Valerio Magrelli: da “Nature e venature”

Uscì nel 1987 e si aggiudicò il prestigioso Premio Viareggio la seconda raccolta di Valerio Magrelli, “Nature e venature” (Mondadori), che seguiva l’esordio folgorante del 1980, “Ora serrata retinae” (Feltrinelli). Viene in questo secondo libro precisandosi una poetica dello sguardo, del metalivello (lo sguardo che guarda lo sguardo) e di una fenomenologia eminentemente letteraria, che attraversa miti dell’autore (Valéry sopra tutti), grazie a cui si declina il verso a ritmi controllati, a pulizia formale, a tersità dell’indagine intellettuale sull’intelletto stesso. Distante da attivazioni vibrantemente platoniche e, sul piano stilistico, da qualsiasi tentazione espressionista, Magrelli sembra preferire l’iperuranio al suo ideatore, per lasciare non piegata con forze estranee la parola, che del mondo è parte, ma parte dissecatrice, geometrica, sigiziale. Un’esperienza, quella di “Nature e venature” che confermò negli anni Ottanta il percorso che, coinvolgendo poeti come Cucchi e De Angelis e la nouvelle vague poetica italiana di fine Settanta, mostra intatto alla nostra lettura un panorama di qualità elevatissima.

Rosebud

Non pretendo di dire la parola
che scoccata dal cuore traversi
le dodici scuri forate
fino a forare il cuore del pretendente.
Io traccio il mio bersaglio 
intorno all’oggetto colpito,
io non colgo nel segno ma segno
ciò che colgo, baro,
scelgo il mio centro dopo il tiro
e come con un’arma difettosa 
di cui conosco ormai
lo scarto, adesso
miro alla mira.

*

Qui sto senza paesaggio,
pere, mele, stagioni, cielo, niente,
soltanto suppellettili, una campagna
fatta ad artificio. Ma già  da piccolo
per gioco stendevo una coperta
nella stanza, sopra mucchi di carta,
ed era un panorama,
una salma di monti.
Di tutto ciò qualcosa resta,
adesso, che scrivo a letto,
che io faccio la terra.

*

Antaura era il nome neoplatonico del
maledetto e diabolico demone dell’emicrania.
A.A. Barb

L’emicrania si aprossima, rullano
i tamburi, dalla parte di sotto,
dall’emisfero notturno.
Spuntano le tribú,
le sue costellazioni
montano, piumata coda
della bestia inferiore.
Salgono su dal basso, appaiono
mentre la terra risuona dall’interno
percossa e cava, vivente
timpano.

*

Se per chiamarti devo fare un numero
tu ti trasformi in numero,
disponi i lineamenti
nella combinazione a cui rispondi.
Il tre che si ripete,
il nove al terzo posto,
indicano qualcosa del tuo volto.
Quando ti cerco
devo disegnare la tua figura,
devo fare nascere le sette cifre
analoghe al tuo nome
finché non si dischiuda la cassa.
forte della viva voce.

*

Di colpo, mentre sto telefonando,
l’interferenza altera il dialogo,
lo moltiplica, apre una prospettiva
dentro lo spazio buio
dell’udito.
Mi vedo verticale, sonnambolico,
in bilico su una fuga di voci
gemelle, allacciate una all’altra,
sorprese nel contatto.
Sento la lingua della bestia ctònia,
l’orrida treccia di parole, frasi, il mostro
policefalo e difforme che chiama me
dalle profondità.

*

Amo i gesti imprecisi,
uno che inciampa, l’altro
che fa urtare il bicchiere,
quello che non ricorda,
chi è distratto, la sentinella
che non sa arrestare il battito
breve delle palpebre,
mi stanno a cuore
perché vedo in loro il tremore,
il tintinnio familiare
del meccanismo rotto.
L’oggetto intatto tace, non ha voce
ma solo movimento. Qui invece
ha ceduto il congegno,
il gioco delle parti,
un pezzo si separa,
si annuncia.
Dentro qualcosa balla.

*

Io cammino fumando
e dopo ogni boccata
attraverso il mio fumo
e sto dove non stavo
dove prima soffiavo.

*

Non tutto è perduto
se un anno ogni quattro
perfino il calendario gregoriano
prepara un’offerta residua.
La premurosa eccedenza del tempo
va intesa come norma di natura
cenno della cautela che promette
ad ogni cosa un dono bisestile.

*

Passato qualche tempo tutto il latte
va a male, come se andasse verso
il male, la sua cattività,
si contrae, si rapprende,
abbandona el proprio stato liquido
e inizia a farsi forma.
La sostanza rafferma
prende corpo, resuscita
in una carne nuova e compatta, estratta
dalla bestia. È cacio, metamorfosi
del secreto animale, il frutto
morto di una pianta viva,
sazia creatura pallida e lunare.

*

Se la forza di gravità,
la verticale, è la memoria
della terra che chiama
a sé le cose per ricordarle,
l’ansia è la mia memoria,
forza che non è amore
ma vocazione all’assedio.
Ne sento la pressione
incombere mentre la stretta
mi serra in una morsa
dove colpo su colpo sto
martellato ferro
battuto. Ecco l’urto
del tempo attratto su di me,
precipitante
nel battito del polso
nero, incudine
calamitata.

*

La luce della luna è lavorata ad arte,
un materia prima profilata, tornita
fino ad essere pietra
focaia, fiamma minerale,
ma fiamma fioca, morta, come l’erba
fatta crescere al buio,
la pallida, rituale veccia,
che dà il chiarore fosforescente,
freddo e subacqueo
dell’acetilene.


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