Il filosofo Jacques Rancière sul cinema di Béla Tarr


Nel 2011, alla vigilia del diniego assoluto del cineasta ungherese Béla Tarr di lavorare a un ulteriore film, dopo la produzione de “Il cavallo di Torino”, il filosofo Jacques Rancière, uno dei massimi filosofi del nostro tempo, pubblicava uno straordinario saggio sull’opera totale del regista, dal titolo “Béla Tarr, le temps d’après”. Di seguito, un brano da quel saggio e un video di una conversazione pubblica tenutasi nel 2017 tra Rancière e Béla Tarr.

di JACQUES RANCIÈRE

IL CERCHIO CHIUSO, APERTO
Da “Perdizione” alle “Armonie Werckmeister”, Béla Tarr avrà costruito un sistema coerente, mettendo in atto procedure formali che costituiscono davvero uno stile nel senso flaubertiano del termine: un “modo assoluto di vedere”, una visione del mondo che diventa creazione di un mondo sensibile autonomo. Non ci sono soggetti, dice il romanziere. Non ci sono storie, dice il cineasta. Sono tutte raccontate nell’Antico Testamento. Storie di attese che si rivelano essere bugie. Attendiamo colui che non arriverà mai, ma al suo posto verranno ogni sorta di falsi messia. E colui che arriverà tra i suoi non sarà riconosciuto da loro. Irimias e Janos di “Sátántangó” sono sufficienti per riassumere l’alternativa. Le storie sono storie di bugiardi e di ingenui, perché le storie stesse sono bugie. Ci portano a credere che qualcosa di ciò che abbiamo atteso sia accaduto. La promessa comunista era solo una variazione di questa bugia molto più antica. È per questo che è inutile credere che il mondo diventerà ragionevole se continuiamo a insistere sui crimini degli ultimi bugiardi, ma è anche grottesco insistere sul fatto che d’ora in poi viviamo in un mondo senza illusione. Il tempo dopo non è né quello della ragione recuperata, né quello del disastro atteso. È il tempo dopo tutte le storie, il tempo in cui ci si interessa direttamente alla sostanza sensibile in cui queste storie hanno trovato le loro scorciatoie tra fini proiettati e realizzati. Non è il tempo in cui creiamo belle frasi o inquadrature per compensare il vuoto di ogni attesa. È il tempo in cui ci si interessa all’attesa stessa. Attraverso il vetro di una finestra, in un piccolo paese della Normandia o nella pianura ungherese, il mondo lentamente si fissa in uno sguardo, si incide su un volto, grava sulla postura di un corpo, modella i suoi gesti e produce quella parte del corpo chiamata anima: una divergenza intima tra due attese: l’attesa del medesimo, l’abitudine alla ripetizione, e l’attesa dell’ignoto, del cammino che porta verso un’altra vita. Dall’altra parte della finestra ci sono i luoghi chiusi in cui corpi e anime coesistono, dove queste piccole monadi, plasmate da comportamenti acquisiti e sogni ostinati, si incontrano, si ignorano, si riuniscono o si oppongono attorno a bicchieri che simultaneamente allontanano la noia e la confermano, attorno a canzoni che si deliziano nel dire che tutto è finito, attorno a melodie di fisarmonica che portano tristezza facendo impazzire, attorno a parole che promettono El Dorado e che fanno conoscere la loro menzogna nella stessa promessa. Questo non ha veramente né inizio né fine, solo finestre attraverso cui il mondo penetra, porte attraverso cui i personaggi entrano ed escono, tavoli dove si riuniscono, partizioni che li separano, vetri attraverso cui si osservano, luci al neon che li illuminano, specchi che li riflettono, stufe dove la luce danza… Un continuum al cui interno gli eventi del mondo materiale diventano affetti, sono racchiusi in volti silenziosi o circolano in parole.
È la letteratura a inventare per prima luoghi di questo tipo, mentre si inventa stessa, scoprendo che, con il tempo delle frasi e dei capitoli, c’era di più da fare che semplicemente cantare i passi attraverso i quali gli individui raggiungono i loro scopi: trovare ricchezza, conquistare una donna, uccidere un rivale, impadronirsi del potere. Era possibile rendere, nella sua densità, un po’ di ciò che costituiva la sostanza stessa delle loro vite: come lo spazio in esse diventasse tempo, come le cose si trasformassero in emozioni sentite, come i pensieri diventassero o inerzia o azione. In questo compito, la letteratura aveva un doppio vantaggio. Da un lato, non doveva sottoporre ciò che estraeva alla prova dello sguardo e, dall’altro, poteva superare la barriera dello sguardo, per raccontarci come il personaggio dietro la finestra ricevesse ciò che entrava attraverso di essa e come ciò influenzasse la sua vita. Poteva scrivere frasi come “tutta l’amarezza della vita sembrava essere servita nel suo piatto”, in cui il lettore assaporava l’amarezza tanto più per non essere stato obbligato a vedere il piatto. Ma nel cinema c’è un piatto e non c’è amarezza. E quando il mondo passa attraverso la finestra, arriva il momento in cui è necessario scegliere: fermare il movimento del mondo con un’inquadratura di ritorno del volto che lo ha visto, e che ora deve esprimere ciò che prova, oppure continuare il movimento a costo di ridurre la persona che ha visto a una mera massa nera, ostacolando il mondo invece di rifletterlo. Non esiste una coscienza in cui l’universo si condensi visibilmente.
E il cineasta non è lì per farsi il centro che organizza il visibile e il suo senso. Per Béla Tarr, non c’è altra opzione che passare attraverso la massa nera che ostacola l’inquadratura, lasciarla dopo aver esplorato i muri e gli oggetti della sua dimora, aspettare di sorprenderla nel momento in cui il personaggio si alzerà, lascerà la sua casa, si trasformerà in un osservatore in strada, sotto la pioggia o nel vento, un solicitatore dietro una porta, un ascoltatore dietro un bar o a un tavolo di bistrot, nel momento in cui le sue parole riverberano nello spazio con il ticchettio di un orologio, il suono delle palle da biliardo e una melodia di fisarmonica. Non c’è storia, il che significa anche: non c’è centro percettivo, solo un grande continuum fatto della congiunzione dei due modi di aspettativa, un continuum di modificazioni che sono minime rispetto al movimento normale e ripetitivo. Il compito del cineasta è costruire un certo numero di scene che permettano di percepire la tessitura di questo continuum e che portino il gioco delle due aspettative a un massimo di intensità. Il piano sequenza è l’unità fondamentale di questa costruzione perché rispetta la natura del continuum, la natura della durata vissuta in cui le aspettative si uniscono o si separano, e in cui raggruppano e oppongono esseri. Se non c’è un centro, non ci sono altri mezzi per avvicinarsi alla verità delle situazioni e di chi le vive, se non questo movimento che incessantemente va da un luogo a colui che lì attende qualcosa. Non c’è altro modo che trovare il ritmo giusto per far girare tutti gli elementi che compongono lo scenario di un luogo e per dare loro il loro potere soffocante o la loro virtualità onirica: la nudità di una stanza o le colonne e le partizioni che la punteggiano, la lebbra dei muri o il brillio dei bicchieri, la brutalità delle luci al neon o le fiamme danzanti della stufa, la pioggia che acceca le finestre o la luce di uno specchio. Béla Tarr insiste: se il montaggio, come attività distinta, ha così poca importanza nei suoi film, è perché avviene nel cuore del piano sequenza, che non cessa di variare al suo interno: in un’inquadratura, la camera passa da un primo piano di una stufa o di un ventilatore alla complessità delle interazioni per cui un bistrot funge da teatro; sale da una mano a un volto prima di abbandonare quest’ultimo per ingrandire l’inquadratura o per esplorare altri volti; attraversa zone di oscurità prima di illuminare altri corpi, ora catturati a un livello diverso. In questo modo stabilisce un’infinità di variazioni minuscule tra movimento e immobilità: carrellate che avanzano molto lentamente verso un volto, o soste inizialmente impercettibili nel movimento. Il piano sequenza può assorbire l’elemento fuori campo così come l’inquadratura di ritorno nella sua continuità. Non si tratta di passare da un’inquadratura all’altra per andare dalla fonte di una parola al suo destinatario. Quest’ultimo deve essere presente nel momento in cui la parola viene pronunciata. Ma questa presenza può essere quella della sua schiena, anche semplicemente quella del bicchiere che tiene in mano. Quanto al parlante, può guardarci in faccia, ma più spesso vediamo il suo profilo o la sua schiena, e spesso è persino il caso che le sue parole siano presenti senza che noi lo vediamo affatto. Ma non è quindi esatto parlare di voce fuori campo o della presenza dell’elemento fuori campo. La voce è lì, dissociata dal corpo a cui appartiene, ma presente nel movimento del piano sequenza e nella densità dell’atmosfera. Se appartiene al parlante e all’ascoltatore, questo è solo in quanto elementi di un paesaggio globale che abbraccia tutti gli elementi visivi o sonori del continuum. Le voci non sono attaccate a una maschera, ma a una situazione. Nel continuum del piano sequenza, ogni elemento è simultaneamente interdipendente e autonomo, ciascuno dotato di un potere uguale per interiorizzare la situazione, il che significa interiorizzare la congiunzione delle aspettative. Questo è il senso di uguaglianza proprio del cinema di Béla Tarr.

da Béla Tarr, le temps d’après, Capricci, 2011


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