliendo la
voce nel piombo del primo fraseggio.
Ti rispondo che le patate muffe,
bollite non piacciono ai morti e che allo
specchio gli occhi non riescono a guardarsi
l’un l’altro. Anch’io sono straniero e cieco.
Come vedi siamo in due e uno è il paesaggio.
***
Lettera
Stamattina una mitraglia di piume.
Cieli abitati, piste
da corsa, andirivieni, fughe. Fretta
di cieli azzurri. Cornacchie a soggolo
grigio, taccole, in lutto completo. Qui
morire eterno, morire ordinario.
Finire. Punto e a capo. Ancora. Annuncio
di ogni slancio contrariato, un cantare
basso metà inno solenne metà
triviale. Nascondo al male il corpo,
la mente. Il vento snida il suo pretesto
di ocra dal grigio tortora, dal verde
petrolio. Immerge a compieta il crepaccio
tra le ombre e il fumo del fieno maggengo.
***
Pastori del mattino all’American Bar
Parlano di mungitura meccanica,
del nutritore di metallo, nuovo
sostituto del vecchio poppatoio
di gomma. Valutando carne e latte,
parlano con labbra gonfie di sangue
come se il cuore gli pompasse in bocca.
Nero di mora e ginepro colora
le guance, il mento, la barba biondastra.
Corpi magri, scattanti, culi sodi,
stretti, un piglio dolce e violento, gli omeri
schiariti dal sole bronzeo dei campi.
Ogni maschio sfrigola nel profumo
primaverile della biada, assorbe
la forza lunare dell’ acqua e i palmi
colano scremature di latte, orde
bianche e fresche di pasture e ontanete
dal fogliame opalino nei capelli
che ingrassano, ricci, i colletti, macchie
di erbe aguzze, tarassaco, soffioni.
Vestono imbottiti, impataccati, k-way
spiumato, cinghia el charro, rubata
dal catalogo di moda di un vecchio
guardaroba appartenuto ai nipoti.
La voce buona, semplice, sottile.
Si toccano con lo sguardo incantato.
Con puntigliosa ostinazione, il polso
ruota a picco tra le gambe robuste,
le cosce muscolose, il membro enorme.
Sono coraggiosi. Affrontano il buio
mischiando il proprio sangue al sangue lucido
delle bestie nei muti sacrifici
dei templi, nei rituali antelucani.
Col manto irto di spine,
col peso del sogno di un gregge intero,
volano in groppa ai bucrani, cavalcano
le travi, lottano come profeti.
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