Terrence Malick e il decennale di “Knight of Cups”

2015: usciva uno dei capolavori del regista di “The tree of life”. Incompreso ai tempi e, a dieci anni di distanza, ben più che profetico. Il mostruoso, che si agita nei nostri abissi di pianeta in caos e autocrazia dell’Ego, non lambisce la vita di élite duepuntozero, rappresentata dalle carte dei tarocchi al cui gioco Terrence Malick ha sottoposto l’umanità nuova.

Così nel 2015:

Misuravo ierisera come alla mente continuino a tornare a folate immagini, rappresentazioni della vita e del presente, di cui ho fatto esperienza esponendomi a un’opera cinematografica, che è “Knight of cups” di Terrence Malick. E’ un film impressionante, che può annoiare mortalmente, ma per me può diventare uno dei capostipiti di una narrazione che non smette di impressionarmi: non di interrogarmi, ma semplicemente di impressionarmi. E’ come se il regista americano mi avesse attivato recettori cerebrali in stato di latenza. La prima volta che ho visionato “KoC”Knight of Cups” mi sono chiesto se Malick fosse impazzito. A ogni scena, non tolleravo un’immagine di più. Desideravo entrare nella pellicola e prendere a calci nel sedere i protagonisti, le loro espressioni corrucciate o enfaticamente stupefatte dal nulla delle loro vite di multimiliardari. Soltanto un maoismo potrebbe salvarci da questa teatralità orrenda e decadente. E la semplice pronuncia di questo aggettivo, “decadente”, a cui mi sono sforzato di oppormi nella vita, mi fa sentire in colpa, mi schiaccia nella congerie del reazionariato, che considero un nemico, interiore ed esteriore, da tutta la vita.
Tuttavia è questo passaggio verso un’umanità astratta, che trascorre le sue giornate occidentali fottendosene della realtà e del politico, a essere oggettivamente decadente. Rispetto a quando? Rispetto a prima. Poi ho compreso quanto mi stessi sbagliando.
Le immagini del film non mi uscivano dalla mente. E non mi uscivano dalla mente, perché erano una rappresentazione della mente stessa. La mossa di Malick, geniale ancorché, a quanto sembra, generalmente incompresa a proposito della pellicola, è adeguare la narrazione a questa rarefazione angosciante a cui l’uno per cento ha accesso, ma anche all’andamento ondivago e autoreferenziale della mente che dà forma all’esistenza. La camera si muove lenta e ariosa, continuamente, l’accelerazione ha in questo movimento aereo un emblema certo e solido, qualcosa di orripilante e che tuttavia, più o meno misteriosamente, riconosciamo come una cifra nostra: ciò che chiamammo occidentale, appunto, e che digitalmente avviene ovunque, dalla Cina agli USA ai sud del mondo.
Di fatto è il teatro della mente a essere rappresentato: un palcoscenico ovunque, un palcoscenico interiorizzato, dove prende semivita una zona perturbante, che è il rapporto tra attore e personaggio: in qualche modo è ben vero che va a recitare, questa unità binaria, ovvero l’attore-personaggio; ma è fuori dalle dinamiche del copione e, al contempo, della vita vissuta da parte della persona attore. Donne su donne, storielle su storielle, un padre (la cui potenza è abnorme e ispirata alla tragedia classica), un lutto, un fratello debole, il protagonista vacuo, continuamente vacuo, che spende il tempo frequentando i penetrali alti dell’alto 1% in pieno duepuntozero, tra party e erotismi stanchi, tra finti drammi e aborti reali – e tutto ciò non è raccontato, bensì desunto dal grado di atmosfera narrativa, in cui Malick iscrive lo spettatore, un’ulteriore vacuità in rapporto con attori e ruoli.
L’espressione astratta del mondo viene a concretezza e sospensione di questo normale delirio mentale soltanto in due momenti: a contatto con la natura – il primo è un terremoto e il secondo è la contemplazione della geologia e dell’orizzonte fisico, privo di elemento umano. Tutto il resto è ciclico: si torna sempre sulla spiaggia, come in uno spot, a correre con le scarpe dentro il mare, si torna in decapottabile a prendere vento tra i capelli, si torna alle feste, si torna a urlare contro il ciclopico padre (all’interprete, Brian Dennehy, dovevano dare l’Oscar, non si ricorda una simile interpretazione nel cinema contemporaneo americano…). Si va in un vento vano, un vento della mente, in una Los Angeles mentale, mai vista, mezza “Gattaca” e mezza Zaha Hadid, un agglomerato dove la gentrificazione è assoluta, persino gli homeless sono elemento di gentrificazione.
In tutto il film non si vede un libro.
La storia arriva a folate minime e, in quanto minime, potentissime. E’ un altro modo di raccontare, è una scalata a un K2 espressivo, si sale privi di bombole di ossigeno. Il film può annoiare moltissimo. Ciò accade perché la mente, ciclica, può annoiare tantissimo: è sempre la stessa storia.
L’occidente pone il momento politico nell’accesso: alle tecnologie e alle relazioni non più umane, che prendono forma dal momento politico stesso.
L’occidente, che non ha più uno spazio elettivo ma è ovunque, pone il suo momento politico nel decesso. Nell’aspirazione all’astratto, al satellitare, al cosmo ridotto a provincia umana, a western privo di sangue o, meglio, dove il sangue è bianco, leucemico, sintetico, non più del tutto umano. [gg]

***

da Variety, Justin Chung su “Knight of Cups”

Con To the Wonder (2012) e ora Knight of Cups, oltre a un dramma ancora senza titolo e al documentario Voyage of Time in arrivo, Terrence Malick si è stabilito in una vena creativa profondamente personale e insolitamente produttiva, sebbene solo i suoi ammiratori più convinti potrebbero non trovarla carente rispetto ai suoi celebri lavori precedenti. Mancando i grandi soggetti storici di La sottile linea rossa e The New World, o le glorie cosmiche di The Tree of Life, il regista ha rivolto la sua attenzione a vagabondi attraentemente malinconici persi alla deriva nel presente, seguiti da una camera a mano inquieta e vagante che fonde visioni, ricordi, momenti privati e incontri con gli altri in un unico convulso flusso di coscienza. Guardare la realtà del nostro XXI secolo dalla prospettiva elevata di Malick (mediata ancora una volta dall’occhio superbo del direttore della fotografia Emmanuel Lubezki) è un’esperienza che stupisce e al tempo stesso lascia lievemente delusi; è come se ci incoraggiasse a osservare con nuovi occhi ciò che ci circonda quotidianamente, pur lavorando incessantemente per estrarre qualcosa di profondo dalla banalità predominante della vita moderna.

Al contempo, dato che sono pochi i registi del calibro di Malick che hanno reso un’indagine morale e spirituale così centrale nella loro opera, è difficile non lasciarsi affascinare da un film che si apre con un estratto audio da Il pellegrinaggio del cristiano (recitato da John Gielgud), per poi soffermarsi su immagini straordinariamente belle dell’aurora boreale vista dallo spazio, prima di concentrarsi sulla figura di un Christian Bale dall’aspetto trasandato che cammina in un paesaggio desertico e solitario. Un narratore (con la voce di Brian Dennehy) racconta un’antica storia di un cavaliere dell’Est mandato a Occidente dal padre in cerca di una perla magnifica, ma che beve da una coppa fatale che lo fa cadere in un sonno profondo. Possiamo tranquillamente dedurre che il personaggio di Bale (identificato come “Rick” nei titoli di coda) sia una rappresentazione moderna di quel cavaliere, un uomo di Hollywood che ha abbracciato la dolce vita e ha perso il senso di sé nel processo. “Tutti quegli anni, vivendo la vita di qualcuno che non conoscevo”, mormora Rick in uno dei tanti voiceover del film, il metodo di comunicazione preferito per questo personaggio altrimenti taciturno.

Se questo sembra un presupposto troppo semplice per un film di 118 minuti, il risultato è abbastanza vasto e audace dal punto di vista formale da catturare l’attenzione dello spettatore, guidato in parte dallo scintillio delle location di Los Angeles (aiutate dal fedele scenografo di Malick, Jack Fisk) e dal movimento dinamico della camera. Dopo un violento terremoto che scuote le fondamenta dell’appartamento di Rick a Santa Monica, ci immergiamo nei ritmi pigri della vita come lui la conosce: frammenti sensoriali di lui che sfreccia sulla 405 in una decappottabile, vaga in lotti di studio apparentemente vuoti (con apparizioni fugaci di Warner Bros. e Paramount), visita il complesso della CAA a Century City e si diverte con giovani donne affascinanti in discoteche e suite d’albergo. La musica pulsante di sottofondo in queste scene contrasta nettamente con i brani di Grieg, Chopin, Pachelbel, Debussy, Arvo Pärt e altre selezioni che riempiono la colonna sonora nello stile classico di Malick, accompagnati da una progressione ricorrente di sette note che costituisce la base della colonna sonora di Hanan Townshend, già compositore di To the Wonder.

Il titolo Knight of Cups fa riferimento esplicito a una delle carte dei tarocchi, che definisce Rick come una persona inquieta, artistica, romantica e avventurosa per temperamento. Molte delle altre figure nella vita di Rick sono presentate con i propri simboli dei tarocchi, conferendo agli eventi una struttura leggermente più ordinata ed episodica del solito. In quello che è forse il tocco più apertamente autobiografico di Malick, scopriamo che Rick ha due fratelli minori, uno dei quali è morto tragicamente giovane (e viene associato alla carta “l’Appeso”). L’altro fratello (Wes Bentley) è una figura volatile incline a sfoghi fisici ed emotivi feroci, per lo più rivolti contro il loro anziano padre (Brian Dennehy) — la cui carta dei tarocchi è “l’Eremita” — orgoglioso dei successi di Rick ma disapprovante verso lo stile di vita che conduce.

Quella vita, e in effetti il film stesso, è in gran parte consumata dai tanti incontri con donne bellissime. Se To the Wonder appariva sessualmente più esplicito rispetto alle opere precedenti del regista, allora Knight of Cups sembra spesso apertamente trasgressivo. Pur non mostrando vere scene di sesso, abbondano la nudità femminile, il suggerimento di un ménage à trois e quella che è sicuramente la prima scena di suzione erotica di dita in un’opera di Malick. Tra le donne ci sono Della (Imogen Poots), piccola e con una parrucca rosa; Karen (Teresa Palmer), una spogliarellista con cui Rick si diverte a Las Vegas; e Helen (Freida Pinto), una splendida modella che incontra per la prima volta a una festa sfarzosa con una parata di volti noti del cinema e della TV.


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