
C’è qualcosa di impressionante, nel tempo che viviamo, qui dove si sono sviluppati i sistemi di welfare e il valore è immensamente cresciuto, fino a non essere nemmeno più percepito, mentre finiva la vicenda dell’ansia da sopravvivenza – qui, che significa anche Italia 2024. Sono più abilitato a scrivere prose poetiche o direttamente questo tempo di rapidissimi cortocircuiti logici, di crollo ormai puntinato e istantaneo dei principi di non contraddizione, a fronte dell’assenza di assunzione di prospettive quantistiche. La realtà è abiurata, a favore di una sostanza melmosa e trasparente, l’etere fattosi denso, che distorce e sterilizza, un contagio di pulizia, ma non di salute, anzi – qui sono tutti nel medium trasparente, trasparenti anch’essi, privi di connotazione identitaria e psichica e quindi anche psichiatrica, in un mondo indolentemente effervescente di protocolli francamente del menga: dalle finte emozioni alle scie di profumo Montale, dalle faux ongles in pantoni orrendamente scartati da Macromedia agli algoritmi dei dispositivi di cura, comprensione, empatia, genere identificativo, funzionamento dei sex toys e zone vacue di tempo libero.
Nel quale è inutile recitare in proprio la parte di chi ne approfitta o per annoiarsi o per meditare gravemente nello stupore di ciò che muore, se stesso incluso – il che sarebbe l’esperienza artistica. Perché ne riuscirebbe in ogni caso un coro disarticolato di corbellerie oscene, diciamo da Hazet 36, nella privazione di qualsiasi competenza estetica e, appunto, storica – vorremmo dire: spirituale.
Per questo, non riponendo nessuna speranza nella visione, sono andato ad assistere alla proiezione del secondo “Joker”, con Joaquin Phoenix e Lady Gaga, “Joker – Folie à deux”. Non posso essere filologico, ma solo impressionistico. Sono stato travolto infatti da un’opera d’arte di sconvolgente fattura e di abissali profondità. Non avrei mai immaginato. Mi ero mosso sulla scorta di un giudizio a sorpresa, quello di Francis Ford Coppola, che tramite social oggi questo diceva: il nuovo “Joker” è un capolavoro. Però Coppola ha in ballo in questo momento un estremamente liberatorio duello con critica pseudospettacolare e anche pseudomercantilista, visto che non sa cosa sia lo spettacolo e tantomeno il fatto che il mercato, con la progettazione e la realizzazione del capolavoro, c’entra assai poco. Tanto che il vegliardo cineasta si è autoprodotto il suo sogno cinematografico, “Megalopolis”, ovunque stroncato tranne che sul New Yorker. Un tempo come l’attuale, che ritiene i libri di Elena Ferrante come i fondamentali del secolo in tutto il pianeta, merita che Francis Ford Coppola irrida e mandi a quel paese le comunità ormai morte o in putrefazione avanzata: critici, lavoratori del mercato produttivo e delle piattaforme, snob che pensano di stare fuori dal mercato per una purezza ingenita che sa tanto di profumo Glad mentre c’è ancora a galla la cacca e lo sciacquone non è stato tirato. Allo stesso modo, intellettuali che non sono più intellettuali, operatori della creatività meno creativa della storia umana (la creatività oggi è appannaggio delle macchine e delle matematiche), cercatoti di GOAT e di massimalismi letterari risibili e trascurabili se non avessero il conforto delle premiazioni e delle istituzioni che, premiandoli, premiano se stesse.
In pratica: la marcescenza spettacolare di chi vide e visse lo Spettacolo; e, anche, di chi fa perno, come sul “capitalismo” e il “mercato”, sulla nozione di “Spettacolo” per praticare un esercizio che non ha più alcun senso: ovvero quello critico.
Fine della critica, finalmente. Serve teoria e, insieme a questa, opera d’arte, mutando entrambe il proprio statuto ontologico.
Così come capita con “Roma” di Alfonso Cuarón o “Bardo” di Alejandro Iñárritu definiscono una forma di cinema che va oltre l’idea di forma e anche di cinema. Due capolavori, due registi geniali, che insieme ad altri, non moltissimi ma un certo qual numero, fanno patentemente arte a danno delle produzioni. Iñárritu è addirittura arrivato quasi a dichiarare l’inganno nei confronti di Netflix, che gli ha permesso l’avanguardia purissima di “Bardo”, poema sorprendente, testo cinematografico che annulla la vista e introduce a una dimensione metafisica che ha e non ha immagine al contempo.
“Joker: Folie à Deux” appartiene a questo genere di opere che, per flottanti isole di senso, lacerti sulle superfici marine più mitragliate da climi extraterrestri, UAP che ingannano la vista – per elementi che non rientrano nello spettro elementale, intendo, esse si pongono nel cinema, sporgendosi oltre la sua propria fine, senza continuarlo, ma contribuendo in modo decisivo alla persistenza non di una forma d’arte, ma tout court della forma e dell’arte.
E’ un fallimento critico ed economico privo di precedenti. I fan che fuggono incazzati, i guadagni in crollo. Un film che nasce da quell’universo di purissimo letame che ha dato vita alla comixizzazione del cinema, DC e Marvel a isolare young adult e miei coetanei che non escono dallo stato di perenne bambinizzazione, ottantizzazione, fantasyzzazione (ho 54 anni, per tutto quanto ho scritto qui sopra me ne sento addosso il decuplo; mi sento Giobbe, ma non ho la pazienza). Todd Phillips prende questa melma che da anni va statuendo la fine del cinema e la ribalta, la trasfigura, ne fa paradiso o, più precisamente, un Teatro naturale di Oklahama, all’interno del quale non resta più alcuna struttura tragica, esattamente come nell’originale, poiché la tragedia è già accaduta e lo Spettacolo è finito: e sono tutti lì, quelli dentro il film e noi fuori, a vedere la fine dello spettacolo. E’ abbacinante la consapevolezza filosofica ed estetica con cui il discorso, per salti cromatici e inabissamenti sonori e vocali per musiche e brandelli di spettacolo canoro, si fa erede del modulo tragico occidentale, dal mito di Orfeo (preposto al canto) a quello di Prometeo incatenato (preposto alla liberazione degli umani dai vincoli di schiavitù per sopravvivenza), fino a ciò che l’antagonista fumettistico di Joker stesso, ovvero Batman, non è mai riuscito a essere: l’eroe di un mito che attraversa l’epica e culmina in tragedia. Batman è tutt’al più parodistico di tanto umanesimo.
Surclassati come mai prima i piccoli eventi di questo universo made in USA, da Disney a Watchman, “Joker: Folie à Deux” lancia dal titolo la sua sfida, che è ancora semantica, è ancora segnica, è ancora simbolica – non essendo già più nulla di tutto questo. “Joker: Folie à Deux”: follia a due di Joker e della non bellissima innamorata? Sarebbero Phoenix e Gaga la coppia in questione? O sono io, lo spettatore, che corroboro l’esistenza immaginale (la quale è tutt’altro che immortale) di un personaggio che, pure, è doppiamente tale e folle: Arthur Fleck è comico, Joker è comico che ride del mondo, della follia del mondo – e la pratica. Ho detto follia? A due? A tre? A milioni che votano Trump ed entrano nella fantasyzzazione del MAGA o di QAnon? Poiché questo caos nichilista, che il crimine del Joker autorizza ad assediare l’istituzione (in questo caso il tribunale), fino a farla esplodere (non siamo nemmeno certi che la responsabilità dell’esplosione sia attribuibile davvero a Lee), è l’elemento politico che sta governando ciò che una volta fu la politica, sia l’interna sia quella internazionale. Il contagio caotico imposto da “Joker: Folie à Deux” passa per frammenti giganteschi di spettacolo, memorabili interpretazioni canore rallentate ad arte, in cui testi abominevoli per semplicismo assumono una valenza poetica potente e profetica. Non è un musical, non c’entra nulla con il musical. Non c’entra con Batman, coi comics, con i supereroi. Schifa le legioni di fan, che si trovano di fronte un’opera talmente tragica da introdurci all’incubo di una “Matrix” ad usum delphini: chi verrà dopo di noi vedrà.
Definire ciclopica l’interpretazione di Joaquin Phoenix o, meglio, dei vari Joaquin Phoenix sarebbe diminuire ciò che si vede e non si vede, ciò che si ascolta e si finisce per non ascoltare più, mentre gli schermi si spaccano ma restano accesi. Addirittura lo spettacolino della storia, questa tragedia troppo piccola per essere ricordata per sempre, ci appare nel rutilante rotolare di macerie in cui avviene tutto quanto avviene (e cosa avviene? Avviene questo: si muore): c’è un’inquadratura che cita il crollo delle Twin Towers, ventitré anni di illusione a pensare che fosse storia insuperabile, quella – che fosse l’acme del massacro, quando il massacro era ovunque e si trattava di massacrare soprattutto il tempo, per massacrare così l’intera umanità che ci vive dentro. L’esplosione in contemporanea di 5mila cercapersone è più prossima a questa qualità anestetica che, come si era pensato e detto, a una forma di arte del terrore. Chi sostenne che l’11 settembre era simile a un’opera d’arte non aveva capito il tempo, l’opera e l’arte. Noi dobbiamo sbrigarci, qui, tra tramezzi devastati dalle deflagrazioni, capitali frammentati, capitali frammentate, a devastare altro che non sia l’amore, oggi immaginario e nella follia a due di Joker continuamente messo alla prova dell’esibizione, dell’intrattenimento, della psicosi che è lo spettacolo ma anche di quella psicosi che è la realtà.
E il probabile, il coerente: che fine hanno fatto? Mamma mia, la narrazione è devastata! Lo aveva già scritto cento anni fa il poeta Wallace Stevens. Prima di lui, lo aveva inverato la coppia Walser/Kafka. Ma mai come avremmo immaginato: e invece ora ci tocca viverlo.
La trama è andata a marcire i propri budelli vaiolosi, nel ributtante trogolo in cui era nata tra feci e placente livide. Ci si può sempre godere, per riempire il vuoto ed elaborare il trauma, la lettura di un dark romance o di un romanzo italiano premiato o in classifica. Si possono guardare le copertine: ci sono grafici contemporanei!
Altrove, rispetto a queste supposte narrazioni, il femminile e il maschile non avranno più senso, almeno quanto l’accoppiata che fa tutta la poetica di “Joker: Folie à Deux”: non c’è più né vero né falso né considerazione che il vero è un momento del falso o viceversa. Il grandioso, ridotto in polvere e in granuli di rovina, sostituisce il bello e il brutto, così come si apprese dalla perennità della lezione tragica. L’eroe è inoltre qui il deus ex machina. Edipo muore, era già morto. Giocasta ha già dato nella prima parte di questa dilogia, che con questo secondo momento entra di diritto nei cieli dell’arte, per solcarli, senza lascire traccia. Ogni luogo spettacolare viene fatto brillare (nella speranza che si capisca l’anfibolia), dal set televisivo all’esistenza di chiunque, dal carcere che dovrebbe nascondere l’indegno spettacolo all’aula di tribunale in cui si porta all’apice quel momento spettacolare che è la finta verità e l’ingiusta giustizia, dal bacio al fumetto, dalla prosa alla poesia.
Uscito dal cinema ho dovuto sopportare le proteste urbane e modeste della totalità degli spettatori. Uno mi ha colpito, un giovane che non si rende conto di essere benestante e si lamenta con cadenza da milanese imbellito che “persino Brendan Gleeson, la guardia carceraria, ha un personaggio che non è neanche stato scritto”. Infatti. E meno male.
Io non so se consigliare la visione di “Joker: Folie à Deux”. Non so più nemmeno se è mio compito di scrittore e intellettuale. Ciò che posso dire è che ho visto un capolavoro che mi introduce a un tempo senza tempo, in cui però il tempo avanza, psicoticamente avanza, per noi psicosi simmetriche su due gambe, con i piccoli spilli delle nostre sinapsi più a rischio che mai.
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