Alessandro Bergonzoni: “Arrivano i Dunque”

Il grande artista, già in mostra a Milano alla galleria Mudima con le installazioni “Vite sospese” (insieme a un’opera di Bill Viola), ha portato il nuovo spettacolo sul palco dell’Elfo e il suo linguaggio all’impossibilità di un ritorno a qualsiasi delle sue origini – perché non c’è nessuna origine, ma soltanto il continuo *a venire*, che è la formula di teologia poetica di questo polimorfo protagonista del Decimo Cielo, quello che Dante non aveva messo in conto.

Per avvicinare le molte opere viventi, sempre viventi, di Alessandro Bergonzoni in forma di spettacolo (spettacolo, poi: che spettacolo è?, cosa si spettacolarizza?, staremmo assistendo a cosa? Avremmo assistito a Bergonzoni stesso? Bergonzoni ha bisogno che lo si assista? Un umano che da decenni si mostra sempre solo sul palco: qualcuno lo assisterà pure, ma non siamo certo noi, noi che siamo assistiti da lui, piuttosto: perché la sua è arte e dunque anche una peculiare e non istituzionalizzata di terapia, sotto le vesti della domanda) – per avvicinare queste opere viventi sul palcoscenico, dicevo, nel tempo che fu, e sto parlando dei primi anni Novanta del secolo scorso, la questione della parola, intesa come abilità linguistica, era cruciale e quasi ineludibile per accostare Bergonzoni. Da lì nacque un equivoco, che i successivi trent’anni di carriera artistica hanno smentito, con un rigore che, se bene percepito, aveva più a che fare coi rigori del gelo che del metodo; o forse con entrambi, perché, a mano a mano che Bergonzoni progrediva nelle scritture delle sue apparizioni, emergeva solidamente la meccanica della morte tragica, la geometria della linea spezzata. Spezzata come la matita dei bambini (“piccoli Bambi”) mentre fanno il tema e non possono più andare avanti nel foglio protocollo. Foglio protocollo, ma anche protocollato? Sì, anche, perché sono state le istituzioni protocollari e dittatoriali della parola e dell’azione l’oggetto del fronte eversivo scatenato da Bergonzoni. Prima poteva sembrare che fosse il linguaggio l’arma di questo gioioso “terrosismo meno la t”, cioè errorismo, equivoco infinito, varianza e scarto sillabico e di accento e di significato; poi l’errorismo praticato contro i protocolli hanno incominciato a sembrare le immagini implicate dal linguaggio, cioè le situazioni narrate e interpretate, ovvero il processo di sviluppo, quello che a un certo punto fu scambiato chissà perché per “surrealismo” – chirurghi che operano pazienti da un balcone all’ottavo piano di un condominio impossibile che può essere mai se non un nonsense?, si chiedevano gli ingenui che ritenevano di possedere il sense, di averlo in banca, sotto chiave, di non farlo girare per il mondo ma di accumularne sempre più; poi la rivoluzione di Bergonzoni contro i protocolli ha preso un aspetto sempre più realistico, che è quello della tragedia politica perenne, a cui il mondo è sottoposto senza posa, e l’antica pietas per i patologizzati da miseria e violenza e destino infausto è divenuta denuncia ineludibile, rigorosa appunto; infine il linguaggio ha incominciato a saltare, il lallare ha devastato ogni evoluzione o devoluzione di parola in sillaba in sintassi in silenzio, il significato ha salutato il senso e qualcosa che definirei “vaga mistica tragica” è emerso come sintesi di luce ombra e tenebra, mezzocielo da cui l’occhio d’Iddio non può guardare la vista stessa, insufficienza e abbattimento della gerarchia papalina e cardinalizia prima e ora addirittura divina. Un percorso a climax ha condotto Bergonzoni e le sue opere nell’alto cuore del tragico. Gli spettatori e le spettatrici non hanno mai smesso un attimo di ridere (questo per me era tragico), quando l’artista bolognese scatenava i suoi corpi nell’atletica e nella funambolica più antagoniste delle leggi fisiche che uno sguardo attento potesse mai cogliere. Parlo del corpo linguistico, di quello fisico, di quello emotivo, di quello spirituale. Non è questo dunque un teatro della crudeltà? Non intendo la possibile vicenda critica circa cosa abbia a che fare con Artaud un artista che gioca infinitamente sull’anfibolia tra “a vicenda” e “a Vicenza”. Già questo definirebbe grassa la risata che ne viene scatenata e però, come in Mandel’stam, tutto ciò che è grasso rischia di essere staliniano e denunciarlo merita la pena di morte.

Ora è arrivato il momento: siccome Bergonzoni è un uomo dalle infinite energie e fatica sempre a sentirsi stanco, anziché arrivare al dunque e fare il passo che il destino riserva agli autori tragici, ha fatto in modo che i Dunque arrivassero a lui. Il nuovo spettacolo (con coregia di Riccardo Rodolfi) si intitola di fatto così. I Dunque sono maiuscoli: non è qualcosa che possa essere ignorato. E nemmeno è evocato un Dunque unico, cioè quell’unico passo o quella unica scelta che il fato mette di fronte all’eroe tragico. I Dunque: molti, moltissimi Dunque, universi decisivi, erta dura per esattori delle masse. Religioni alternative sono costrette a istituirsi da un momento all’altro (il “ganglicanesimo” professato da Bergonzoni) e a crollare perché ormai, a fare una domanda e una preghiera o a emettere un simbolo, non si capisce più non tanto se sia Dio che non risponde o che a non rispondere sia io, cioè noi tutti, nell’abbattimento di sense che, con tutti gli accumuli sotto chiave che ne hanno fatto, circola davvero pochino sul pianeta, ormai.

Cominciamo dall’inizio: esercizio di metrica ortodossa che non è detto riesca a manifestarsi in un’opera di Bergonzoni. Infatti, anche qui, in “Arrivano i Dunque”, si comincia dalla fine. Ma anche dall’inizio. Il che significa che non si comincia davvero: sta cioè continuando, non ha mai smesso. Noi lo sappiamo benissimo da dove viene, ce lo ha detto e stradetto migliaia di volte, e siamo ben edotti circa dove finirà, perché non c’è opera vivente in cui Bergonzoni non ce lo abbia anticipato.
Ma noi cominciamo dall’inizio. C’è una strana cassa lunga, detta “tavolo delle trattative”, e dietro c’è qualcuno: un uomo privo di testa. Ha le spalle visibili, muove le braccia e sbatte le mani, è seduto dietro la cassa che fa da tavolo delle trattative. Spiattella rumorosamente sul piano della tavola alcuni libri. Uno, due, tre, quattro. Libri su libri. Non ci sarà mai un minuto secondo in cui nel monologo scompaiano i libri, che letteralmente non saranno mai più se stessi. Essi verranno riscritti dall’attore autore artista. E verranno riscritti in modo che Lacan, Hemingway e Steinbeck possano fare ciò che non hanno mai fatto: faranno finalmente ridere. Del resto è ridicolo ormai qualunque testo. I testi muteranno. Le sacralità – che tali sono anche perché producono le scritture sacre – si stanno sbriciolando, sotto il maglio di evocazioni dall’aldilà di questo medium antimortuario che è Bergonzoni.
Quando finalmente appare la testa dell’uomo, che sbatte come un enorme bambino arrabbiato i libri sul tavolo, eccolo, lo sappiamo: è lui, ne conosciamo la fisionomia, il minimalismo delle vesti (ha smesso di indossare bretelle colorate da molto tempo), la chioma argentea sarebbe motivo di dichiarazione di guerra a qualunque prussianesimo, in primis quello della realtà. A cui Bergonzoni oppone il concetto mobile e dinamico di “crealtà”, facendo un canto concitato e linguisticamente inarginabile alla circolazione di idee, sentimenti, sangue, relazione, sudore, abbraccio, pace, sorellanza, fraternità, liquidi, umori, respiri. E tutto l’eccetera che c’è. Se qualcosa il linguaggio dice, in quest’opera in cui i Dunque preparano il duro pasto a un’umanità inaridita dagli orrori che sta compiendo a ritmi sempre più veloci e a estensioni sempre più vaste, si tratta di un messaggio di pace e di amore così accorato, così spinto agli estremi del senso di essere umani, che una dolcezza infinita pervade progressivamente lo sguardo e l’ascolto di chi assiste e diviene l’assistente di Bergonzoni.
Dalla durezza, questa infinita, infinibile dolcezza.
Stilemi e pratiche delle opere del passato, da “Le balene restino sedute” in poi, qui negano la verticalità tragica del padre stilita seduto solitario sulla sua colonna in attesa di andare a Dio o che Dio venga a lui; assumono invece una abnorme estensione tragica, in cui tutta l’umanità è convocata, quindi un’orizzontalità in quanto bisogna includere tutto l’orizzonte umano e planetario, ogni vivente, ogni respirante ma anche ogni ente non organico, ogni pietra respira, ogni montagna parla, ogni albero interviene, ogni etnia diverge dal suo passato per farsi novità di giorno in giorno, per tutti i giorni *a venire*.
E l’atletica di Bergonzoni, cifra tutto sommato evidenziata con poca convinzione dalla critica che fu (nel frattempo la critica è morta), emerge in modo esplicito e verificabile alla mano, proprio perché qui si sta dicendo che l’oggetto è l’oggetto toccabile, la presenza è presente, la mistica è questo mondo qui che stiamo vivendo e che sta bruciando migliaia di bambini in questo istante: Bergonzoni lascia il palco e correndo si fa tre giri di tutto il teatro, per le scale verso le gallerie, ridiscendendo, non si sa quando riprenderà il palco, e continua a parlare marciando, e gira e gira correndo senza un affanno di respiro: il corpo è dunque finalmente il corpo. La sua slogatura è enorme. Lo avevamo capito tutti che il corpo che vedevamo straparlarci in scena era un corpo che ci parlava in altro modo? Che ci parlava dalle culle vuote, violate da ordigni ora, mentre ridiamo?

Veniamo alla fine?
Veniamoci.
Vediamoci alla fine.
Come ci vediamo alla fine? Così: che entreremo nella bara. Ci ricorderà qualcuno? Qualcuno si ricorderà di noi? Forse chi ci ha assistito negli ultimi momenti. Poi: polvere del ricordo, sterminate radure di silenzio, collassi di cieli distanti, il buio numinoso del non sapere, essere qualcosa che torna a scorrere nelle fluvialità della vita, la quale è eterna: non quella vita eterna, quella che dice il pontefice, bensì quella del verme che vive, poiché tutta la vita è eterna sempre.
Bergonzoni, auscultàti per tutto il corso dell’intero monologo alcuni rantoli e battiti da dentro il tavolo delle trattative, finalmente lo scoperchia: è una bara. Ci entra. Sporge nemmeno a mezzobusto. Resta lì, come un becchino dell’Amleto, mezzo nella fossa, mezzo nella bara. Ci sta parlando da una bara: più chiaro di così, più oscuro di così… Rantoli, battiti: ogni parossitona è sua – ma chi parla più, mentre sta morendo? Al limite, parla dopo: i morti parlano eccome, l’ingiuria lanciata da chi ora è morto raggiunge l’ingiuriato con grande mistero e inaudita potenza, specialmente quando l’ingiuria è opera d’arte, un libro, un quadro, una statua, il copione teatrale, ma non questa attuale messa in scena teatrale – che qui muore o, meglio, si autoseppellisce.
L’artista chiude il coperchio della bara. Tace. E’ tutto finito.
Sì?
E meno male che non qui non si dava verticalità.
Ogni parola morta non è muta.
La fine è la finzione, il che significa che la finzione è finita.
Io sono finito.
Comincia la vita di una finzione che è vera. Ciò presuppone che la forma spettacolo, e dico esattamente quello di Bergonzoni, sarà rivoluzionata.


PS. Per tutto questo che ho visto e ho detto, bisognava avere partecipato all’esposizione “Vite sospese” a Mudima, con le due installazioni di Bergonzoni, intrecciate insieme alla proiezione a loop di “Reflecting pool” di Bill Viola. Nascita morte omicidio parto devastazione urlo silenzio ricomposizione e, soprattutto, ripetizione, infinita, infinità: culle Chicco vuote, a decine, sul pavimento, una accanto all’altra, sterminatamente, come piccole bare, in cui si devono infilare i piedi, bisogna calpestarle, violarle, sporcarle, è terribile, non si riesce, bisogna metterci i piedi sozzi per potere girare l’angolo e vedere Bill Viola. Al piano sottostante, sul soffitto, in corrispondenza alle culle, spade da quattro chili l’una, pendenti di punta sul pubblico, crocefissi per nulla invertiti, ordigni che sembrano innescati come piccole vendette dagli infanti che non ci sono, al piano superiore.
La sospensione è la forma della finzione vera, in cui questo immenso artista, Alessandro Bergonzoni, sta per portarci in un modo rinnovato e ripetuto.


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