Dennis Cooper: “John, l’iniziato”

Il grande narratore e poeta americano, memorabile autore di testi come “Frisk” o “Idoli”, il golden boy della letteratura queer che scandalizzò almeno un decennio, è ormai da tempo assente dalle librerie italiane. A metà Novanta, in piena temperie AvantPop, pubblicò “Closer”, da cui l’estratto che viene qui tradotto.

da “Closer: a novel”, edito da Grove Atlantic nel 1994

JOHN
L’INIZIATO

John, 18 anni, odiava il suo viso. Se solo il suo naso fosse stato più piccolo, i suoi occhi di un marrone diverso, il labbro inferiore più sporgente… Da bambino era stato colpito in bocca con un pugno ed era stato magnifico per un paio di settimane. Sei anni prima, il punk rock aveva dato un senso alla sua vita. A John piaceva il modo in cui il punk romanticizzava la morte, e la sua estetica forniva un ottimo camuffamento. Si era tinto i capelli di un nero-bluastro, indossava T-shirt strappate, si spalmava il mascara sugli occhi e fissava i pavimenti della scuola come fossero schermi cinematografici. Non si era mai sentito così a suo agio con se stesso.
Oggigiorno il punk annoiava i suoi compagni di scuola. John continuava a seguirne lo stile, ma gli insulti e l’indifferenza minacciavano di distruggere la sua nuova sicurezza. Un pomeriggio tornò a casa facendo l’autostop, prese carta e matita e scrisse le sue opzioni. “Farsi dei nemici.” Il problema era che si era sempre sentito indifferente verso le persone. “Terapia.” Questo avrebbe significato che era senza speranza. “Arte.” Basandosi su qualche scarabocchio fatto da bambino, che sua madre aveva elogiato entusiasta, si iscrisse a un corso di disegno dal vero.
L’insegnante di John ne fu piuttosto impressionato.
Annunciò alla classe che il suo “lavoro” era “unico” e lo paragonò a “brillanti schizzi della polizia.” John sapeva che era solo un’ipotesi, ma l’attenzione era proprio ciò di cui aveva bisogno, quindi si rifiutò di confermare o smentire qualsiasi interpretazione, per quanto stupida fosse. Era la tattica che le sue band preferite avevano sempre usato per restare cool. Funzionò. Dopo la scuola, gli studenti si accalcavano attorno a lui, lasciando intendere che non gli sarebbe dispiaciuto posare per lui quando avesse avuto un momento libero.
Non aveva tempo per disegnare tutti, ma essere selettivo significava scegliere un obiettivo artistico. John non riusciva a farlo. Non sapeva nemmeno cosa stesse facendo. Finì per selezionare gli studenti più belli perché era divertente deturparli ed era piuttosto facile prenderli in giro. Bastava dire con noncuranza che forse stava rappresentando il tormento nascosto dietro il loro aspetto, e loro fissavano i suoi scarabocchi come se stessero vedendo Dio o un UFO.

Un pomeriggio un ragazzo di seconda chiamato George Miles si sedette nella camera di John e cercò di non sbattere le palpebre. Era carino, forse anche un po’ troppo, quando lo si vedeva in mensa. Ma da vicino tremava e si agitava così tanto da far pensare a John a un ologramma mal sintonizzato. John cercò di disegnarlo, ma George era già rovinato senza il suo aiuto. “Gli scatto una Polaroid,” pensò, “nel caso un giorno diventi un fotografo.” Mentre prendeva la macchina fotografica, notò il letto. Nessun rullino. “Senti, ho un’altra idea,” disse.
A letto, George chiuse gli occhi, si lasciò andare e fece una specie di gemito, il che per John andava benissimo. Aveva fatto sesso solo un paio di volte: una in piedi in un bagno pubblico, l’altra con un tizio sui cinquanta che aveva fatto tutto il lavoro mentre lui si teneva aperto. Con George come oggetto di scena, provò diverse posizioni viste in un film porno. Fece molti errori, come impiegare un’eternità per avere un’erezione abbastanza dura da penetrarlo, ma se George se ne accorse o gli importò, non lo lasciò trasparire.
La mattina dopo, l’insegnante di disegno di John gli chiese di restare dopo la lezione, aspettò che la classe si svuotasse e poi annunciò che, sebbene John “giustamente” lasciasse che la sua “arte profonda” parlasse da sola, avrebbe potuto usare l’assemblea scolastica imminente per “contribuire a illuminare” il pubblico. John si irrigidì. “No, col cavolo,” pensò. “Come dice la rockstar Bob Dylan,” concluse l’insegnante, guardando i vestiti di John, “perché non ‘scavare uno sguardo nella fossa di ciò che ognuno significa’? Contarà come un test.”
Essere punk provocò in John un lieve senso di colpa. Il punk aveva epurato un sacco di stronzate pretenziose dalla cultura americana e, sebbene John sospettasse che il suo lavoro fosse per il novanta per cento spazzatura pretenziosa, cercò di prendere la citazione sul serio, nonostante il suo autore fosse ormai superato. Accettò di tenere il discorso, poi passò un mese a prendere appunti e a riscriverli finché non gli sembrarono più imbarazzanti. All’alba del giorno dell’assemblea masticava una matita cercando di leggere ciò che aveva scritto.
“Il punk ci ordina di demistificare ogni cosa nel mondo, altrimenti saremo condannati a un futuro così decadente che le bombe atomiche sembreranno solo un altro dopobarba, e così via. Quello che sembra piacervi nei miei disegni è il modo in cui rivelano il lato oscuro, o come lo si chiama, di persone che non pensereste fossero particolarmente rovinate. Ma dovreste sapere che il vero obiettivo del mio lavoro è una cosa tipo Dorian Gray. Vi rendo orribili, e io inizio a sembrare davvero figo.”

Quella sera, si trovò davanti al pubblico della scuola mentre le diapositive dei suoi ritratti venivano proiettate su uno schermo gigante sopra la sua testa. Aveva in programma di parlare dopo la tredicesima immagine. Osservando il pubblico, per lo più annoiato, non poté fare a meno di distinguere alcuni ragazzi che aveva già ritratto o che intendeva ritrarre, sparsi tra le facce dimenticabili. Rilesse il discorso, gli sembrò che suonasse troppo come se non sapesse cosa stesse dicendo, afferrò il microfono e sbottò: “I miei ritratti parlano da soli.”
Dopo, la maggior parte degli insegnanti lo evitò. Cinque studenti gli strinsero la mano. Pianificò un paio di sedute, poi gettò il suo discorso nel cestino. Si fece una canna e si chiese cosa il suo lavoro potesse effettivamente dire se, per miracolo, potesse parlare, quando si imbatté in George che vomitava in un bagno. “Che te ne è parso del mio discorso?” chiese John. “Non ci sono andato,” rispose George, guardando il pasticcio che aveva fatto. “Non voglio sapere di cosa parla il tuo lavoro.”
John comprò l’ultimo numero di Art News, fece l’autostop per tornare a casa e si lanciò sul letto. Sfogliò le immagini, lesse qualche recensione sparsa. L’unico nome che riconobbe fu quello di Carl Andre, a causa di una scena leggermente imbarazzante avvenuta al museo cittadino tre mesi prima. John era entrato nella sezione di arte moderna, aveva visto un mucchio di quadrati metallici sul pavimento e aveva chiesto alla guardia quando sarebbe stata completata l’installazione. Gli era stato detto in modo brusco che il pavimento era l’opera d’arte di quell’uomo.
Forse, se fosse stato una specie di provocazione punk anti-arte, gli sarebbe piaciuto. Ma un critico parlava di “classicismo”. “Neanche per idea.” John saltò avanti di qualche decina di pagine. In ogni caso preferiva le pubblicità agli articoli. Con quelle poteva trarre le sue conclusioni. Guardò l’inserzione di un dipinto color vomito che raffigurava la testa di un ragazzino. “Questo artista odiava così tanto la sua infanzia” rifletté John, “che gli viene da vomitare.” Sussultò quando notò il titolo dell’opera scritto in piccolo: Giona e la balena.
Ci aveva azzeccato. Era la prima volta che ricordasse di aver capito qualcosa riguardo all’arte, e la cosa lo scosse un po’. Certo, poteva essere solo un colpo di fortuna, ma se non lo era? Se stava iniziando a comprendere l’arte, significava che forse poteva capire anche cosa voleva fare della propria vita. E se questo rovinava il suo lavoro? E se i suoi disegni non fossero altro che un modo per incanalare la sua confusione, e una volta realizzato questo non avesse più ispirazione, proprio come gli erano svaniti i sogni d’infanzia su moglie e figli?
John notò la parola YOU, scritta in lettere maiuscole così grandi e blu da sembrare una sorta di convocazione divina. Era solo una pubblicità della School of New American Art, che offriva critiche ai giovani artisti disposti a inviare un campione del proprio lavoro, cinquanta dollari e una busta preaffrancata. John fissò la parola per un po’, poi decise che tanto valeva provare. Prese una manciata dei suoi disegni, ne scelse alcuni di George, si intrufolò nella camera dei genitori e rubò qualche soldo dal cassetto dove tenevano i fondi di emergenza.

L’unico evento degno di nota del mese successivo accadde di giovedì. John aveva tenuto d’occhio per tutto l’anno un certo ragazzo del primo anno. Il suo volto era cherubico, meticoloso, come se fosse stato concepito da un computer, ma per il resto era un disastro. Parlava da solo, vagava in uno stato di trance ipnotica, diceva di essere una popstar, e così via. David aveva su John lo stesso effetto destabilizzante che gli dava di solito George durante il sesso, o che quel punk gli aveva dato mentre lo stava mordendo. Ma, in attesa di un riscontro dagli esperti, John cercò di non lasciarsi prendere troppo la mano.
Quel giorno si trovarono fianco a fianco al bagno, davanti allo stesso orinatoio. John era così agitato che non riusciva a pisciare. Anche da pochi centimetri di distanza, David era uno di quei ragazzi così belli che la loro pelle sembrava plastica o caramella. Era del tutto ignaro di lui e passò quei pochi secondi preziosi parlando al muro dietro l’orinatoio, borbottando che qualcuno lo stava seguendo. John dovette trattenersi dal rispondere, non che sapesse cosa dire. Non riusciva a decidere se voleva disegnare David, scoparselo, picchiarlo o innamorarsene.
Sulla via di casa John fece una deviazione per passare attraverso un parco. I soliti fantasmi di se stessi lanciavano palle al rallentatore lungo corridoi segnati sul prato. Le palle si fermavano ovunque. I vecchi applaudivano con voci sgangherate. Usando i libri come cuscino, si sdraiò sulla schiena e guardò le nuvole muoversi per un po’. Era contento che nessuno che conosceva fosse nei paraggi, visto che doveva ammettere che il cielo gli sembrava stranamente rasserenante, nonostante i cliché accumulati lassù nel corso dei secoli.
Lasciò la mente vagare. La sensazione era un po’ come essere inseguiti nel buio da una folla, o inseguire una folla che si era dispersa in direzioni diverse. Chiuse gli occhi e forse si addormentò a metà, non ne era sicuro. Quando li riaprì, aveva dimenticato cosa stava sognando. Era buio. Si rialzò. All’uscita del parco pisciò sui piedi di una statua di qualche eroe di guerra ormai dimenticato, un uomo di granito coperto di merda d’uccello.
Quella sera stava disegnando un ragazzo di nome Simon, la cui testa aveva la forma di un grande bicchiere di latte con sopra un ciuffo di terra marrone, occhi gessosi e la bocca di un pesce. Forse era stato il sonnellino, ma non riusciva a concentrarsi. Fumarono una canna, poi bevvero una birra, ma ancora niente. John accompagnò Simon alla porta di casa inventando scuse a caso, nessuna delle quali aveva molto senso. Mentre si salutavano, sua madre si avvicinò con una lettera in mano. “E pulisci la tua stanza,” disse.
La lettera era una pagina dattiloscritta, con interlinea singola. Un certo Professor James qualcosa aveva apprezzato i suoi disegni. Diceva alcune cose che John non capiva del tutto su “barcamenarsi tra confusione e realismo spietato”, su “una matita passivo-aggressiva” e sul fatto che i disegni erano “ovvie immagini speculari dell’artista”, e chiudeva con parole di incoraggiamento generiche. John corse al telefono, compose il numero di George e poi riattaccò. “Ma che cazzo sto facendo?” pensò. Invece, corse nella sua stanza, chiuse la porta a chiave e urlò: “Fantastico!”


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