L’immensa onda d’urto che non concede riparo

[Sulla Gazzetta del Sud, una lunga, articolata, profonda incursione nel Dies Irae e nel  ‘Paese postumo’, di cui si affresca l’ultimo venticinquennio.]

di GIUSEPPE AMOROSO
[dalla Gazzetta del Sud, 4 aprile 2006]

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154.jpgL’arco degli eventi epocali, gli orizzonti più vasti e lontani di un grande spaccato di storia recente si misurano scrutinando i fatti parcellari, il cammino di un uomo, di un dolore, il procedere lento e faticoso di un giorno che appare uguale a un altro, lo sbandamento di una linea retta, l’imprevisto che frana su una regola, un paesaggio lesto a decomporsi. Per raccontare la vita, la più pallida forma della vita o la sua sfera più magica, di cui non si conosce il ritmo planetario, occorre partire dalla cronaca, registrare le cose che si vedono e quelle che scompaiono se appena le sfiora il vagabondo fiele di un oltraggio.
Da una cronaca capillare e allertata e sempre sul punto di tendere a un altrove  prende l’avvio il poderoso, onnicomprensivo romanzo di Giuseppe Genna, Dies Irae, un fiume in piena, una vertigine di elementi, uomini concreti e simulacri, oggetti che urgono e idee e proiezioni docili o infette della mente, tra forti intenzioni, capacità mimetiche e parabole.


Lo spazio di tempo che lo ingloba (1981-2006) è un lembo di tragedia che il mondo si porta dentro con il fatale andare che ha solo l’oscuro rovescio della luce.
Il bambino che muore in fondo a un pozzo coperto da una lastra a Vermicino e il ritrovamento dei nomi degli affiliati alla loggia P2 sono le prime scosse che fanno tremare i giorni e affacciandosi agli schermi televisivi trasformano cinquanta milioni di italiani in altrettanti spettatori. Sono fatti terreni, germinati dalle fibre caotiche di una società malata, ma a farli risuonare nel perimetro del racconto è laprosa ancipite, bifronte, lineare e curvata, freccia che sibilia feroce e arco barocco, lavorato, che si tende fiero e folgorante nell’aria. Sembra un diario, un registro di febbri, un enorme brogliaccio corposo e rovesciato nel suo santuario di note e canovacci letterari, questo discorso privo del suo margine che oltrepassa i confini dello sguardo e cerca la presenza dello scrittore, le sue memorie, la "vibrazione visiva e cieca" della sua vita che si distende in una Milano feroce e apocalittica in cui si destano "fantasmi di pericolo".
Il romanzo si gonfia di romanzi, è parola di un io che dice tutto, annota e infrange i segni più certi e confortanti, dà la caccia a ciò che non si vede e intanto vede quello che intorno è un brulichio infernale: la vasta metropoli come un "ammasso di lumini e ceri funebri", un "mezzocielo nero" contaminato dall’inquinamento, la marcescente realtà dei corpi. Ora in prima persona, ora osservato dall’occhio del racconto, Giuseppe Genna, scrittore di thriller che si sente indifeso e senza immaginario, va all’attacco "sventolando questa spada di cartapesta che è la letteratura".
"Parodia dei salmi", compone un’opera enorme con la quale "abbracciare il vuoto" e mette in moto un "robot interiore che ha imparato ad azionare in solitudine". Circondato dalle "larve" del passato, da una ridda di ossessioni sgranate in scenari da incubo, scrive spinto da un sogno di pagine incomprensibili, magmatiche, oracolari, crocevia di figure non si sa bene se vere o inventate. E intanto, mentre scoppia la trama dei complotti e dei misteri d’Italia, il libro continua a seguire le tracce di alcuni personaggi che appaiono e dispaiono secondo orbite che perforano la coriacea resistenza di una struttura narrativa orientata verso la visionarietà e il saggismo: Monica B., algida, murata in un silenzio non aggressivo, incatenata ai riti di una ricca esistenza borghese ma pure capace di un gesto di estremo coraggio. Paola C., spregiudicata e sarcastica, "scricciolo indifeso", sempre in fuga dal suo "nero" ieri, dalle violenze subìte, figlia di uno "stereotipo", vocata allo sperpero della sua gioventù. Maura, che sa dire addio all’amore. Massimo B., portato a tradire "per meccanismi automatici, senza fare convergere l’invenzione, la passione, la creatività". Vittorio Schiavon, padre di Monica, il quale, pur navigato uomo d’affari, detesta l’immoralità di certi politici.
Le vicende espansive o concitate, brevi fino ad apparire talora mutile, maestose fino a configurarsi come prepotenti storie autonome, scandite nei solfeggi di interminabili dialoghi, oppure alluse, offerte attraverso sussidi documentari, viaggiano in un tempo in continuo esaurimento, contorto, obliquo, talvolta sottratto agli stessi attori e preso in carico dal commento come da una voce fuori campo, asettica, gridata, modulata da un flusso verbale tracimante che si alimenta di dislocazioni anomale, architetture foniche, drammatizzazione rotonda di timbri orfici, sapienziali, di effervescenze stilistiche e sintattiche sotto cui corre, determinante, un giudizio eccentrico che, affrontando la realtà (ma anche il suo ipnotico impatto), tenacemente la vìola per edificare una sorta di monumentale celebrazione dell’orrore, del disfacimento, dello scacco. Nasce un romanzo-anagrafe della diserzione, della non vita che paradossalmente indossa i più vistosi vestiti della pienezza vitale, della denuncia, dello sconcerto morale.
E’ un romanzo di surrogati, di deleghe, faraonica storia di maschere spesso incantate dalla loro stessa fissità, trasferite in sequenze inarrestabili, puntuali da sembrare la decisione di un destino. E’ un’onda d’urto immensa contro la quale non v’è alcun riparo: la cifra del libro (beffarda metafora di un "Paese postumo") è questa oceanica contaminazione di estremi, la barbarica miscela di storie e di inappartenenze al mondo che avanza, indietreggia, va in brandelli.
Un mondo di crolli: come il Muro di Berlino, fra "topi umani entusiasti, che urlano entusiasmo", in una luminosa giornata di novembre. Come tutti quelli usciti dalla loro vita e capitati per caso nella finzione monstre del Dies Irae. Come l’"icona" di Bettino Craxi che frana, nel giudizio sommario della piazza, di fronte ai soliti milioni di telespettatori, "mosche fossilizzate in un’ambra iridescente, che si muove". Scrittori e agenti segreti, immagini spettrali di cadaveri e ospedali e palazzi del potere, fotogrammi di lucide città, quotidiani miasmi e metamorfosi dei singoli individui e dei gruppi, l’eterno girotondo di amore e morte e sesso, creativi intenti a "raccogliere storie da rubare", referti medici e battaglie ideologiche transitano, attraverso il campo magnetico del dolore, in una scrittura che "sfonda la poetica dei generi".


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