Voce e testo di uno dei massimi autori del Novecento, il poeta Paul Celan, con la sua lirica forse più celebre, dalla raccolta “Papavero e memoria” (“Mohn und Gedächtnis”, pubblicato nel 1952). La poesia è qui riprodotta nell’altrettanto celebre traduzione del ’76 a cura di Moshe Kahn. A seguire, un eccezionale saggio di Pierre Joris su vita e poesia di Celan.
Todesfuge
SCHWARZE MILCH DER FRÜHE wir trinken sie abends
wir trinken sie mittags und morgens wir trinken sie nachts
wir trinken und trinken
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
er schreibt es und tritt vor das Haus und es blitzen die Sterne
er pfeift seine Rüden herbei
er pfeift seine Juden hervor läßt schaufeln ein Grab in der Erde
er befiehlt uns spielt auf nun zum Tanz
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich morgens und mittags wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
Ein Mann wohnt im Haus der spielt mit den Schlangen der schreibt
der schreibt wenn es dunkelt nach Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
Dein aschenes Haar Sulamith
wir schaufeln ein Grab in den Lüften da liegt man nicht eng
Er ruft stecht tiefer ins Erdreich ihr einen ihr andern singet und spielt
er greift nach dem Eisen im Gurt er schwingts seine Augen sind blau
stecht tiefer die Spaten ihr einen ihr anderen spielt weiter zum Tanz auf
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags und morgens wir trinken dich abends
wir trinken und trinken
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith er spielt mit den Schlangen
Er ruft spielt süßer den Tod der Tod ist ein Meister aus Deutschland
er ruft streicht dunkler die Geigen dann steigt ihr als Rauch in die Luft
dann habt ihr ein Grab in den Wolken da liegt man nicht eng
Schwarze Milch der Frühe wir trinken dich nachts
wir trinken dich mittags der Tod ist ein Meister aus Deutschland
wir trinken dich abends und morgens wir trinken und trinken
der Tod ist ein Meister aus Deutschland sein Auge ist blau
er trifft dich mit bleierner Kugel er trifft dich genau
ein Mann wohnt im Haus dein goldenes Haar Margarete
er hetzt seine Rüden auf uns er schenkt uns ein Grab in der Luft
er spielt mit den Schlangen und träumet der Tod ist ein Meister aus
Deutschland
dein goldenes Haar Margarete
dein aschenes Haar Sulamith
FUGA DI MORTE
Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte
beviamo e beviamo
scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
lo scrive ed esce dinanzi a casa e brillano le stelle e fischia ai suoi mastini
fischia ai suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda ora suonate alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo al mattino e a mezzogiorno ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive
che scrive all’imbrunire in Germania i tuoi capelli d’oro Margarete
I tuoi capelli di cenere Sulamith scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti
Lui grida vangate più a fondo il terreno e voi e voi cantate e suonate
impugna il ferro alla cintura lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
spingete più a fondo le vanghe voi e voi continuate a suonare alla danza
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno e al mattino ti beviamo la sera
beviamo e beviamo
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith lui gioca con i serpenti
Lui grida suonate più dolce la morte la morte è un maestro tedesco
lui grida suonate più cupo i violini e salirete come fumo nell’aria
e avrete una tomba nelle nubi là non si giace stretti
Nero latte dell’alba ti beviamo la notte
ti beviamo a mezzogiorno la morte è un maestro tedesco
ti beviamo la sera e la mattina e beviamo e beviamo
la morte è un maestro tedesco il suo occhio è azzurro
ti colpisce con palla di piombo ti colpisce preciso
nella casa abita un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
aizza i suoi mastini contro di noi ci regala una tomba nell’aria
gioca con i serpenti e sogna la morte è un maestro tedesco
i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith
SU PAUL CELAN
di Pierre Joris
[The Montréal Review, dicemmbre 2024]
I. BREVE PROFILO BIOGRAFICO
La vita di Celan è indissolubilmente legata al destino del popolo ebraico nel ventesimo secolo. La Shoah è senza dubbio l’evento centrale attorno a cui ruotano sia la sua esistenza che la sua opera: egli è un sopravvissuto del Khurbn (usando la “parola antica e oscura” di Jerome Rothenberg), e la sua poesia è una testimonianza costante di quelle atrocità. Nato Paul Antschel a Czernowitz, capitale della Bucovina, nel 1920, Celan crebbe in una famiglia ebraica che insistette affinché il giovane Paul ricevesse la migliore educazione laica — con la madre che gli trasmise l’amore per la lingua e la cultura tedesca — e allo stesso tempo non trascurasse le sue radici ebree: entrambi i genitori provenivano da famiglie ortodosse, e da parte di uno dei due addirittura chassidiche. Nell’estate del 1939, tornato a Czernowitz dopo il primo anno di studi di medicina all’università di Tours in Francia, dove era entrato in contatto con la letteratura francese contemporanea, Celan iniziò a scrivere poesia e decise di studiare letteratura romanzi. L’anno successivo le truppe sovietiche occuparono la sua città natale, per essere poi sostituite da quelle rumene e tedesche naziste nel 1941. Celan fu costretto a lavorare nei campi di lavoro forzato, dove, nel tardo autunno del 1942, venne a sapere che suo padre, fisicamente distrutto dalla schiavitù, era stato ucciso dalle SS. Poco dopo, nello stesso inverno, gli giunse la notizia che anche sua madre era stata fucilata dai nazisti. Questi omicidi, in particolare quello della madre, sarebbero rimasti l’esperienza fondante della sua vita. Fu liberato un anno dopo e rimase per un altro anno all’università di Czernowitz, ormai sovietizzata. Nell’aprile 1945 lasciò per sempre la sua città natale per stabilirsi a Bucarest, dove lavorò come traduttore e continuò a scrivere poesia, in parte anche in rumeno. Nel dicembre 1947 attraversò clandestinamente il confine verso Vienna, che a sua volta lasciò nel luglio 1948 per trasferirsi a Parigi, la città che sarebbe diventata la sua casa fino alla morte per annegamento nella Senna nel tardo aprile 1970. La sua prima raccolta poetica importante, Mohn und Gedächtnis, era stata pubblicata nel 1952 e gli aveva portato immediato riconoscimento e una certa fama, in gran parte grazie a quella che sarebbe diventata una delle poesie più note e antologizzate del dopoguerra: la Todesfuge. Seguirono altre raccolte, circa una ogni tre anni (con un ritmo che si accelerò negli ultimi anni della sua vita), mentre quattro raccolte postume sono state pubblicate successivamente, insieme a due edizioni delle sue Opere complete, che includono anche tutte le traduzioni poetiche da lui realizzate in varie lingue.
II. L’OPERA
Proverò a mostrare come le difficoltà dell’opera di Celan nascano da un complesso biografico e poetologico, partendo dalla famosa Todesfuge: Celan, in quanto sopravvissuto dell’“univers concentrationnaire”, non può che testimoniare, anche se il modo di questa testimonianza differisce radicalmente da quello della maggior parte dei sopravvissuti, e allo stesso tempo si trasforma radicalmente nel corso del tempo. La poesia più celebre di Celan, la Todesfuge, è uno dei testi paradigmatici di quella che sarebbe stata chiamata letteratura dell’Olocausto. Fu scritta al più tardi all’inizio del 1945, ma probabilmente era già completata alla fine del 1944. Quando la pubblicò per la prima volta, su una rivista rumena e in traduzione rumena, la poesia si intitolava ancora Todestango. Quando la incluse nella sua prima raccolta, Sand aus den Urnen, apparve come poesia conclusiva del libro — chiaramente per marcarne il posto speciale, se non la collocazione cronologica. Per vari motivi, Celan ritirò questo libro, e quando uscì la sua prima vera raccolta (Mohn und Gedächtnis, 1952) la Todesfuge si trovava al centro, circondata da poesie per lo più successive. Sappiamo del rapporto problematico che Celan ebbe in seguito con questa poesia: per tutto gli anni Sessanta rifiutò che venisse ulteriormente antologizzata e che la leggesse in pubblico. Questo rifiuto aveva diverse ragioni: la più ovvia è che la poesia, a causa del suo stesso “successo”, era diventata un oggetto di contesa — in Germania era diventata una pedina nel cosiddetto “processo di elaborazione del passato” (Vergangenheitsbewältigung) e nei suoi abusi. Per Celan stesso, anche a causa delle dolorose accuse di plagio da parte di Claire Goll, rappresentava una sorta di ritrattazione. Inoltre, e più profondamente, credo che si trattasse di un rifiuto di essere identificato con quell’unica opera giovanile, e su almeno due livelli: prima di tutto, come uomo, come “sopravvissuto”, Celan non voleva essere ridotto a portavoce di quella che ormai veniva chiamata poesia dell’Olocausto, e resisteva a narrare o mitizzare le sue esperienze di quel periodo. Anche quella che alcuni hanno chiamato la “vergogna ontologica” del sopravvissuto gioca un ruolo importante in questo contesto. La tensione che circonda il suo rapporto con la Todesfuge può essere vista come emblematica della tensione in Celan tra due poli essenziali: da un lato il bisogno di testimoniare, dall’altro il desiderio di non parlare, nato da un profondo senso dell’impossibilità, dell’indicibilità dell’orrore della Shoah, che si manifesta in tutta la sua opera nella problematica costante e ossessiva del “Verstummen”, del cadere nel silenzio, dell’essere avvolto, pervaso da un’assenza assoluta, che mette costantemente in discussione e minaccia l’atto stesso della scrittura. Questa tensione, questa domanda sulla necessità/possibilità di testimoniare, potrebbe essere tracciata schematicamente nell’opera di Celan se si considerasse la prima parte della sua produzione come un tentativo di testimoniare, mentre l’opera tarda, a partire da Atemwende (se non già da Niemandsrose), è essenzialmente preoccupata della possibilità o impossibilità stessa di testimoniare, come una messa in discussione di quella possibilità. Il motivo per cui la Todesfuge, a differenza della poesia tarda, esercita un fascino così grande ed è così “leggibile”, è essenzialmente che la sua poetica è ancora molto tradizionale: il rapporto tra parola e mondo, tra significante e significato, non è messo in discussione. È una poesia che, in qualche modo disperatamente, crede, o vuole credere, o agisce come se credesse, nella pienezza dell’enunciazione, nella possibilità della rappresentazione. Questa pienezza del linguaggio presuppone una pienezza dell’essere, un essere che parla e in cui sia il linguaggio che ciò di cui il linguaggio parla sono fondati. A differenza di quasi tutta la successiva poesia di Celan, l’unica cosa che non viene messa in discussione nella Todesfuge è colui che parla, e il luogo da cui parla. La poesia è scritta/parlata da un “sopravvissuto” che adotta la persona di un “noi”, che parla a nome di un “noi” — il “noi” degli ebrei assassinati: “Latte nero… lo beviamo la sera, lo beviamo a mezzogiorno, lo beviamo e beviamo… Scaviamo una fossa nell’aria…”
Che i morti possano parlare, o che un “sopravvissuto” possa parlare per loro, che ci possa essere una testimonianza della loro morte, è proprio ciò che Celan metterà radicalmente in discussione. La poesia Engführung, scritta nel 1958, è in molti modi una riscrittura della Todesfuge — fino al tema musicale, poiché la parola “Engführung”, che significa stretto, deriva dal lessico tecnico della composizione fugata. In quella poesia non c’è più alcun riferimento diretto alla Shoah, non ci sono più “Maestri dalla Germania”, per esempio. La poesia inizia: “Trasportati / nel terreno / con la traccia inconfondibile: // erba scritta in disordine. Le pietre, bianche…” Non sappiamo più chi parla, a chi si rivolge; il paesaggio può essere, ed è, simultaneamente un paesaggio interiore ed esteriore. A un livello, possiamo leggere questi versi iniziali come un’indicazione della situazione del lettore che si avvicina a questa poesia difficile; a un secondo livello, è il “paesaggio interiore” della mente/psiche del poeta; a un terzo livello, è anche il paesaggio della morte dei suoi genitori, il “terreno” in cui furono “trasportati” (“ver” come in “verbrechen” — un crimine). Lo stesso vale per i versi iniziali della strofa successiva: “Il luogo dove giacciono, ha / un nome — non ha / nome. Non giacciono lì…” La problematica della poesia include, in modo non esplicito, l’Olocausto, ma in combinazione con un’altra problematica, quella del parlare, del dire stesso, e per estensione quella della possibilità della poesia stessa. La quarta strofa, per esempio, gioca sulla parola “Wort” (parola), che è la parola più spesso ripetuta e messa in discussione (per usare un termine celaniano, “heraufbeschwört”) nell’opera di Celan, e, in modo contrappuntistico, sulle parole “Asche” (cenere) e “notte”. Mentre il poeta/narratore/lettore della Todesfuge aveva la bocca piena di parole, nell’Engführung ciò che è più pienamente presente è l’assenza. Cosmicamente: “Partikelngestöber” — turbinio di particelle, che ricorda il successivo neologismo celaniano “Metapherngestöber”. L’unico luogo/oggetto a cui il poeta può rivolgere il suo parlare è la pietra: “c’era tempo, per provare con la pietra — rimase ospitale, non interruppe (ins Wort fallen)”. Questa pietra a cui ci si rivolge riappare nel verso iniziale di un’altra poesia molto discussa, Radix, Matrix (PC I 239). Quella poesia inizia: “Come si parla alla pietra, come / tu, a me dall’abisso…” La poesia, come ha affermato Werner Hamacher, “descrive la figura di un dialogo impossibile” (Hamacher 1985, 294). Il tu e l’io della poesia sono intrappolati in uno scambio senza fine e indeterminabile, cambiano posto, invertono la direzione del parlare, così che Hamacher può concludere: L’ambiguità irriducibile della formulazione di Celan — in cui l’assenza del tu sospende l’io, quella dell’io sospende il tu, e con esso il discorso stesso è sospeso — realizza a livello di composizione ciò che l’apostrofe dice del tu… che è ciò che è “nell’assenza di una notte… incontrato”. … Come si parla alla pietra, così parla la pietra: a nessuno e a nulla. (Hamacher 1985, 295-296) “La poesia — continua Hamacher — una trama di atti illocutori interrotti e mutismo, diventa così essa stessa il discorso muto di una pietra, un nulla incontrato.” Questa impossibilità di parlare — e quindi di testimoniare — è collegata nella terza strofa alla “Geschlecht” assassinata, la stirpe: “Chi / chi era, quella / stirpe, l’assassinata, quella / che sta nera nel cielo: verga e palla —?” Celan risponde a questa domanda nella strofa successiva — anche se mette la risposta tra parentesi, indicando che in qualche modo si tratta di materia estranea, non centrale alla poesia, eppure è lì, sta centralmente nella poesia, questa questione, se mi è permesso giocare sul simbolo tipografico usato da Celan, della tesi parentetica: “(Radice. / Radice di Abramo, Radice di Iesse. Di nessuno / radice — o / nostra.)” La radice degli ebrei, quella di Abramo, di Iesse, è ora, dopo la Shoah, anche “radice di nessuno”. Quel “nessuno”, quel “Niemand”, già presente nel titolo della raccolta in cui appare la poesia, Die Niemandsrose, e incontrato in molte varianti nell’opera di Celan, non è più semplicemente la figura di una semplice inversione: cioè non significa semplicemente l’assenza di qualcuno. Qui, nel Celan tardo, il linguaggio stesso, nel dichiarare, nel trasmettere, nell’agire l’impossibilità di parlare, diventa lo “stigma dell’assassinio dell’ebraismo europeo nei campi di sterminio del regime nazista”. Peter Szondi contraddisse il famoso dettame di Adorno affermando che “Dopo Auschwitz non è più possibile alcuna poesia, se non sulla base di Auschwitz”. Radix, Matrix parla da quel terreno, ma quel terreno, “Grund”, è diventato un “Abgrund”, un abisso. Il “Niemand” di Celan non è una semplice negazione, la negazione di un “qualcuno”. Piuttosto, è la possibilità dell’impossibilità della poesia stessa, e quella possibilità dell’impossibilità della poesia è l’unica possibilità che Celan concederà alla poesia dopo Auschwitz. È da quel non-luogo, da quell’abisso, che la poesia parla. È quel “Niemand” che testimonia nel verso:
“Niemand zeugt für den Zeugen”.
Nessuno testimonia per il testimone.
La poesia impossibile/possibile testimonia per il testimone. Ciò a cui Celan — in quanto “sopravvissuto”, cioè come qualcuno che dovrebbe essere morto, perché è lì dopo la morte, come qualcuno la cui vita è in sospeso, un mero supplemento della morte — porta testimonianza, è un altro modo di parlare, l’unico modo possibile dopo la Shoah.
Ma questa problematica del testimone ha un’ulteriore dimensione, che ho incontrato per la prima volta tentando di tradurre la poesia Aschenglorie hinter (PC II 72), l’ultima strofa della quale recita: Niemand zeugt für den Zeugen. Quando mi avventurai per la prima volta a tradurre questa poesia, questa frase mi sembrò semanticamente unambigua e la strofa divenne facilmente: Nessuno testimonia per il testimone. All’epoca questa formulazione mi sembrava sia diretta che estremamente significativa, racchiudendo una preoccupazione centrale nell’opera di Celan — un’opera che si può leggere come una testimonianza continua, uno sforzo durato tutta la vita per portare testimonianza agli orrori della Shoah — cioè la preoccupazione che questa tragedia potesse alla fine, già nella seconda generazione post-Shoah, andare perduta — non necessariamente perduta come semplice “dimenticanza”, ma perduta nel mero racconto, nel “mitos”, mitizzata. Addentrandomi più a fondo nell’opera di Celan, rielaborando le traduzioni di Atemwende e iniziando a tradurre le raccolte successive, divenne chiaro che il complesso zeugen/Zeuge era semanticamente molto più stratificato di quanto avessi inizialmente percepito. La parola tedesca “zeugen” ha anche il significato di “generare, procreare”, un significato mantenuto più o meno vivo nella parola inglese “testify” attraverso la sua radice latina “testis”, che si riferisce sia al “testimone” che al “testicolo” (come “testimone” della virilità). Bisogna anche tenere presente la “verga e la palla”, lo “Hode” di Radix, Matrix. Purtroppo in inglese non esiste un sinonimo di “witness” basato sul verbo “testify” (la retroformazione “testifier” suona strana ed è inutilizzabile), e rendere il verso come “nobody testifies for the witness”, pur catturando parte della ricchezza semantica del complesso “zeugen”, rovina la poetica del verso e il suo uso della ripetizione e della rima interna, uno dei dispositivi tecnici più fecondi e preferiti di Celan. Il complesso Zeugen compare solo in sei occasioni nelle poesie, ma il concetto di testimonianza è onnipresente e centrale. Al suo interno c’è quel tipico passo a due di Celan: uno sguardo indietro, uno in avanti, entrambe le azioni che avvengono nella stessa parola o nella ripetizione di quella parola. “Zeugen” è molto chiaro su questo: in Celan porta sempre il significato di guardare indietro, di portare testimonianza per i Morti, quegli eterni “loro” delle sue poesie, ma allo stesso tempo guarda in avanti, in questo caso con disperazione e oscurità, e “zeugt” genera il futuro o almeno il presente — la poesia.
III. LA MACCHINA DA GUERRA NOMADE
La vita di Celan, tracciata nello spazio, descrive un movimento di accerchiamento della Germania, originando da Czernowitz e spostandosi attraverso Bucarest e Vienna fino a Parigi, con una dozzina o poco più di rapide, brevi incursioni oltre i confini in quel paese per letture e incontri con pochi amici e alcuni nemici (Heidegger). I veri amici o alleati che Celan ebbe erano in realtà posizionati strategicamente su quei “meridiani” che lui stesso non poteva occupare e che contribuivano ad accerchiare la Germania: Osip Mandel’štam in Russia e Nelly Sachs in Svezia. (Il suo unico viaggio all’estero fu nel 1969 in Israele — un evento felice, anche se forse non sufficiente a spezzare il cerchio delle rappresaglie che fu la sua vita). Uso la metafora militare con cognizione di causa, perché mi sembra che nella vita di Celan non ci fosse tanto il desiderio di assalire la Germania e vendicare la morte dei genitori (o piuttosto della madre, come diventerà chiaro), quanto almeno un costante, inesorabile senso di essere in stato di guerra, di essere sotto attacco e di dover controbattere. Tuttavia, la dinamica celaniana non è semplice né unidirezionale: implica un doppio movimento complesso — per usare i termini di Empedocle — di philotes (amore) per la madre (e la sua lingua) e neikos (conflitto) contro i suoi assassini, che sono gli originatori e i portatori di quella stessa lingua. Celan è intrappolato in questa dinamica amore/conflitto, la cui linea di base comune (come Grund ma anche, simultaneamente, come Abgrund) è la lingua tedesca, che lega in modo irrevocabile sia gli assassinati che gli assassini, una dinamica che struttura tutto il pensiero e la scrittura di Celan. A causa di questa base, e nonostante abbia trascorso tutta la sua vita adulta in Francia, nonostante il suo multilinguismo attivo e profondo — non ci sono dubbi che avrebbe potuto scrivere con successo in rumeno (e lo fece in minima parte) o in francese — Celan non prese mai seriamente in considerazione la possibilità di diventare uno “scrittore francese” sull’esempio di, che so, Tristan Tzara, Eugène Ionesco o, più pertinente, E.M. Cioran o Gherasim Luca, o anche di comporre parte della sua opera in quella lingua, come fece Rilke. Le sue dure, quasi isteriche, invettive contro i poeti che tentavano di scrivere in una lingua diversa da quella materna sono significative in questo senso. Questa identificazione totale e questa adorazione per la lingua materna risalgono alla sua giovinezza nella multilingue Czernowitz. Chalfen, per esempio, sottolinea il forte disagio e l’irritazione di Celan nei confronti dello yiddish. Tranne che per una piccola poesia di Steinberg, Rabbi Leiserl, der Kleine, che secondo Ruth Lackner amava recitare, non fu mai sentito usare lo yiddish. (Un’altra fonte riporta di averlo sentito cantare una canzone yiddish con grande piacere — un ricordo d’infanzia, forse più legato a Czernowitz che alla lingua stessa). Secondo Chalfen, Celan considerava lo yiddish come “verdorbenes Deutsch” — “tedesco corrotto” — e teneva in bassa considerazione tutta la scrittura in quella lingua. L’amore per la Muttersprache come lingua della madre è un dato letterale e il vortice centrale della vita di Celan: fu la madre ad amare la Kultursprache tedesca, l’Hochdeutsch, e a coltivare questo amore nel figlio. Come molte donne del suo tempo, aveva ricevuto solo un’istruzione formale limitata, ma era sempre stata una grande lettrice, soprattutto di letteratura classica tedesca. Era irremovibile sul fatto che in casa si parlasse solo l’Hochdeutsch, e, sebbene la famiglia Antschel non fosse benestante, insistette perché il giovane Paul frequentasse il miglior asilo ebraico — che era l’unico ad aver mantenuto il tedesco come lingua d’insegnamento. Sebbene il padre sembrasse più interessato a far educare il figlio nelle tradizioni religiose ebree, prevalse la madre e quella parte della sua educazione fu rimandata a dopo. Quell’idioma bucoviniano o Umgangssprache, con le sue inevitabili venature yiddish, un autentico Rotwelsch, doveva essere associato dal giovane Celan al padre, che all’epoca guadagnava da vivere come mediatore di legname — così come associava l’ebraico al padre e alle sue tendenze sioniste, tragicamente frustrate dalla madre. Da adolescente, Celan sembra aver parlato spesso con Ruth Lackner della questione del multilinguismo, e, come riporta Chalfen: «Paul sottolineava ripetutamente che, nonostante la sua buona conoscenza di diverse lingue straniere e la capacità di impararne facilmente di nuove, non avrebbe mai scritto poesie in una lingua diversa dalla sua madrelingua.» (Chalfen 1979, 101) Questa insistenza sulla madrelingua come unica lingua possibile in cui scrivere poesie è ovviamente un luogo comune della poetica romantica, ma questo non è il luogo per analizzare i presupposti e le basi filosofiche di questa “verità” in profondità. Celan sarebbe tornato su questo tema più volte nella sua vita, e la formulazione più forte è riportata da Ruth Lackner e citata da Chalfen: «Solo nella madrelingua si può esprimere la propria verità; in una lingua straniera il poeta mente.» (Chalfen 1979, 148) Sebbene non conosciamo la data esatta di questa citazione, sembra plausibile che risalga al momento in cui Celan stava valutando la possibilità di scrivere in un’altra lingua, cioè in rumeno. Nei primi due anni dopo la guerra, Celan visse a Bucarest e uno dei suoi amici stretti, il poeta rumeno Petre Solomon, lo convinse a scrivere in quella lingua. È chiaro che la tentazione di decidere di scrivere in una lingua diversa dal tedesco doveva esserci in qualche forma, e la veemenza con cui Celan difese la sua decisione di scrivere in tedesco, di fronte alle accuse di scrivere nella lingua degli assassini, non deve essere interpretata semplicemente come una garanzia che la tentazione non esistesse per lui. Ciò che è certo è che Celan si pose la domanda, fece tentativi — anche se solo a metà — di usare un’altra lingua, e tornò a scrivere in tedesco. Mantenne questa decisione per tutta la vita, e più tardi, nel 1961, formulò il dilemma un’ultima volta, in risposta a un questionario sul Problema del bilingue della libreria Flinker di Parigi: «Non credo che esista una cosa come la poesia bilingue. Il doppio discorso, sì, questo lo si può trovare tra le varie arti e acrobazie della parola contemporanee, soprattutto tra coloro che riescono a stabilirsi in armonia beata con ogni moda della cultura consumistica, essendo tanto poliglotti quanto policromi. La poesia è per necessità un’istanza unica del linguaggio. Quindi mai — perdonate il luogo comune, ma la poesia, come la verità, va troppo spesso a finire ai cani — quindi mai ciò che è doppio.» (Celan 1986, 23) Molto si potrebbe dire su quel “doppio” — quel Zweimalige, liquidato senza appello come possibilità generativa per la “vera” poesia — e sulla scomparsa del padre assassinato, l’altro della sua genesi, dal Toten-gedenken che domina l’opera a favore della madre. Il racconto nostalgico e idealizzato di Chalfen sul romanzo familiare di Celan rende difficile ottenere una profonda comprensione della struttura psichica del giovane Paul. Ci sono tuttavia abbastanza allusioni velate a difficoltà nel matrimonio dei genitori e a una figura paterna debole (fisicamente più basso della moglie Fritzi di una testa), piuttosto insicuro nelle sue imprese mondane e a casa dominato dalla moglie, che compensava essendo estremamente autoritario nei confronti del figlio (essere picchiato e/o rinchiuso a lungo in una stanza erano una caratteristica regolare dell’educazione di Paul). Abbiamo finora solo pochi saggi che si avvicinano con cautela all’opera da un angolo psicologico o addirittura psicopatologico (Janz 1976; Lyon 1987b; Schwerin 1981), e nessun tentativo di un approccio psicoanalitico completo alla vita di Celan (sia in relazione al primo romanzo familiare freudiano che ai suoi successivi disturbi mentali) è stato fatto. È tuttavia chiaro, dalle poche informazioni che si possono ricavare, che un forte conflitto edipico era probabilmente rimasto irrisolto al momento in cui la tragedia della guerra distrusse la famiglia — e che i successivi problemi psichici di Celan potrebbero avere radici risalenti a quegli anni pre-Shoah. Cioran, nel suo piccolo memoriale su Paul Celan, suggerisce qualcosa del genere quando scrive: «Qualcosa in lui doveva essersi spezzato molto presto, anche prima delle sventure che si abbatterono sul suo popolo e su di lui.» (Cioran 1988, 153) L’opera di Celan è eloquente su queste questioni: la madre morta è (doppialmente) onnipresente — direttamente come destinataria ricordata o indirettamente attraverso la mediazione della lingua tedesca — mentre il padre è vistosamente assente. Un esempio basterà: Celan aveva saputo della morte del padre in una lettera della madre nell’autunno del 1942, e una poesia scritta poco dopo, intitolata Schwarze Flocken, è l’unico caso nella sua opera in cui si fa riferimento specifico alla morte del padre: «…quando nevosa polvere l’osso di tuo padre, sotto gli zoccoli schiacciato il canto del cedro…» (PC III, 25) Ma anche in questa occasione, il riferimento di Celan alla morte del padre — che, non dobbiamo dimenticare, fu della stessa natura orrenda di quella della madre — è posto tra doppie parentesi. La poesia Schwarze Flocken non è rivolta al padre morto, ma alla madre (verso 16: «Sanguinava, madre, l’autunno via da me…»), e il riferimento alla morte del padre è dato solo tra virgolette, come parte di una lettera della madre al figlio, ricreata dal poeta. La preoccupazione di Celan, e il lamento della poesia, è per la madre: ciò che gli rimane della lettera è il bisogno della madre di uno scialle in quel freddo inverno, che nell’ultimo verso il poeta dice di stare tessendo per lei. La morte del padre non è né commentata né pianta; in effetti, il suo accenno nella lettera (ristrutturata? fedelmente trascritta? — non lo sappiamo) è relegato allo status di proposizione subordinata: funziona linguisticamente come una tropologia che mira a qualificare e intensificare l’asprezza del tempo invernale e quindi il bisogno dello scialle da parte della madre. La seconda parentesi che esclude la morte del padre non è testuale ma contestuale: la poesia in questione fu pubblicata per la prima volta nella sfortunata raccolta giovanile di Celan Der Sand aus den Urnen. Quando Celan selezionò le poesie da quella raccolta che voleva conservare per l’inclusione nel primo grande libro, Atemwende, Schwarze Flocken fu scartata. Se insisto così fortemente su questo rapporto, è perché in esso si può individuare il nucleo dinamico dell’opera di Celan, ciò che, in termini benjaminiani, muove la sua «Intenzione verso il linguaggio», cioè un vortice in cui «Madre» e «Lingua» sono inestricabilmente e attivamente collegate, così che, con la madre morta, anche la lingua è morta: Celan ha scritto tutta la vita nella lingua (materna) morta, una lingua uccisa e allo stesso tempo tenuta in vita dai suoi assassini, con l’intenzione — una magia di «Beschwörung» — di risuscitare la (madre) morta attraverso la lingua (poeticamente ri-vitalizzata): «viva, dopo tutto», come scrive in una poesia di Atemwende. Si è spesso detto che tutti i poeti scrivono in una lingua straniera, o che la «poesia» in quanto tale è una lingua straniera, ma per Celan la lingua della poesia è ancora più estraniata: è una lingua morta in cui deve scrivere, per mantenere viva la memoria della madre. La sua poesia, quindi, non è tanto una necrologia quanto una necrografia. Paul Celan, in questo senso, non è un poeta «tedesco», ma un poeta che scrive nella (morta) lingua (tedesca) della sua (morta) madre.
IV. “WENDE”
Si può quindi dire che a metà della sua carriera poetica si verificò un cambiamento radicale, una svolta poetica o Wende, in seguito iscritta nel titolo della raccolta Atemwende / Giro di respiro, che preannunciava la poetica che avrebbe esplorato per il resto della sua vita. Le poesie, che erano sempre state altamente complesse ma piuttosto ricche di un’abbondanza di immagini quasi surrealiste e a volte di una metaforicità labirintica, furono snellite, la sintassi divenne più stretta e spinosa, i suoi marchiani neologismi e le condensazioni di parole aumentarono, mentre la composizione complessiva dell’opera divenne molto più “seriale”, cioè invece di insistere su singole poesie titolate, si orientò verso un metodo di composizione per cicli e raccolte. Celan sembra aver segnalato che un cambiamento nella sua poetica stava avvenendo già nel 1958, quando suggerì che per lui la poesia non era più una questione di “trasfigurazione” (verklären). Dati «gli eventi sinistri nella sua memoria», scrive Celan, la lingua della poesia tedesca deve diventare «più sobria, più fattuale… ‘più grigia’». Questa maggiore fattualità frena un impulso centrale della tradizione lirica, il suo rapporto con la “lira”, con la musica: «è… una lingua che vuole collocare anche la sua ‘musicalità’ in modo tale da non avere nulla in comune con l‘‘eufonia’ che più o meno spensieratamente continuò a risuonare accanto ai più grandi orrori». L’effetto diretto dell’abbandono di questa ‘eufonia’ è l’aumento della precisione del linguaggio: «Non trasfigura né rende ‘poetico’; nomina, pone, cerca di misurare l’area del dato e del possibile». Celan sottolinea questo punto di svolta, questa Wende, quando usa la parola nel titolo della raccolta presente: Atemwende / Giro di respiro — un titolo insolito nell’economia generale dei titoli dei suoi libri, almeno fino a quel periodo. Contrariamente ai titoli dei volumi precedenti, non è una frase, come Mohn und Gedächtnis, né una parola composta estratta da una poesia e posta sopra l’intera raccolta come titolo, come Sprachgitter. Non essendo in grado di collegare il titolo direttamente a una poesia specifica nella raccolta, è difficile determinarne o controllarne il significato contestualizzandolo tematicamente o tropicamente all’interno del libro. Così il senso che il titolo sia programmatico per la poetica dell’opera piuttosto che evocare un contenuto poetico specifico. E infatti, la parola «Atemwende» compare altrove negli scritti di Celan — cioè nel discorso Il Meridiano (tenuto in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner a Darmstadt, 22 ottobre 1960) — che è la sua dichiarazione più importante ed estesa sulla poetica. È qui che dobbiamo cercare la base teorica dei cambiamenti dall’opera iniziale a quella tarda. Nel discorso, Celan affronta la questione dell’arte attraverso l’opera di Georg Büchner. Definisce l’esclamazione finale di Lucile «Viva il re!» come «una parola controcorrente, la parola che taglia il ‘filo’, che non si inchina ai ‘bystander e ai vecchi ronzini della storia’. È un atto di libertà. È un passo.» In breve, è ciò che Celan chiama una «Gegenwort», una contro-parola, e quindi la parola della poesia. Ma, prosegue, c’è una «Gegenwort» ancora più feroce, ed è il silenzio di Lenz: «Lenz — cioè Büchner — è andato un passo oltre Lucile. Il suo ‘Viva il re’ non è più una parola. È un silenzio terrificante. Toglie il fiato e le parole a lui — e a noi.» È nella frase successiva che introduce il termine «Atemwende»: «La poesia è forse questo: un Atemwende, una svolta del nostro respiro. Chi lo sa, forse la poesia va per la sua strada — la strada dell’arte — per il bene di una tale svolta? E poiché lo strano, l’abisso e la testa di Medusa, l’abisso e l’automa, sembrano giacere nella stessa direzione — è forse questa svolta, questo Atemwende, che può distinguere lo strano dallo strano? Forse è qui, in questo breve momento, che la testa di Medusa si raggrinzisce e gli automi si fermano? Forse, insieme all’Io, estraniato e liberato qui, in questo modo, anche un’altra cosa viene liberata? Forse dopo questo la poesia può essere se stessa… può, in questo modo ora senza arte, senza artificio, percorrere altre vie, compresa la via dell’arte, ancora e ancora? Forse.» Ho citato ampiamente questo passaggio non solo perché potrebbe essere quello che definisce più da vicino il pensiero di Celan sulla poesia, ma anche per dare un’idea della sua tessitura retorica, del suo progresso tentativo, meditativo, si potrebbe dire brancolante. La tentazione — e molti critici non vi hanno resistito — sarebbe quella di estrarre dal passaggio l’affermazione definitiva e affermativa «la poesia è un Atemwende», ma nel processo si sarebbero scartati tutti i puntatori retorici, la ripetizione nove volte della parola «vielleicht» (la traduzione inglese ne dà solo sette «forse») che trasforma tutte le frasi in domande. Il passaggio non è tuttavia una formula retorica isolata nel discorso; anzi, si potrebbe sostenere che l’intero Meridiano sia una messa in discussione radicale delle possibilità dell’arte, nelle parole di Celan, «eine radikale In-Frage-Stellung der Kunst», a cui tutta la poesia (e l’arte in generale) deve sottoporsi oggi, se vuole essere di uso essenziale. Gerhard Buhr, in un eccellente saggio che analizza il discorso Il Meridiano proprio da questo punto di vista, commenta l’espressione di Celan «eine radikale In-Frage-Stellung der Kunst» come segue: La frase «radikale In-Frage-Stellung der Kunst» (messa in discussione radicale dell’arte) ha un doppio significato dato dai due modi in cui si può leggere il genitivo: l’arte, con «tutto ciò che le appartiene e le proviene»… deve essere messa radicalmente in discussione; e [l’arte] mette radicalmente in discussione altre cose, come l’uomo o la poesia. È proprio per questo che la questione della poesia, la messa in discussione della poesia non è esterna all’arte —: la natura dell’arte deve piuttosto essere discussa e chiarita in connessione con la natura della domanda stessa. (Buhr 1988, 171) Celan, poeta attento che non si abbandona a dichiarazioni retoriche o a sfoggi linguistici, e che nelle sue poesie tarde avrebbe flagellato se stesso e la sua opera giovanile per un eccesso di tali «fioriture», va preso qui alla lettera: sta brancolando, sperimentando, interrogando, cercando di trovare una nuova possibilità nella poesia. È un processo lento: il termine «Atemwende», coniato in questo discorso del 1960, riapparirà come titolo di una raccolta solo sette anni dopo.
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