Una poesia di Paul Celan nella splendida traduzione di Dario Borso, apparsa nel 2016 in “La sabbia delle urne”, edito da Einaudi e curato altrettanto splendidamente dallo stesso Borso:
PROSSIMITA’ DELLE TOMBE
Conosce ancora, madre, l’acqua del Bug
meridionale l’onda che ti causò ferite?
Sa ancora il campo con i mulini in mezzo
come lieve il tuo cuore ha patito i tuoi angeli?
Può nessuno dei pioppi più, o dei salici,
toglierti il cruccio, procurarti il sollievo?
E non va il dio col gemmante bastone
su e giù per la collina?
E tolleri, madre, ah come in passato a casa,
la dolce, la tedesca, la dolorosa rima?
“Quest’avventarsi contro i limiti del linguaggio è l’etica” [Ludwig Wittgenstein]
1. Un meridiano libertario
Interrogo in queste pagine il Meridian di Paul Celan in cerca di una sua importante sebbene non molto frequentata traiettoria libertaria [1].
Il Meridian (Il Meridiano, 1960) esprime una poetica e nello stesso tempo è una prosa poetica. Caratteristica, questa del wittgensteiniano gesto del mostrare [zeigen] più che del dire (Wittgenstein, Lezioni, p. 22), che resta a connotare ogni scritto e forse ogni gesto di Paul Celan. Anche la centralità del gesto, fondata filosoficamente da Ludwig Wittgenstein e ripercorribile letterariamente almeno a partire da Heinrich von Kleist e da Georg Büchner, va a incontrare – incontro nel senso celaniano di una Begegnung, di un rispondersi tra spazio-tempi lontani improvvisamente connessi – la profonda ispirazione politica di Celan. Politica, in Celan, significa soprattutto etica. Celan aveva esperito tempeste d’acciaio ben poco trasfigurabili letterariamente: le invasioni e persecuzioni naziste, la delusione e la fuga di fronte all’avanzare dell’Armata Rossa e la spartizione ovvero sparizione della sua terra, la Bucovina, tra Romania e Ucraina. In pochi mesi aveva sperimentato la libera primavera surrealista della Bucarest dell’immediato dopoguerra e il successivo calare della cappa di un regime più che staliniano. Aveva toccato con mano, fuggendo a Occidente, la falsa buona coscienza delle democrazie occidentali a Vienna e in Germania. Non si era neppure nascosto le difficoltà della Francia che aveva nel 1958 incoronato ‘re’ laico il generale De Gaulle. Avrebbe, nel 1968-69, riconosciuto nel movimento studentesco, che sulle prime gli aveva suscitato tante speranze, una deriva autoritaria da «Linksnibelungen» (Die Gedichte aus dem Nachlass, pp. 104-105) [2]. La sua ispirazione politica ed etica, che diventa una pratica poetica, resta fedele a un’idea libertaria che si alimenta delle letture giovanili, soprattutto di Pietr Kropotkin e Gustav Landauer. Entrambi vengono chiamati in causa in un passaggio chiave del Meridian, in cui Celan presenta se stesso come un «auch mit den Schriften Peter Kropotkins und Gustav Landauer Aufgewachsener» (Meridian, p. 194) [3], e su cui dovremo tornare più lungamente. Per Celan il socialismo libertario di impronta anarchica e comunitaria è un orizzonte, mai realizzabile ma per questo efficace, di resistenza contro le ipocrisie dell’Occidente e contro l’autoritarismo post-stalinista a Est, oltre la cortina di ferro.
Il Meridian è un testo accidentato e pieno di détours. Si snoda attraverso luoghi importanti del pensiero poetante di Paul Celan: arte [Kunst] e poesia [Poesie; Dichtung; Gedicht]; artificio e natura; costruzione e creatura; oscurità e realtà della poesia; rapporto tra scrittura, luoghi geografici, loci mnestici; pensiero dialogico; rapporto col lettore; interrogazione sul punto di incidenza tra storia e scrittura. Il Meridian ha una prosa sostenuta da una costruzione musicale e aperta che può apparire a tratti enigmatica. Procede per anafore, ripetizioni, chiasmi, rimandi e richiami di figure e suoni.
Questa prosa, possiamo dire, è libertaria nella forma. È attraversata da fratture e silenzi secondo un disegno che risponde, lo vedremo e su questo cercheremo di far luce, a una figura di pensiero che rompe le catene causali: apre nelle «topìe» i luoghi di incidenza delle «utopie». Topìe, nel neologismo di Landauer, intese come condizioni della realtà stabilizzata nelle condizioni storiche date; utopie intese come fattori di permanente mobilitazione «in avanti» della realtà e della storia. Utopie, con Kropotkin, intese come forze tese a costruire un progetto umano, singolare e al tempo stesso comune, di liberazione della e dalla realtà. Il suo strumento di lotta è l’Assurdo.
Nella sua versione a stampa il Meridian appare scarno. Porta i segni dei tagli e della sofferta e complessa elaborazione del testo, documentata ora dalla edizione critica della Tübinger Ausgabe (Der Meridian. Vorstufen – Textgenese – Endfassung. Tübinger Ausgabe, TCAM). Ma esso – è importante ricordarlo – nasce come discorso [Rede], pensato per essere pronunciato ad alta voce dall’autorevole tribuna del Premio Büchner del 1960. I suoi enunciati vanno dunque sempre anche recepiti nel loro valore performativo: rispondono a un riconoscimento che giunge in un momento particolare della carriera artistica e della biografia di Celan. Mentre sta scoppiando il «caso Goll», l’accusa di plagio che lo destabilizzerà per sempre, il poeta è nel mezzo della stesura di alcune liriche che confluiranno in Die Niemandsrose (La rosa di nessuno, 1963). Inoltre ha appena ultimato le traduzioni dal russo di Mandel’štam, dal francese di Valéry e Char. Tradurre e scrivere, in quei mesi e anni, letteralmente diventano per Celan vere proprie forme di resistenza, di scrittura-contro. Una scrittura-contro che costruisce baluardi di difesa contro una certa letteratura critica incline ad applicare alla sua poesia le griglie del libro di Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna, apparso nel 1956. Apparentemente un manuale per descrivere forme e lunghe durate storico-letterarie, il libro di Friedrich sortisce l’effetto di assicurare una lettura astorica e asettica della poesia sotto le categorie di oscurità, deformazione, spersonalizzazione, distruzione dell’io. Questo io anarchico, il suo grido creaturale, appaiono sulla scena del Meridian incarnati in personaggi del teatro Büchner, riscritti da Celan come portatori delle istanze sovversive della poesia [4].
2. «Ach, die Kunst!»
Nella questione, più volte affrontata, del rapporto tra Kunst e Poesie (e tra poesia e storia) vorrei insistere su un aspetto meno evidente, ma credo fondamentale per capire la sostanza etica che sostiene la poetica celaniana. Possiamo farlo cominciando col mettere in sequenza alcuni dei nomi propri citati nel Meridiano: Mallarmé, Lenz, Büchner, Benjamin, Kropotkin, Landauer, ma potremmo aggiungere anche Pascal e Šestov, o ancora il suo conterraneo Franzos, primo curatore delle opere di Büchner. Ciascuno di loro sta per sé, la loro identità è singolare, i loro nomi sono unici e propri. Ma ognuno di questi nomi vive nello spazio e nel tempo come su una carta geografica utopica. Essi aprono sempre anche porte verso dimensioni ulteriori. Potremmo chiamarle, queste porte, accessi all’utopia; o andare ancora oltre e dire che danno accesso a forme di eterotopia, in uno spazio-altro che continuamente si sposta. E se è vero che la poesia celaniana cammina «um des Ortes der Dichtung, um der Freisetzung, um des Schritts willen» (Meridian, p. 194) [5], allora la nostra ricerca verrà spinta in direzione di questo luogo particolare, che assume le connotazioni di luogo libertario e utopico. Luogo che ancora non c’è, ma è progetto.
Ah, l’arte! – una esclamazione ironica che incontriamo tra le prime pagine del Meridiano, presa a prestito da Büchner, che la assegna a Camille Desmoulins nel dramma su Danton. Per Celan che la ripete diventa parola insieme di aggressione e difesa. Alla fine degli anni Cinquanta egli matura infatti una poetica contro la «serenità» dell’arte, ma nonostante questo utilizza a suo modo la lezione di Mallarmé (e di Paul Valéry, non citato direttamente, ma presente perché tradotto da Celan proprio nei mesi della stesura del discorso). Mallarmé viene portato ad absurdum, fino in fondo, e per questo oltrepassato e rovesciato, a testa in giù nella precisione, nell’esattezza meccanica, ma anche nell’esplorazione di regioni oscure della poesia – come percorsi di dolore sotto la superficie levigata dei versi. L’artefatto, la Kunst riesce a dare al poeta della «creatura», del «dato» e delle «date», della incontrovertibile singolarità, un’istanza di limitazione che gli consente di riorganizzare i propri frammenti e renderli condivisibili con altro e con altri (altro spazio, altri tempi, altre creature, scomparse e a venire). La distanza tra tecnica e ispirazione non si risolve in questo caso in una contrapposizione, bensì in un percorso che dall’asimmetria conduce all’integrazione. La poesia ha bisogno della precisione. Il dolore creaturale non può rimanere tale, se vuole acquistare una voce deve passare per il momento straniante dell’arte-Kunst: «das Natürliche als das Natürliche mittels der Kunst zu erfassen» (p. 192) [6]. E dunque cosa vuol dire, nel Meridiano, «Mallarmé konsequent zu Ende denken» (p. 193)? [7] Vuol dire, tra l’altro, andare fino in fondo all’oscurità forzando il rapporto tra metafora e lettore. Non in direzione di una metafora assoluta, ma come scrive Marianna Rascente, in direzione di una «metafora assurda». Pensata fino al limite del proprio rapporto col mondo, con una referenza sparita, ma non assente, e presente in una dimensione non ancora e mai del tutto attuata [8].
Celan nel Meridian fa dunque i conti con la levigatezza del simbolismo, con l’eufonia che egli pure sentiva vivere in se stesso e respingeva come poesia inautentica. Non perché, come aveva detto Adorno, non si potesse più fare poesia dopo Auschwitz, ma perché della poesia erano radicalmente mutati i canoni etici, e dunque estetici. La nuova poesia tedesca infatti, scrive Celan, «misstraut dem “Schönen”, sie versucht, wahr zu sein» (Antwort…, GW III, p. 167) [9]. Dal simbolismo, e da Valéry soprattutto, Celan accetta una lezione fatta appunto di esercizi di precisione. La poesia diventa uno strumento di misurazione. Il suo linguaggio «verklärt nicht, “poetisiert” nicht, sie nennt und setzt, sie versucht, den Bereich des Gegegben und des Möglichen auszumessen» [10].
Delimitare il limite del dicibile, stabilire un confine porta però con sé anche una possibilità di trasgredirlo. Ma il salto oltreconfine non sarà logico né progressivo, sarà improvviso e assurdo. Come un salto funambolico. Già nell’Adorno che medita sull’arte nuova (Prismi, pp. 145-171) è evidente e centrale l’idea dell’esercizio di agilità. Già Adorno insiste su un io che si dimentica di sé – ma diversamente da Adorno Celan direbbe: si dimentica di sé per ritrovarsi, alla fine, «nel vero». E infatti Celan nel Meridian, con uno dei suoi tipici imperativi rivolti soprattutto a se stesso, sembra dipanare un filo del pensiero adorniano, ma piegandolo a sé: «geh mit der Kunst in deiner allereigenste Enge. Und setzte dich frei» (p. 200) [11].
3. Dall’ «oscurità congenita della poesia» [12] all’ assalto contro i limiti del linguaggio
Nelle note su Valéry Celan riprende la figura, già esplorata in una lirica raccolta in Sprachgitter (Grata di parole, 1959), dell’argumentum e silentio (titolo della poesia dedicata proprio a René Char, e dunque con immediata colorazione politica e resistenziale), per cui a partire dal non detto diventa comprensibile ciò che viene detto. Qui l’esattezza francese pare incrociarsi con quel particolare spirito kafkiano che faceva della poesia una spedizione alla ricerca della realtà. O come scriveva Wittgenstein, un assalto al confine. C’è una variante del Meridian che dà la misura precisa e terribile della possibilità paradossale di trapassare i limiti. Il passo si riferisce a Dantons Tod (La morte di Danton) di Büchner:
Sieht das Gedicht, noch über die Todesschranke hinweg, die/ Möglichkeit bestehen, daß sich ? furchtbares pars pro toto /? die Köpfe in den Körben küssen ?/ Kannst du verhindern, daß unsere Köpfe sich auf /dem Boden des Korbes küssen// Auf dem Kopf gehen//Himmel als Abgrund (TCA M, pp. 176-177) [13].
La cesta (insieme alla testa di Medusa citata nel discorso), richiama esplicitamente il mito di Perseo. «La testa di Medusa che fissa, che imprigiona l’esperienza, la limita, la pietrifica, la toglie cioè alla creaturalità [Kreatürlichkeit], ai suoi dati immanenti di tempo e spazio, è la parola stessa in quanto concetto e sapienza tecnica» (Porena, La testa di Medusa…, p. 161). L’atto di pietrificazione e fissazione del dato risponde a un gesto di estrazione dalla catena temporale e causale della storia. Essa «realizza» (Landauer) in un presente improvviso, fissato nell’istante, l’aspetto meduseo. Solitamente associamo questo movimento di estrazione del dato storico e creaturale alla filosofia della storia, alla Jetztzeit di Walter Benjamin. Nel caso di Celan però un meridiano si può tracciare anche in direzione di Gustav Landauer (Die Revolution, 1907) e del rapporto che egli instaura tra topìa, utopia, storia e rivoluzione. Pensatore anarchico dotato di una potentissima visione sintetica, Landauer è capace di raccogliere sotto la sua intuizione momenti apparentemente atomizzati in un tutto rivoluzionario e inedito, produttivo di nuovi spazi immaginativi («l’autentica scienza è deduttiva perché è intuitiva; l’induzione e l’accurato lavoro di raccolta di quanti sono privi di una natura sintetizzatrice e che quindi non sanno far altro che addizionare, non potranno mai sostituire l’intuizione che sintetizza e generalizza» (Landauer, La Rivoluzione, pp. 22-23). Osserviamo un movimento: l’andare oltre una soglia – uno sconfinamento che è di per sé rivoluzione e libertà.
Allo stesso modo in Celan la valorizzazione del Vive le roi di Lucile (la moglie di Camille Desmoulins che nel dramma büchneriano urla al cospetto di una scena vuota, dove si è consumata la morte per ghigliottina di suo marito insieme a Danton) non esprime certo una nostalgia dell’Ancien régime, ma costituisce un esempio di discorso paradossale, che più che parola è «gesto, passo, atto». Atto di rivolta contro la piega ghigliottinante e autodistruttiva che stava prendendo la Rivoluzione francese rovesciatasi in Terrore – rivolta intrapresa dall’alto di una tribuna che è anche patibolo. È evidente qui la traccia delle letture di Kropotkin, la cui idea di rivoluzione «resta opposta a quella autoritaria e giacobinizzante proprio perché pone la centralità sovversiva dello spontaneismo anti-politico» (Scienza e anarchia, p. 21). Lucile è la «Kunstblinde» («cieca all’arte»), quella che nulla sa di arti, ma è capace di un «Gegenwort», di una «parola-contro» che è «ein Akt der Freiheit. Es ist ein Schritt» (p. 189) [14]. Tornano l’atto, il gesto, il passo – attributi indicati da Celan per riconoscere sia la poesia, sia l’agire di un personaggio «cieco all’arte». Ma diamo direttamente la parola a Celan. Il grido di Lucile:
[…] ist das Gegenwort, es ist das Wort, das den “Draht zerreißt, das Wort, das sich nicht meht vor den Eckstehern und Paradegäulen der Geschichte bückt, es ist ein Akt der Freiheit. Es ist ein Schritt. // Gewiß, es hört sich – und das mag im Hinblick auf das, was ich jetzt, also heute davon zu sagen wage, kein Zufall sein –, es hört sich zunächst wie ein Bekenntis zum „ancien régime“ an. //Aber hier wird – eraluben Die einem auch mit den Schriften Peter Kropotkins und Gustav Landauers Augewachsenen, dies ausdrücklich hervorzuheben –, hier wird keiner Monarchie und keinem zu konservierenden Gestern gehuldigt. // Gehuldigt wird hier der für die Gegenwart des menschlichen zeugenden Majestät des Absurden. // Da, meine Damen und Herren, hat keinem ein für allemal feststehenden Namen, aber ich glaube, es ist … die Dichtung [15] (p. 189-190).
Büchner, insieme con suoi personaggi, è dunque nome proprio e topos scelto da Celan per affermare le ragioni del naturale e del creaturale contro la metafisica e l’idealismo. Ma anche Büchner, nella lettura di Celan, oltrepassa la soglia della sua stessa poetica. Celan da una parte illustra le ragioni della Kunst che supera se stessa passando attraverso l’uso ad absurdum dei propri mezzi; dall’altra mette in scena l’atto di portata universale e nello stesso tempo assurdo di Lucile che si espone alla decapitazione gridando alla folla giacobina: Viva il re! La reversibilità della topìa attraverso la forza dell’utopia, il rovesciamento di cielo in abisso (che sempre offre la possibilità di rovesciare l’abisso in cielo), la possibilità di revocare il passato. Celan aveva certamente potuto riconoscere un simile movimento del pensiero in Landauer, La rivoluzione:
Questa mescolanza generale e comprensiva della convivenza in condizioni di stabilità relativa noi la chiamiamo ‘topìa’. […] La topìa ordina tutte le faccende dell’umana convivenza, conduce le guerre […] influenza vita pubblica e privata – […] la relativa stabilità della topìa si muta gradualmente fin a raggiungere il punto di equilibrio instabile (Landauer, La Rivoluzione, pp- 23-24).
La topìa, per Landauer, è il mondo come appare nei suoi rapporti di forza e di forma. La topìa è l’esistente. L’utopia dal canto suo non è qualcosa di metafisico, fuori dall’esistente, ma è una relazione, un’energia, un movimento di cambiamento della topìa in altro. È un «passare attraverso» (hindurchgehen, parola ricorrente in diverse accezioni nel Meridian) da uno stato all’altro:
Queste mutazioni della stabilità della topìa vengono prodotte dall’utopia. L’utopia non appartiene per natura all’ambito della convivenza, ma a quello della vita individuale. Per utopia noi intendiamo una mescolanza di aspirazioni individuali e di tendenze della volontà […] L’utopia è quindi la totalità delle aspirazioni distillata nella sua purezza, aspirazioni che in nessun caso portano al loro fine, ma sempre a una nuova topìa. Chiamiamo rivoluzione quell’intervallo di tempo in cui la vecchia topìa non è più e la nuova non è ancora consolidata. La rivoluzione è dunque la via da una topìa ad un’altra (Landauer, La Rivoluzione, pp. 23-25).
L’utopia mobilita per Landauer una latenza nei fatti, passati presenti e futuri. Essa è «volere e agire latente». Questo comporta un’inversione delle concezioni causali e necessarie, nonché teleologiche, nel rapporto passato-presente:
Infatti in tutta la storia il passato viene richiamato alla memoria, viene trasformato in presente; per questo c’è in inglese una parola appropriata: to realise, che vuol dire insieme realizzare e considerare: in questa realisation si riuniscono la rappresentazione e la volontà, la conoscenza e la forza creativa. Ogni sguardo gettato sul passato o sul presente dei raggruppamenti umani è un fare e un costruire nel futuro (Ivi, p. 21).
Molto vicino all’inglese to realise richiamato da Landauer è il tedesco wirken della Wirklichkeit celaniana. La realtà, la Wirklichkeit celaniana, è qualcosa che si realizza, che si fa reale e che si comprende; un’immagine che agisce dinamicamente sulla storia. Il passato «non è qualcosa di compiuto ma qualcosa in divenire. Per noi c’è soltanto la vita, il futuro; anche il passato è futuro, che diviene col nostro progredire, si muta, è divenuto altro» (Ivi, p. 35). La visione dinamica del passato si configura per Landauer in rapporto a chi nel presente è in grado di risvegliarne le latenze:
Per quanto paradossale possa suonare, io affermo piuttosto letteralmente che il passato si muta. Infatti nella catena della causalità non è una causa fissa che produce un effetto sicuro, e questo diviene causa, che poi dà origine a un effetto, e così via. Non è così. Secondo questa rappresentazione la causalità sarebbe una catena di sentinelle che si susseguono l’una all’altra e che starebbero tutte, tranne l’ultima, silenziose e irrigidite. Solo l’ultima avanza di un passo, da essa scaturisce allora qualcosa di nuovo, che a sua volta va innanzi e così via. Io dico invece che è tutta la catena che va avanti e non solo l’ultimo anello. Le cosiddette cause si mutano con ogni nuovo effetto (Ivi, p. 36) […] Tutto ciò che avviene ovunque in ogni momento è il passato. Io non dico che sia effetto del passato; dico che è il passato. [… ] Inoltre per ogni singolo esso si costruisce in modo particolare: ogni singolo scorge le immagini in maniera diversa a seconda di come il passato reale che agisce nel suo petto lo spinge in avanti in quella data maniera e lo fa muovere (Ivi, p. 37).
4. La poesia«va in cerca di un altro»
Il mutuo appoggio di Kropotkin (Londra 1902) è un altro cardine su cui riflettere in questa sorprendente coniugazione di spazio utopico ed etico nella singolarità irriducibile della parola poetica. «Im Singulären spricht das Gemeinsame», annota Celan durante la stesura del Meridian [16].Il precipitare di singolarità e condivisione sta appunto alla base del comunitarismo anarchico di Kropotkin. Egli considera «il mutuo appoggio», sin nelle sue espressioni più elementari e biologiche degli organismi viventi elementari, una potente forza evolutiva. Dal punto di vista biologico la si chiamerebbe appunto simbiosi. Kropotkin critica il darwinismo, sia scientifico sia sociale, proprio sul piano della lotta per la sopravvivenza, proponendo un modello in cui è vero che «i più adatti» sopravvivono in natura, ma i più adatti sono membri di una specie o intere specie che trovano al proprio interno una forte solidarietà. L’unione, la simbiosi è la «migliore garanzia di esistenza e progresso fisico, intellettuale e morale» (Kropotkin, Il mutuo appoggio, p. 92). Per Kropotkin la giustizia è «pratica immanente delle relazioni sociali». L’aiuto intraspecifico si estende alla natura, all’etica, alla società, alla cultura. Questo gesto di scambio fino all’empatia più spinta si ritrova nel rapporto che Celan instaura con Mandel’štam in particolare, ma in generale con tutti i poeti che traduce e che ama. Quel mettersi in simbiosi con un interlocutore che diventa elemento dell’io fino ad esserne parte costitutiva (sto pensando, per esempio alla lirica Es ist alles anders [E’ tutto diverso, raccolta in Niemandsrose]. E per questo possiamo comprendere ancora meglio quanto le accuse di plagio potessero ferirlo a morte.
Dal punto di vista estetico e storico-letterario ci troviamo qui agli antipodi rispetto alla Anxiety of Influence, come la chiamerebbe Harold Bloom; e anche rispetto al neopositivismo o addirittura neodarwinismo che oggi ancora sopravvive nella scienza della letteratura.
Quello che Celan (non propone, ma) pratica in tutta la sua opera è davvero contiguo a quanto Kropotkin scrive. Si tratta di un compenetrarsi tra simili, per una causa che è individuale e umana nello stesso tempo: la causa della creazione di uno spazio in cui la poesia renda instabile la topìa del reale, e metta in movimento l’utopia, la capacità di trasformazione della storia, in una realtà che è continuo progetto di liberazione. Un progetto che non avviene per opera di un singolo, isolato, ma per linee che congiungono voci associate e fuse, provenienti da spazi e tempi e lingue diverse, a tracciare i «meridiani» di una «Kinderlandkarte» (p. 202) [17], a delimitare uno «Zeithof des Gedichts» [18], sempre di nuovo «besetzbar» [19]. Un progetto capace di muovere e rivoltare le zolle della storia, avvalendosi di un «vomere» altrui (Mandel’štam, La parola e la cultura, p. 48), per parlare con un’immagine di Mandel’štam. In questo il movimento della poesia incontra la mobilitazione utopica del progetto libertario. I meridiani determinano e segnano i fusi orari. Il meridiano, figura immaginaria e terrestre, metaforica, scientifica, geografica, segno convenzionale e criterio di orientamento nello spazio e nel tempo, è la linea che ogni individuo traccia sulla superficie del reale, mettendosi in comunicazione e interlocuzione con altri, con altro. Questo semplice gesto è capace di trasformarlo, il reale, in tutti i tempi: passato, presente e soprattutto futuro.
[1] Si tratta della versione modificata del saggio apparso nel volume Il saggio tedesco del Novecento, a cura di Massimo Bonifazio, Daniela Nelva, Michele Sisto, Le Lettere, Firenze 2009.
[2] «Nibelunghi di sinistra» (Sotto il tiro di presagi, p. 125). Qui Celan si riferisce anche a certi critici attestai su posizioni di sinistra, come ad esempio Peter Rühmkorf, che misconoscono il contenuto storico, dirompente, della propria poesia tacciandola di „ermetismo“ e lontananza dalla realtà. Il saggio si avvale di una lettura degli appunti e dei frammenti di saggi raccolti in Paul Celan, Mikrolithen sinds, Steinchen. Die Prosa aus dem Nachlaß, a cura di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2005. Trad. it. Microliti, a cura di Dario Borso, dall’edizione critica tedesca di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Rovereto, Zandonai, 2010.
[3] «Uno che si è nutrito anche degli scritti di Pietr Kropotkin e Gustav Landauer» (Meridiano, p. 11).
[4] Cfr. il mio saggio in corso di stampa: Camilla Miglio, La funzione-Friedrich nella poetologia antilirica di Paul Celan, Atti del XXXIX convegno di Bressanone, La lirica moderna, a cura di Furio Brugnolo, Esedra, Padova 2012.
[5] «In vista del luogo della poesia, del farsi libera, del suo passo in avanti» (p. 11).
[6] «Afferrare come naturale, tramite l’Arte, ciò che naturale è» (p. 9).
[7] «Pensare fino in fondo Mallarmé» (p. 10).
[8] Cfr. Marianna Rascente, Metaphora absurda, Franco Angeli, Roma 2011.
[9] «Diffida del “bello”, tenta di essere vera» (Risposta a un questionario della libreria Flinker, p. 36).
[10] «Non trasfigura, non “poetizza”, esso nomina e instaura, cerca di delimitare il campo del possibile e del dato» (Ivi, pp. 37-38).
[11] «Portati con l’Arte laddove sei più ristretto in te stesso. E realizza la tua libertà (p. 18).
[12] TCAM, pp. 84-85.
[13] «La poesia vede, ancora al di là della soglia del patibolo, / la possibilità che ? spaventosa «pars pro toto» /? le teste si bacino nella cesta ? / Puoi impedire che le nostre teste si bacino sul / fondo della cesta / Camminare sulla testa / Cielo come abisso» (traduzione mia).
[14] «È un atto della libertà. È un passo» (p. 6).
[15] «È l’antiparola, è la parola che strappa il «filo», la parola che non s’inchina più dinanzi alle «cariatidi e ai destrieri da parata della storia», è un atto della libertà. È un passo. // Certo, la si può intendere – e questo non sarà un caso, se si guarda a ciò che io ora, che io oggi ardisco di dire a questo proposito –, la si può intendere dapprima come un’adesione all’Ancien régime. //Qui invece – consentite a uno che si è nutrito anche degli scritti di Pietr Kropotkin e Gustav Landauer di porlo espressamente in evidenza – qui non vi è nessun atto d’omaggio alla monarchia, a un passato che si vuol conservare. // Qui l’omaggio è reso alla maestà che testimonia della presenza dell’umano, della maestà dell’assurdo. //Tutto ciò, Signore e Signori, non ha un nome stabilito una volta per tutte, ma io credo che sia… la Poesia» (p. 6).
[16] «In ciò che è proprio del singolo parla ciò che è comune» (TCAM, p. 117).
[17] «Carta geografica per bambini» (p. 20).
[18] «Cortile/dimora del tempo/ recinto temporale della poesia»; TCAM, p. 84, 85 (traduzione dell’autrice).
[19] «Occupabile», Ivi, p. 116 (traduzione mia).
Nota biobibliografica
Paul Celan, tra i maggiori poeti del Novecento europeo, nasce nel 1920 da una famiglia ebrea di lingua tedesca a Czernowitz in Bucovina. Czernowitz, fino al 1918-19 estremo lembo dell’impero austroungarico, è sta in seguito rumena, poi sovietica, oggi ucraina. L’esperienza della guerra, la deportazione e morte dei genitori per mano nazista, la cancellazione dei luoghi d’origine dalla carta geografica, la sensazione di precarietà e minaccia permanente, esperite durante la giovinezza “all’est” lo segnano per sempre. Dopo rapide e importanti stazioni a Bucarest e Vienna si stabilisce a Parigi, dove non si sente mai veramente a casa, pur partecipando alla vita culturale francese. Si toglie la vita, gettandosi nella Senna, nella primavera del 1970. La poesia di Celan – “grata di linguaggio” – è atto estremo di interpretazione/traduzione del trauma. Dell’orrore, della morte insensata, la morte nei Lager, il dolore del popolo ebraico, delle genti dell’est e, oltre, il dolore assoluto degli oppressi e dei senza-più-patria. Una riscrittura che unifica distanze temporali e intende gettare un ponte verso il buio del futuro. Il linguaggio è il tramite di questo incessante tradurre, si muove a fronte di un testo che il dolore comanda di riscrivere infinite volte nella lingua dei suoi artefici.
Principali edizioni
Der Sand aus den Urnen. Gedichte, mit zwei Originallithographien von Edgar Jené, Sexl, Wien 1948; Mohn und Gedächtnis, Stuttgart 1952, Deutsche Verlags-Anstalt; Von Schwelle zu Schwelle. Gedichte, Stuttgart 1955, Deutsche Verlags-Anstalt; Sprachgitter, Frankfurt am Main Fischer, 1959; Der Meridian, Rede anlässlich der Verleihung des Georg-Büchner-Preises. Darmstadt, am 22. Oktober 1960 Frankfurt am Main, Fischer, 1961; Die Niemandsrose, Frankfurt am Main, Fischer, 1963; Atemkristall, mit acht Radierungen von Gisèle-Lestrange, Vaduz, Brunidor 1965; Atemwende, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1967; Fadensonnen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1968; Schwarzmaut, mit fünfzehn Radierungen von Gisèle Celan-Lestrange, Brunidor, Vaduz 1969; Lichtzwang, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1970; Schneepart, Frankfurt am Main, Suhrkamp 1971; Zeitgehöft. Späte Gedichte aus dem Nachlass, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1976; Gesammelte Werkein sieben Bänden, a cura di Beda Allemann, in collaborazione con Klaus Reichert e con la collaborazione di Rolf Bücher, Frankfurt am Main 2000 [edizione accresciuta della precedente in cinque volumi, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1983]; Microlithen sind’s. Steinchen. Die Prosa aus dem Nachlaß, a cura di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Frankfurt am Main 2005, Suhrkamp.
Traduzioni:
Poesie, a cura di Moshe Kahn e Marcella Bagnasco, Milano 1976, Mondadori; Luce coatta e altre poesie postume, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Milano 1983, Mondadori; La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino 1993, Einaudi; Scritti rumeni, traduzione di Fulvio Del Fabbro, a cura di Marin Mincu, Udine 1994, Campanotto; Di soglia in soglia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino 1996, Einaudi; Paul Celan-Nelly Sachs, Corrispondenza, a cura di Anna Ruchat, Genova 1996, il melangolo; Poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Giuseppe Bevilacqua, Milano 1998, Mondadori; Conseguito silenzio, traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Torino 1998, Einaudi; Sotto il tiro di presagi. Poesie inedite 1948-1969, traduzione e cura di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Torino 2001, Einaudi.
Edizioni del Meridian citate:
Paul Celan, Der Meridian, in Id., Gesammelte Werkein fünf Bänden, a cura di Beda Allemann, in collaborazione con Klaus Reichert e Rolf Bücher, Frankfurt am Main 1983, Suhrkamp, Band III, pp. 185-202, volume abbreviato in GWIII (ed. it. Paul Celan, Il meridiano, in Id., La verità della poesia, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino 1993, Einaudi, pp. 3-22).
Paul Celan, Der Meridian. Vorstufen– Textgenese – Endfassung.Tübinger Ausgabe, a cura di Jürgen Wertheimer, Bernhard Böschenstein e Heino Schmull, Frankfurt am Main 1999, Suhrkamp, volume abbreviato in TCAM.
Altre opere di Celan citate:
Paul Celan, Die Gedichte aus dem Nachlass, a cura di a cura di Bertrand Badiou, Jean-Claude Rambach Barbara Wiedemann, note di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Frankfurt am Main 1997, Suhrkamp; trad. it. a cura di Jutta Leskien e Michele Ranchetti, Sotto il tiro di presagi, Torino 2001, Einaudi.
Paul Celan, Mikrolithen sinds, Steinchen. Die Prosa aus dem Nachlaß, a cura di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2005. Trad. it. Microliti, a cura di Dario Borso, dall’edizione critica tedesca di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou, Rovereto, Zandonai, 2010.
Risposta a un questionario della libreria Flinker, in Celan, La verità della poesia, cit., pp. 37-38.
Altre opere citate:
Gustav Landauer, La Rivoluzione, Roma 1970, Carucci.
Pietr Kropotkin, Il mutuo appoggio, in Id., Scienza e Anarchia, a cura Giampietro N. Berti, Milano 1998, elèutera.
Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1967.
Letteratura secondaria:
[opera collettanea] Celan-Handbuch, a cura di Peter Gossens, Jürgen Lehmann, Markus May, Stuttgart 2007, Metzler.
[monografia] Gerhard Buhr, Celans Poetik, Göttingen 2007, Vanderhoeck & Ruprecht.
[monografia] Thomas Stachel, Deine allereigenste Enge – Radikale Individualität und Freiheit in Paul Celans Meridian, e-book 2003, GRIN Verlag.
[monografia] Wolfgang Emmerich, Paul Celan, Reinbek 1999, Rowohlt.
[saggio in rivista] Axel Gellhaus, Die Polarisierung von Poesie und Kunst bei Paul Celan, in: Celan-Jahrbuch 6 (1995), hrsg. von Hans-Michael Speier, Heidelberg 1995, Winter, pp. 51-91.
[saggio in rivista] Ida Porena, La testa di Medusa e l’obolo della lingua, in «AION – Sezione Germanica. Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli», XXV (1983), pp. 155-166.
[saggio in volume collettaneo] Marianna Rascente, Metafora assurda, in Camilla Miglio e Irene Fantappié (a cura di), L’Opera e la Vita. Paul Celan e gli studi comparatistici, Collana del Dipartimento di Studi Comparati, Napoli 2008, Università l’Orientale, pp. 215-229.
[volume] Ead., Metaphora absurda. Linguaggio e realtà in Paul Celan, Roma, Franco Angeli 2010.
[saggio in volume] Giuseppe Bevilacqua, Eros-Nostos-Thanatos, introduzione a Paul Celan, Poesie, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Milano 1998, Mondadori, pp. XI-CXXIX.
[da Chi sono io, chi sei tu. Su Paul Celan, cura e traduzione di Franco Camera, Genova, Casa Editrice Marietti, “Collana di Filosofia”, I ed., 1989. – ripreso da http://rebstein.wordpress.com]
Spazzata via dal
vento raggiante del tuo linguaggio,
la variopinta chiacchiera dell’esperienza
ammucchiata – la poesia dalle cento
lingue, menzognera,
il niente di poesia.
Sgombrato
dal moto vorticoso,
libero
è il sentiero nella neve
dalla forma umana,
la neve penitente,
verso le tavole del ghiacciaio,
verso le stanze ospitali.
Al fondo
del crepaccio dei tempi
nel
favo del ghiaccio
attende, cristallo di fiato,
la tua non intaccabile
testimonianza.
Weggebeizt vom
Strahlenwind deiner Sprache
das bunte Gerede des An-
erlebten – das hundert-
züngige Mein-
gedicht, das Genicht.
Aus-
Gewirbelt,
frei
der Weg durch den menschen-
gestaltigen Schnee,
den Büßerschnee, zu
den gastlichen
Gletscherstuben und –tischen.
Tief
in der Zeitenschrunde,
beim
Wabeneis
wartet, ein Atemkristall,
dein unumstößliches
Zeugnis.
***
La poesia è chiaramente suddivisa in tre strofe, che sono però composte da un numero disuguale di versi. E’ come un secondo atto dell’evento drammatico che era stato evocato nella terzultima poesia «Wortaufschüttung». (*) Quest’ultima poesia si colloca dopo l’evento cosmico che ha distrutto la falsa parvenza del linguaggio superficiale. Solo così si precisa ciò che si intende con le parole Strahlenwind deiner Sprache: si evoca un evento che irrompe da una lontananza cosmica e che, raggiante e tagliente, con la sua forza naturale «spazza via» [wegbeizt] la chiacchiera dell’esperienza in autentica depositatasi in superficie, come se spazzasse via una patina offuscante. Ma sono le pseudo-poesie tutte insieme ad essere chiamate qui bunte Gerede, «chiacchiera variopinta».
Le chiacchiere sono «variopinte» perché il linguaggio di cui si compongono queste pseudocreazioni è scelto a proprio piacimento e secondo un mero bisogno di effetti decorativi, di rivestimenti esteriori, e perciò risulta privo di un proprio colorito e di una propria favella. Si tratta di pseudocreazioni linguistiche che, proprio perché sono formate secondo gusti personali, parlano cento lingue; ma questo significa che in realtà non testimoniano nulla, oppure che prestano per così dire una falsa testimonianza. E’ questo il Meingedicht, la «poesia menzognera», che presta un «falso giuramento» e che è Geniche, un «niente di poesia», una poesia nulla, nonostante abbia tutta l’apparenza di una creazione poetica.
L’immagine dello Strahlenwind deiner Sprache, del «vento raggiante del tuo linguaggio», continua a servirsi della metafora cosmica fondamentale in cui si muoveva la poesia «Wortaufschüttung». Il «tuo» [dein] linguaggio è il linguaggio di quel «tu» che «lancia fuori» la «parola» che è come «luna»; non è quindi il linguaggio di un determinato poeta, di questo poeta particolare, ma è il manifestarsi del linguaggio stesso, dell’autentico linguaggio luminoso e chiaro. Questo linguaggio «spazza via» ogni falsa testimonianza, la allontana in modo tale che di essa non rimane più alcuna traccia. Perciò qui la locuzione Strahlenwind può richiamare le dimensioni cosmiche di questa irruzione del «vento raggiante», ma evoca anche e soprattutto la purezza, la radiosa luminosità, la vera spiritualità del linguaggio che non simula espressioni già pronte o già sentite, ma smaschera tutte queste forme in autentiche.
Ma solo dopo che il «vento del tuo linguaggio» è passato mugghiando con la sua purezza radiosa, si apre la via che porta verso il poema, verso lo Atemkristall, verso il «cristallo di fiato», che non è nient’altro che una forma pura, strutturata secondo una geometria rigorosissima e derivante dalla sospensione di quell’impercettibile «nulla» del respiro. Il sentiero è ora aperto, «libero». Il solo predicato frei, «libero», si estende per l’intera lunghezza di un verso, come pure poco prima il prefisso separabile aus-, «sgombrato», occupava un verso intero. In realtà il sentiero che ora è sgombro è diventato visibile come sentiero solo dopo che il vento luminoso ha spazzato via con un movimento vorticoso [ausgewirbelt] la neve che copriva ogni cosa e che rendeva tutto uniforme. Il «sentiero» è simile al tragitto che deve percorrere un pellegrino e che porta ad una altura coperta di ghiacci. Il pellegrino attraversa la «neve» [Schnee], attraversa l’inospitalità, il rifiuto, la freddezza, tutto ciò che richiede rinunce e si presenta uniforme e monotono, tutti ostacoli che il pellegrino penitente confida di superare da solo. Senza dubbio bisogna trasporre questa immagine nella sfera del linguaggio. Infatti a dover essere attraversata è la «neve dalla forma umana» [menschengestaltiger Schnee] . Si tratta degli uomini con le loro chiacchiere che ricoprono ogni cosa. Ma dove conduce il sentiero di questa peregrinazione? Certamente non porta a un santuario per pellegrini, ma ad una regione glaciale che, con la sua aria chiara e luminosa, accoglie l’infaticabile pellegrino come un albergo ospitale. Questa regione dai ghiacci eterni viene definita gastlich, «ospitale», perché solo fatica e tenacia permisero di raggiungerla e perciò proprio per questo in essa non domina più quel turbinìo senza senso formato dalla «neve dalla forma umana». Il tragitto di questa peregrinazione corrisponde così, alla fine, al sentiero della purificazione della parola, la quale ha rifiutato tutte le forme di attualità e tutti i linguaggi precostituiti che la imprigionano in modi differenti, e si è esercitata al silenzio e alla riflessione. E’ questa parola che guida verso un luogo ospitale l’ascesa alla montagna per una via che d’inverno non è stata ancora battuta. Dove si è abbastanza lontani dalla attualità delle occupazioni umane, si è vicini alla meta, a quella meta che è la parola vera.
Quel che là attende qualcuno si trova ancora profondamente nascosto: Tief in der Zeitenschrunde, «Al fondo del crepaccio dei tempi». Sembra si alluda a una fenditura che si apre sulla parete del ghiacciaio e che non è possibile scandagliare. Ma è un «crepaccio dei tempi», una frattura nel flusso uniforme del tempo in un luogo dove il tempo non scorre più poiché anch’esso, come tutto, è fermo in un’eternità immobile. Là, beim Wabeneis, «nel favo del ghiaccio»: anche quest’immagine si impone dal punto di vista ottico e sonoro per la sua immediatezza. E’ «ghiaccio» [Eis] che, come un «favo» [Waben] depositato a strati o formatosi all’interno di un alveare, è protetto da una struttura immutabile, vale a dire è al riparo da tutte le influenze dello scorrere del tempo. E proprio là, «nel favo del ghiaccio», wartet, «attende», il poema, lo Atem-kristall, il «cristallo di fiato». Certamente in questa immagine bisogna avvertire il contrasto che vi è tra le pareti di ghiaccio costruite tutte intorno e il minuscolo cristallo di fiato, quest’essere di brevissima durata dovuto a un miracolo geometrico, questo minuscolo fiocco di neve che turbina da solo nell’aria in una giornata invernale. Questo essere unico, piccolo, è detto tuttavia Zeugnis, «testimonianza». E’ detto unumstößliches Zeugnis, «testimonianza non intaccabile», evidentemente in chiara contrapposizione alle affermazioni di falsa testimonianza delle poesie «belle e pronte». E colui per il quale il «cristallo di fiato» testimonia (la «tua» testimonianza) sei «tu», quel familiare e sconosciuto che per l’io – che qui è sia l’io del poeta che quello del lettore – è il suo tu «tutto, tutto reale» [ganz, ganz wirklich].
[op. cit., pg. 77-80]
Nota
(*)
Wortaufschüttung, vulkanisch,
meerüberrauscht.
Oben
der flutende Mob
der Gegengeschöpfe: er
flaggte – Abbild und Nachbild
kreuzen eitel zeithin.
Bis du den Wortmond hinaus-
schleuderst, vom dem her
das Wunder Ebbe geschieht
und der herz-
förmige Krater
nackt für die Anfänge zeugt,
die Königs-
geburten.
*
Ammasso di parole, vulcanico,
sopraffatto dal fragore del mare.
Sopra,
la ciurma fluttuante
delle anticreature: lei
issò la bandiera – copia e imitazione
incrociano vane seguendo il tempo.
Fin che tu lanci fuori
la parola-luna
donde accade del riflusso il miracolo
e il cratere,
al cuore conforme,
testimonia scoperto degli inizi,
le nascite
regali.
(Certi congedi necessari da se stessi e dagli altri)
Sono giorni difficoltosi, sono mesi difficoltosi, anni addirittura. Non intendo soltanto socialmente, politicamente, globalmente, laddove gigantesche tragedie si stanno consumando ben più numerose che gioie – intendo che è tutto difficile anche sul piano personale. Per questo, progredendo verso quel banale risucchio che è il termine della vita del corpo più grossolano tra tutti quelli di cui disponiamo, ogni tanto, mi pongo domande private e le faccio in pubblico, senza pretendere né, a tutti gli effetti, desiderare un’opinione o una risposta. Che senso ha mostrarsi, apparire, chiedere e non pretendere una risposta? Ha questo senso: significare e alludere a una possibilità silenziosa che è lo sguardo.
Tale sguardo è devastato dalla chiacchiera, dalla manifestazione, dall’espressione, dai codici, dal linguaggio, dall’emotivo, dal cognitivo – si potrebbe addirittura definire l’Occidente come una storia precisa, che coincide con l’abolizione della modalità umana dello sguardo.
Mi limito a questi ultimi giorni e mi chiedo: tra tutte le voci e i contatti, gli incontri e le persone intorno a cui sono vorticato e che sono vorticate intorno a me; tra tutte le voci storiche della mia vita, che pure appunto in questi giorni ho ascoltato e che si sono interrotte per forse ascoltare la mia voce; tra tutti questi corpi visibili e non, chi mi ha davvero visto?
So, io, chi ho visto. Li e le ho visti e viste quasi tutti e tutte.
Ho visto una donna che si mette a spiarmi credendo di non essere veduta, ladri inconsapevoli, donne infelici e mentitrici per troppa inermità, silfidi intristite dall’assenza di pace e di silenzio, uomini talentuosi che ingannano il tempo e se stessi, un vecchio furbo e blasfemo, inconsapevoli psicotici o semitali i quali non escono dal cerchio che ha per circonferenza un’epidermide secca ed elettrica, un bambino stanco di essere arrivato all’età adulta, i creduloni, un uomo che sente intensamente e ricordò tisane preparate da compagne di appartamento , una donna che fatica a sentire, un disperato che è nella trappola di un matrimonio e di una nascita, una mesta intelligenza svuotarsi, una mesta stupidità ergersi, una vuotaggine abitare più involucri, una inutilità, alcuni incanti meno che cinquenni, un’anziana con due ginocchi distrutti e che parla solo a se stessa e di se stessa, un anziano con la ptosi all’occhio, miliardari e senza tetto, manager e umani mentalizzati, una malata di amore però non sapendo amore di chi, un’anziana che stende un manto protettivo su un germoglio fuori stagione.
Penso soltanto agli ultimi quattro giorni e mi rendo conto che potrei proseguire, e molto, l’elenco.
Vedere gli altri, cioè sentirli acconsentendo, sentendo insieme a loro, a conti fatti ma anche non fatti, è un’opera difficile. E’ difficile vedere e guardare, è difficile stare attenti, è difficile sentire. E’ difficile sentirsi mentre si sente l’altro.
Non ce la faccio a compiere quest’opera, il più delle volte. Mi metto in disposizione, sto attento all’attenzione, ma sfugge, mi dimentico, l’ossessione di me stesso (pensieri, preoccupazioni, certe mie intime tragedie) conquistano il campo visivo a cui sto alludendo: lo occupano tutto. Io devo scavare fenditure in un buio, perché passi luce, il medium adatto alla visione, tanto per restare in metafora.
Fatico, però tento. Tento continuamente. E’ questione a cui l’invenzione della cultura ha permesso una soluzione di comodo, e però fondamentale, perché capace di reggere un’intera civiltà: un minimo di galateo o cortesia o educazione – e il richiamo all’attenzione è istantaneo, per quanto inizialmente appaia ipocrita. L’ipocrisia della falsa cortesia è soltanto apparente: in realtà ne è vittima non chi ne è oggetto, ma chi la pratica, poiché di colpo è costretto a farsi presente, a calcolare che esiste l’altro.
Spesso, io so, amici e conoscenti ritengono che io non veda, sia distratto, troppo occupato: poiché non rispondo. Ecco una buona meditazione: “Non mi risponde!”.
Appare che io sia coperto, fasciato, da un ologramma che è stato costruito da me medesimo e dal sovrapporsi di sguardi altrui, mai smentiti, per comodità.
Cosa accade? Cosa abbiamo, qui, ora?
Ci sono persone che conosco da decenni. Queste persone stanno uscendo dalla mia vita nonostante tentino automaticamente di rimanerci, ed escono perché, oramai, pare perduta la possibilità di vedere me, vedere altri.
Ci sono persone che, in un’altissima percentuale, pur avendomi visto, non mi hanno guardato, in questi giorni, magari erano distanti fisicamente, ma non c’è distanza che regga allo sguardo a cui inerisco.
Ormai da anni vado contando, per via dell’esercizio di attenzione, quante aperture mi toccano: sono pochissime. Ispiro io poco amore? Poca considerazione? Non è l’impressione che sto traendo da una simile pluriennale esperienza.
Negli ultimi giorni, mentre come un puzzo ammoniacale andava facendosi più intensa certa mia difficoltà, conto sulle dita di una mano le persone che mi hanno visto: sono cinque.
Un’anziana che stende un manto protettivo su un germoglio fuori stagione.
Una donna malata di amore però non sapendo amore di chi.
Una donna che testardamente sta imparando a sapere di non sapere e a sentire che sente.
Un uomo che continua a parlarmi di suo padre anche se non ne parla, e mi parla del mio, anche non accorgendosene.
Una piccina.
Nelle ultime ventiquattr’ore la realtà mi ha mostrato un ordine di azione schizoide: essa è malata, indubitabilmente malata. Ciò significa che esiste una componente mia altrettanto malata: alla medesima maniera e intensità. E’ impossibile, tuttavia, che persone vicine o meno, con le quali si sono allestiti progetti comuni di natura pratica o affettiva, nemmeno siano sfiorate dalla domanda su cosa stia accadendo a questa persona che le guarda e ascolta “io”.
E’ una lezione antica e tutta rivolta al me stesso che è il piloto di questa navicella.
Gli “umani dallo sguardo più acuto” della quinta delle Enneadi di Plotino sono, in definitiva, il termine ultimo a cui questo sguardo conduce.
Il mio tempo, cioè il tempo di Giuseppe Genna, segna un’ora buia e contagiata, mi pare: l’ora oceanica, nell’arco della quale si rovescia molto. Pochissimi sguardi (il cristico amante di chi “io” non ha, certe donne, l’unico amico) giungono a interessarsi della zona superficiale di me e perforano nel silenzio, penetrandomi fino ad alveoli e ventricoli che nemmeno io posso osservare, poiché “l’occhio non vede se stesso”.
Accuso il colpo? Accuso qualcuno, qualcuna?
Esiste frustrazione o rancore in me?
Vergogna? Disgusto?
Impazienza?
Ira?
E’ molto difficile stare in quello che Plotino denomina “un luogo vero e familiare”. Il pensiero: un luogo della verità e della coappartenenza.
Nell’Iperione, Hölderlin:
“Io, l’antipatia di tutti i ciechi e di tutti gli storpi e tuttavia per me stesso troppo cieco e troppo storpio a mia volta a me stesso, anzi, così profondamente molesto in tutto ciò che, anche solo da lontano, mi rende affine ai troppo saggi e ai sofisti, ai barbari e ai belli spiriti e così pieno di speranza, così pieno dell’esclusiva aspirazione a una vita più bella…”
O Celan in La rosa di nessuno:
Dentro gli occhi smarriti – leggi:
le orbite astrali, e del cuore, il bel
vorticoso Invano.
Le morti e tutto ciò
che ne venne. Delle generazioni
la catena, che
qui giace sepolta
e qui ancora pende, nell’etere,
sfiorando abissi. Di tutti
i volti la scrittura, in cui
si conficcò, sabbia sibilante, la parola – infime
eternità, sillabe.
Tutto
ebbe ali, anche
ciò che più pesa, nulla
che trattenesse.
Scrisse Seneca a Lucilio:
Le belve evitano i pericoli che vedono e, una volta schivatili, si sentono al sicuro: noi ci tormentiamo e per il futuro e per il passato. Molte nostre prerogative ci nuocciono; la memoria rinnova l’angoscia della paura, il prevedere il futuro ce l’anticipa; nessuno è infelice solo per il presente. Stammi bene.
“Io” mi tormento molto, mi tormenta molto. Tutti.
Nulla che trattiene è lo sguardo puro, finalmente: è tutto qui, ora, alla mano, molto concreto.
È nobile cosa la povertà accettata con gioia.
Sono questo dopo tutto.
Io non credo che esista la paratassi. Ovviamente esiste, ma è un’astrazione rispetto a un continuum auditivo-mentale, che è proprio della lettura interna, e ciò a partire da un’astrazione rispetto al continuum fonico ritmico. Se ci si illude che il punto o la sintassi che si ferma significhi davvero stop e silenzio, ovviamente il mio discorso non fa presa. Ciò che conta è il ritmo, non la paratassi. Nel senso che un conto è se, come fa Vittorio Sereni ne Gli strumenti umani, si pone una “distrazione” al culmine di una poesia apparentemente “paratattica”, con un verso dissonante e appositamente brutto, ellittico, dopo un punto (in un motivo che è un contrappunto oppure una fuga?):
“Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.
Una luce mai vista.
Fiori che in agosto nemmeno te li sogni. Sangue a chiazze sui prati,
non ancora oleandri dalla parte del mare.
Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.
Ventilata domenica tirrena.
Sono già morto e qui torno?
O sono il solo vivo nella vivida e ferma
nullità di un ricordo?”
Qui è evidentemente la paratassi per come la si intende genericamente, ma non perché manca la copula o un verbo reggente, bensì per il contrasto interno – e clamoroso – tra bisillabismo di tradizione petrarchesca ed euritmia fonica petrarchesca, cioè evitamento o rottura degli archi tra assonanze e opposizione all’idea del continuum come se fosse esclusivamente armonico – e di fatto, questo verso si mangia da solo, per quanto mi riguarda, tutta l’apparente depetrarchizzazione che è stata spacciata da certo sperimentalismo (che invece è montaliano e, quindi, eufonico petrarchisticamente anche quando si pretende antistilistico). Un altro conto è invece fare ciò che segue e che potrebbe essere benissimo celebrato tra i più alti risultati linguistici in termini di paratassi nella nostra poesia contemporanea:
“Valle, conca di pietre bianche.
Va vecchia la donna,
con abiti sprovvisti, per non tornare.
Le scarpe, la spilla. E i fiori,
giovanili mondi
negli occhi, nel finire.
Cadenzato il respiro, vuoto.
Sentiti alberi, amati alberi.
Fracassato viso, rigagnolo lento
dove non è il tornare, assunta primavera”.
Questa poesia di Mario Benedetti (da Pitture nere su carta, Mondadori, 2008) è stata avvicinata da alcuni critici a Celan, che è in Italia considerato un esempio insuperabile di paratassi poetica. Tale generalissima indagine è fallace, sia a proposito di Celan sia a proposito di Mario Benedetti. E ciò poiché l’unità, che qui è il verso, supera la spezzatura paratattica – ma non è che in prosa accada diversamente (si veda New Thing di Wu Ming 1). Per esempio, nel primo verso (”Valle, conca di pietre bianche.”) la dynamis del primo accento in prima sillaba è vorticosamente rilanciata dal secondo accento, per poi andare in calare, a fare esaurire l’accelerazione con l’accento in “a” semifinale. Una volta di più è messo in crisi il bisillabismo. Cioè: il ritmo mette in discussione la sintassi. Laddove pare esserci ipotassi (”Va vecchia la donna, | con abiti sprovvisti, per non tornare.”) è invece ottenuto un effetto di spezzatura paratattica: anzitutto perché i primi due accenti coincidono con le due prime sillabe (il che ha come conseguenza uno stop mentale e fonico) e poi per l’opposizione fonica e ritmica “-sti, per”.
D’altro canto, detto che si ottenga ritmicamente e non sintatticamente un effetto definibile come paratattico, avviene comunque una sorta di scivolamento ideale verso l’allegorico. Perché sembra essere più congeniale all’allegorico l’effetto paratattico? Perché quando il ritmo si spezza, allora il silenzio emerge come parte attiva del continuum – e solo nel silenzio si gioca retoricamente l’allusione: l’allusione è sempre linguisticamente finale, è sempre allusione al silenzio, all’extralinguistico.
L’allegorico è l’allusivo
Ma qui, in questo snodo decisivo del linguaggio e della retorica, che è un punto al calor bianco della letteratura, si gioca tutta una metafisica incompresa, dal momento che perfino Lukàcs va a fare celebrare un supposto trionfo di Bergson sull’Eleatismo nei suoi appunti su Dostoevskij – si pensa che silenzio sia “essere” e che il divenire sia opposto all’essere sullo stesso piano. Cioè, sul piano parallello linguistico: il silenzio sarebbe opposto alla parola. Non è ovviamente l’insegnamento eleatico: il divenire “è”, altrimenti non diverrebbe, non sarebbe e basta. Quindi, sul piano linguistico, il silenzio è la sostanza da cui emergono, in susseguenti salti del continuum vibratorio i suoni e le parole come forme.
Non c’è opposizione tra ritmo e silenzio.
L’allegoria aperta, e molto citata, di Benjamin diviene, sotto risguardo linguistico, una forma di allusione, che esige la non finitudine. Il silenzio (o, in termini ontologici, l’attesa infinita del Messianico in Benjamin) è l’esito ma anche l’inizio e anche l’eonico, cioè il costantemente “qui e ora”, prima di ogni configurazione formale.
Ciò io chiamo “vuoto”. Il vuoto “è”, non è vero che è niente: ed è per sua propria energia una mobilità statica, un assente che si condensa – in fantasmi (nel senso aristotelico; o archetipi, più familiarmente e imprecisamente) e poi intuizioni percettive interne, campi di senso, percezioni sensoriali, cose infine, a mano a mano che la condensazione si fa pesante nello spettro dell’umano. Questa precisazione, del tutto contestabile secondo prospettive altre, mi interessa rispetto a uno dei simboli formali della narrazione, dell’intervento salvifico e finzionale: cioè il simbolo mercuriale o caduceo. Dal punto di vista strutturale, il caduceo è di fatto un intreccio (cioè la trama, la tramatura) di due personaggi che si annodano e finiscono per osservarsi – e questo è il simbolo non nel senso figurale, bensì nel suo carattere cristallizzato. Però lo sguardo tra le teste delle due serpi avviene nel vuoto e il bastone attorno a cui si aggrovigliano i due personaggi-serpi non esiste: né oggettivamente né testualmente. Ciò che produce l’incontro di sguardi è l’emersione del vuoto come possibilità di incontro, coincidenza con l’altro, empatia – o, più iniziaticamente, assenza dell’ego del personaggio (non, purtroppo, dell’autore). Il silenzio come sostanza non-sostanza, spinozianamente.
La desimbolizzazione è un processo che deve tenere presente questa distinzione semantica: c’è il simbolo fermo (che tutti chiamano “simbolo”) e c’è un simbolo veicolare, che qui si è chiamato “figura”, il cui statuto ontologico è il vuoto.
La mandorla a cui allude Paul Celan, in questa poesia tratta da La rosa di nessuno, è un elemento decorativo romanico, gotico e bizantino-ortodosso, di forma ogivale, utilizzato per dare risalto alla figura sacra rappresentata al suo interno, nella tradizione orientale spesso pittato a lapislazzulo. Usata nell’affresco o nell’arte musiva, per raffigurare, di solito, il Creatore o il Cristo o la Madonna in maestà, spesso attorniati all’esterno della mandorla da altri soggetti sacri. La sovrasignificazione di Mandorla è data, nella poesia di Celan, anche dal richiamo effettuato attraverso l’originale tedesco per “mandorla”, cioè “Mandel”, che rimanda al poeta Mandel’stam. A ciò si aggiunga l’allusione a un precedente testo di Celan, apparso in Papavero e memoria, in cui, oltre alla dialettica tra i due occhi che si guardano e l’occhio che si chiude, la chiusa suona “Conta me tra le mandorle”.
Mandorla
In der Mandel – was steht in der Mandel?
Das Nichts.
Es steht das Nichts in der Mandel.
Da steht es und steht.
Im Nichts – wer steht da? Der König.
Da steht der König, der König.
Da steht er und steht.
Judenlocke, wirst nicht grau.
Und dein Aug – wohin steht dein Auge?
Dein Aug steht der Mandel entgegen.
Dein Aug, dem Nichts stehts entgegen.
Es steht zum König.
So steht es und steht.
Menschenlocke, wirst nicht grau.
Leere Mandel, königsblau.
Mandorla
Nella mandorla – cosa sta nella mandorla?
Il nulla.
Nella mandorla sta il nulla.
Lì sta e sta.
Nel nulla – chi sta? Il re.
Lì sta il re, il re.
Lì sta e sta.
Ricciolo ebreo, non diventare grigio.
E il tuo occhio – per dove sta il tuo occhio?
Il tuo occhio sta davanti al nulla.
Sta verso il re.
Così sta e sta.
Ricciolo d’uomo, non diventare grigio.
Mandola vuota, blu regale.
Ricevo e pubblico questa straordinaria versione italiana di Psalm di Paul Celan: una versione curata da Donata Feroldi ed Enrico Cardesi, la quale, insieme a a quella firmata da Helena Janeczek (leggibile qui), rende giustizia a un testo che la traduzione di Giuseppe Bevilacqua (finita purtroppo nei Meridiani di Mondadori) traslava in un italiano abbastanza datato.
SALMO
Nessuno ci impasta di nuovo da terra e fango,
nessuno rianima la nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno.
Per amore tuo vogliamo
fiorire.
Incontro a
te.
Un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, noi, in fiore:
la rosa di Nulla, di
Nessuno.
Con
il pistillo chiaro-anima,
lo stame deserto-cielo,
la corolla rossa
per la parola porpora, che cantammo
al di sopra, oh al di sopra
della spina.
***
PSALM
Niemand knetet uns wieder aus Erde und Lehm, | niemand bespricht unsern Staub. | Niemand. | | Gelobt seist du, Niemand. | Dir zulieb wollen | wir blühn. | Dir | Entgegen. | | Ein Nichts | waren wir, sind wir, warden | wir bleiben, blühend: | die Nichts-, die | Niemandsrose. | | Mit | dem Griffel seelenhell, | dem Staubfaden himmelswüst, | der Krone rot | vom Purpurwort, das wir sangen | über, o über | dem Dorn.
“La crisi della letteratura, così come lo conosciamo, ebbe inizio nel tardo Ottocento. Essa scaturì dalla consapevolezza della frattura tra il nuovo senso della realtà psicologica e le vecchie forme dell’espressione retorica e poetica. Per articolare la consapevolezza aperta alla sensibilità moderna, alcuni scrittori cercarono di uscire dai confini tradizionali della sintassi e della definizione. […] Speravano di ridare alla parola il potere dell’incanto – di evocare cose senza precedenti – che la scrittura possiede quando è ancora una forma di magia, usando la scrittura stessa in modi nuovi per passare dal reale al più reale.
[…] A uno scrittore che avverta che la condizione del linguaggio è posta in discussione, che la parola può forse perdere qualcosa del proprio genio umano, si presentano due linee di azione fondamentali: può cercare di far sì che il proprio idioma si rappresentativo della crisi generale, di comunicare tramite esso la precarietà e la vulnerabilità dell’atto comunicativo; oppure può scegliere la retorica suicida del silenzio. Le fonti e lo sviluppo di entrambi questi atteggiamenti sono visibili con estrema chiarezza nella letteratura tedesca moderna, scrittà com’è nel linguaggio che ha più pienamente incarnato e subìto la grammatica del disumano.”
Sebbene non sia questa la sede per un raffronto tra prospettive di sguardo e di immagine emergenti in Antonio Porta e in Paul Celan, poeti apparentemente molto distanti per lingua e temi e ritmi, mi permetto di commentare brevemente, in maniera volutamente sintetica e orientata, due loro poesie in parallelo: da Week End di Porta (1971/73) il quinto movimento di Lettere; e da Sprachgitter (1959) di Celan, la poesia Nacht.
Ciò che mi importa evidenziare è la compresenza di umano ed extraumano in diverse modalità convergenti tra i due testi. E’ all’immagine e alla parola in quanto forme, in quanto limitazioni “dure” del possibile che, per quanto avverto, si rivolge il canto, in entrambi i casi spezzato, che non è più canto dell'”io” e nemmeno elegia o stilema epico o tragico. Questo è per me il contemporaneo – sempre. Continua a leggere “Umano ed ultraumano: Porta e Celan”
Come già annunciato, tutto il romanzoHitler ruota attorno a una crepa, a una rottura, i cui lembi sono due pagine nere: si tratta del kaddish personale Apocalisse con figure (un titolo mutuato da Grotowski), il cui testo è stato anticipato inedito da l’Unità e letto a Officina Italia a Milano, in una versione ridotta e differente rispetto alla sezione interna al libro. Potete leggere una delle versioni qui e qui ascoltarne la lettura, mentre qui è acquistabile il libretto cartaceo della versione integrale stampato su Lulu.com.
Prima della chiusura per ferie invernali, su questo sito ho deciso di tentare la traduzione in slideshow di Apocalisse con figure: si tratta ovviamente di un analogon, che cerca di rispettare il comandamento poetico ed etico che viene conferito da Claude Lanzmann a qualunque tentativo di intrudersi storicamente o, peggio, esteticamente, nella questione della Shoah. Non ho dunque creato un’installazione come quelle già realizzate – qui non esiste alcun intento artistico, bensì il tentativo di abolire la vista a favore di quella che Lanzmann chiama “trasmissione” e Celan “testimonianza”.
Non è dunque un’installazione: come il romanzo Hitler è un romanzo, così questa è una installazione.
Al solito: essa è scaricabile e visionabile in versione html per Mac e Pc, oppure solo per Pc in file eseguibile (per vedere a schermo intero, cliccare sulla freccina obliqua arancione in basso, una volta downloadato il file e fattolo partire). Dato il peso, che si aggira intorno ai 5 megabyte, si consiglia il download a chi disponga di adsl o banda larga.
• Apocalisse con figure – slide – versione html (4.9M)
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• VISIONE PADRE – slideshow – 7.3M – 15’05” L’installazione VISIONE PADRE ha sortito i medesimi effetti della pubblicazione on line (e cartacea su Lulu.com) di Medium: sono arrivate molte mail di condivisione di esperienza, con taglio diverso da quelle che mi hanno inondato la casella di posta elettronica a proposito del romanzo. C’è una domanda ricorrente, che è anfibia, circa una parte per me decisiva dell’installazione: cioè la sequenza estesa e molto ritmata in cui volti si sovrappongono a volti – evidentemente volti di scrittori. Viene chiesto, dai lettori che mi hanno scritto, se è possibile specificare la sequenza delle identità degli autori e il motivo per cui proprio quegli scrittori e non altri sono fatti apparire. Rispondo all’ultima questione, anzitutto, prima di dare la sequenza precisa dei nomi. Ai volti degli scrittori, secondo intervalli irregolari e aritmici, si sovrappongono il volto di mio padre e il mio. Gli scrittori sono quelli della mia formazione, desunta dalla libreria in salotto quando ero piccolo. Manca il volto del primo autore che ho letto in assoluto, cioè lo Charrière di Papillon. La mia formazione si sovrappone poi all’aggiornamento finale che mio padre ha da me recepito, circa alcuni contemporanei e anche autori più classici che si mise a rileggere. Ciò sta a significare che un dialogo tra figlio e padre è avvenuto attraverso la letteratura – si tratta quindi di un profondo ringraziamento da parte del figlio.
Ecco, ora, la sequenza intera dei volti e dei nomi, che inizia all’accelerazione di Useless dei Depeche Mode nella versione remix di Dave Clarke, al minuto 4’50” e dura 1’30” (ricordo che per visionare l’installazione, basta scaricare il file .exe e cliccare due volte sull’icona blu che apparirà; per vedere a schermo intero, un clic sulla freccina obliqua in basso alla schermata; il download è consigliato per chi dispone di fibra ottica o adsl): mio padre – Dante Alighieri – Thomas Stearns Eliot – William Seward Burroughs – mio padre – Giacomo Leopardi – il sottoscritto – Paul Celan – Louis Ferdinand Céline – Wallace Stevens – Howard Philip Lovecraft – Franz Kafka – mio padre – Michel Houellebecq – Don DeLillo – il sottoscritto – Edgar Allan Poe – Herman Melville – Leon Tolstoj – Fedor Dostoevskij – il sottoscritto – Walter Benjamin – Pier Paolo Pasolini – mio padre – Platone – Aristotele – Plotino – mio padre – il sottoscritto – mio padre.
NB. Ai lettori che hanno chiesto circa la voce e il testo della chiusura, specifico che si tratta di me mentre leggo un cut-up dalla pagina finale del Dies Irae, sull’immagine dell’Imperator Mundi di Andrea Mantegna.
A Parigi Celan prende alloggio nelle vicinanze della Sorbona, in una stanzina (per altro con balcone) all’ultimo piano di un modesto albergo: per quasi cinque anni il suo umile indirizzo sarà: Hôtel d’Orléans (più tardi Hôtel de Sully), 31 rue des Écoles. Si iscrive all’università scegliendo germanistica e scienze del linguaggio, e già nel luglio del 1950 consegue la Licence ès-Lettres che può aprirgli qualche prospettiva di un’occupazione stabile e più redditizia di quanto non siano gli incarichi saltuari (traduzioni, ad esempio da Cocteau e Simenon, lezioni private, ecc.) con cui campa nei primi anni parigini. L’ostacolo principale era il fatto di essere un rifugiato staniero, il che gli impediva l’accesso a qualsiasi attività in scuole o enti pubblici: otterrà la cittadinanza francese soltanto nel 1955, dopo lunghe ed estenuanti pratiche. E dovrà ancora attendere, prima di avere un lavoro a lui confacente: nel 1959 infine diventerà lettore di lingua tedesca presso l’École Normale Supérieure e avrà una sua stanza in rue d’Ulm, dove si trattiene volentieri.
Come già a Bucarest e a Vienna, Celan, che per sua inclinazione è molto socievole, cerca di allacciare rapporti con quell’avanguardia letteraria francese che aveva suscitato un suo precocissimo interesse e che la lontananza aveva quasi rivestito di un mitico alone. Fin dal soggiorno a Tours si era provato in traduzioni poetiche dei principali rappresentanti della poesia francese contemporanea.
Nell’estate del 1948, a Parigi, un giovane frequentatore del gruppo surrealista deve recarsi a Vienna per un breve soggiorno: è Jean-Dominique Rey. Breton (http://www.lm.com/~kalin/breton.html), saputo della sua imminente partenza, gli affida l’incarico di «portare i suoi saluti surrealisti all’amico Edgar Jené», che non ha più rivisto dopo il ritorno dagli Stati Uniti. Rey, a Vienna, assolve l’incarico, ma poco dopo ritorna a Parigi con un’analoga incombenza: portare i saluti di Jené a quel «grande poeta che è Paul Celan». E così un giorno egli sale le lunghe scale che portano al cubicolo di rue des Écoles. Di questa prima impressione, e della successiva frequentazione amicale, Rey ci ha lasciato una sottile, toccante testimonianza, che sentiamo come assolutamente veritiera: «L’uomo colpiva per la sua dolcezza, la sua cortesia, la sua tristezza. Più di una volta m’accadde d’imbattermi in lui prima che egli mi scorgesse: il suo modo di camminare, lento, leggermente ondeggiante, sembrava, a seconda dei giorni, quello di un poeta abitato dal verbo o di un sisifo indotto alla disperazione. Non vi era mai indifferenza nella sua andatura. Ma, appena ti vedeva, prendevano il sopravvento il suo charme e la sua cortesia. Il sorriso, leggermente sfuggente, indicava una specie di distanza invalicabile tra il mondo e lui, della quale però egli non lasciava percepire altro che il velo di cui si adombrava».
Naturalmente Rey si presta a introdurre il giovane poeta rumeno-tedesco, che peraltro non ha ancora pubblicato quasi nulla, nella cerchia surrealista che si riunisce periodicamente ai Deux Magots e talora anche nell’abitazione di Breton: ma tra quest’ultimo e Celan non si crea, non può crearsi, alcuna assonanza, ed è quasi subito rottura; troppo divergenti stanno ormai diventando gli orizzonti poetici dei due autori. Analogamente un tentativo di avvicinare l’ammiratissimo Paul Éluard si risolve in uno scacco. Credo che la poesia In memoriam Paul Eluard (in Von Schwelle zu Schwelle) abbia una doppia valenza, cosa non rara in Celan. Al poeta morto viene rimproverato di avere negato solidarietà non solo a chi gli era stato compagno politico ma anche a chi gli era compagno nella poesia, ossia Celan stesso. E l’ultima strofa contiene la speranza-profezia di una postuma comunanza nel riconoscimento della comune appartenenza all’Eliso: nell’occhio del poeta francese, che è ancora azzurro perché tale lo conserva la sua fama perenne, forse un giorno entrerà un secondo, più estraneo azzurro, anch’esso imperituro, e i due poeti sogneranno insieme la parola: Noi.
Anche il rapporto tentato con un altro amatissimo autore lirico francese, Henri Michaux, era destinato a fallire. Ecco come in un breve necrologio dettato subito dopo la scomparsa di Celan, Michaux (http://www.lm.com/~kalin/michaux.html) cercò di chiarire a posteriori, anzitutto a se stesso, le ragioni di un sodalizio cercato da entrambi e fallito: «Sulla strada della sua esistenza Paul Celan trovò grandi ostacoli, grandissimi, molti pressoché insormontabili, un ultimo insormontabile del tutto. In questo penoso periodo noi ci siamo incontrati… senza incontrarci. Abbiamo parlato per non dover parlare. Troppo grave era, in lui, ciò che era grave. Non avrebbe permesso che vi si penetrasse. Per bloccare aveva un sorriso, tante volte, un sorriso che era passato per tanti naufragi. / Facevamo finta di avere anzitutto dei problemi riguardanti la parola. / In un letto di neve, nel suo Schneebett desolato, disperante, mirabilmente duro, il poeta ineguagliato riposa, e farà per sempre riposare in un modo strano, particolare, quelli che in qualsiasi riposo continuano a sentire disagio».
Nel grande calderone della Parigi del dopoguerra Celan avrà semmai qualche contatto con altri “allogeni”, anzitutto i grandi emigrati rumeni: va a trovare il vecchio Brancusi, nel suo eremitaggio-atelier di rue Ronsin (il ricordo di questa visita darà luogo più tardi a una splendida poesia); incontra Cioran (http://sunshine.sunshine.ro/~bogdani/cioran.htm), di cui traduce dal francese al tedesco il Précis de décomposition; entra in rapporto con l’alsaziano Ivan Goll, già gravemente ammalato di leucemia; l’aiuta nel suo lavoro e gli dona del sangue per trasfusione. Maggiori probabilità di entrare, con adeguato riconoscimento, nella comunità letteraria del paese che lo ospita, Celan avrebbe avuto se si fosse risolto a scrivere in francese, come fanno gli scrittori or ora citati e Ionesco, Tzara, e persino un altro, già ben affermato: Samuel Beckett. Ma per Celan l’intransigente fedeltà alla lingua materna è qualcosa di più che il frutto di un calcolo letterario: è – si vorrebbe dire – un voto. È il legame, intoccabile perché unico oramai, con la sua origine sommersa, come dirà nell’allocuzione per il conferimento del premio della Città di Brema. Quasi nessuno tra gli scrittori francesi con cui entra in contatto è in grado di leggere i suoi versi nell’originale. Così l’isolamento è più o meno inevitabile.
Esso è un po’ alleviato dalla temporanea presenza a Parigi degli amici viennesi. Della primavera del ’49 è la visita di Dor: «Dormii sul divano, nella sua stanzetta, e trascorremmo insieme tre settimane meravigliose durante le quali, pieni di folle speranza, cominciammo a credere che un giorno anche a Vienna le cose sarebbero andate meglio, tanto da permettergli di tornare a casa. [Celan] infatti conservava una rara fedeltà verso Vienna come verso una patria che aveva perduto ma avrebbe un giorno recuperato». A Parigi, con una borsa di studio per l’anno accademico 1949-50, soggiornava anche Klaus Demus, l’amico fraterno, il confidente: anche nelle spesso aggrovigliate faccende di cuore; e durante tutto l’anno accademico successivo fu a Parigi la fidanzata di Demus, Anna (Nani) Maier. A quest’ultima – a proposito della tentata integrazione nell’ambiente parigino – Celan scrive, in una lettera databile alla primavera del 1951: «Sa, Nani, mi è sempre più chiaro che io devo limitare la frequentazione al novero delle poche persone che so vicine al mio cuore – di tutte le altre, anche se transitano nel mondo ben visibili, non so quasi che farmene».
È ancora per l’intervento di amici viennesi che finalmente nel 1952, dopo quattro anni come di sospensione nel vuoto e di incertezze, la navicella di Celan si rimette in movimento. Tutto questo però passa attraverso la Germania, dove, a differenza che in Austria, la vita letteraria si sta riorganizzando, grazie a quel significativo centro di coagulazione che sarà poi famoso come Gruppo 47. Nel maggio del 1951, durante l’incontro di Bad Dürkheim, il gruppo era stato affascinato dalla fresca apparizione di Ilse Aichinger che aveva letto, con grazia viennese, un proprio racconto pieno di rattenuto lirismo. Nel maggio del 1952 l’annuale riunione si tiene nel villaggio di Niendorf nei pressi di Amburgo: la Aichinger viene naturalmente di nuovo invitata, e anzi, con ventisette voti contro i diciassette di Walter Jens, ottiene il terzo premio letterario del Gruppo 47, organizzato e bandito dall’infaticabile animatore Hans Werner Richter. Ma la Aichinger porta con sé un’altra giovane scrittrice austriaca: Ingeborg Bachmann (http://www.cs.uchicago.edu/~schaefer/pi/bachmann.html), che a sua volta – con l’appoggio di Reinhard Federmann e dello stesso Dor che è già saldamente inserito nel gruppo – ottiene un invito per lo sconosciuto poeta venuto dal lontano Est dell’impero scomparso. L’esperienza di Niendorf fu per molti versi negativa per Celan e segnò la sua separazione, mai più revocata, dal Gruppo 47. A Niendorf il proscenio è tenuto dalla premiata Ilse e dalla nuova rivelazione Ingeborg; che a sua volta pone le premesse per il premio che le verrà assegnato l’anno successivo. Celan legge Schlaf und Speise e altri testi non adatti a catturare l’attenzione e il giusto apprezzamento della piccola platea di autori il cui primo impegno è di introdurre nella letteratura momenti di concreta attualità e di rompere con il lirismo tradizionale. Ora per l’appunto Schlaf und Speise reca ancora qualche traccia della lezione rilkiana; mentre non è abbastanza nettamente percepibile l’apporto nuovo, che pure già si annuncia. (…)
Probabilmente a Niendorf Celan è toccato dal fatto di non essere riconosciuto per quello che egli sente di essere e di valere; forse si confronta mentalmente con gli altri autori che si avvicendano sulla famosa “sedia elettrica” per sottoporsi al giudizio del gruppo: «Mio caro Klaus, è così difficile dire cosa debbo pensare di tutto questo – è stato stimolante e tuttavia quasi del tutto senza valore». Così inizia una lunga lettera da Francoforte, scritta sei giorni dopo la conclusione del convegno di Niendorf. Ma più avanti il tono diventa aspro. Celan ha letto anche Todesfuge, che avrebbe dovuto meglio corrispondere all’impostazione attualistica del gruppo. Ma ecco come ne riferisce: «Lassù sono stato insultato. Hans Werner Richter […] disse infatti che le mie poesie gli sono così ripugnanti anche per il fatto che io le avrei lette con “il tono di voce di Goebbels”. Guarda cosa mi tocca sopportare!».
Il “viaggio” a Niendorf, quantunque deludente o persino umiliante, ebbe per Celan uno sviluppo positivo e importante. Nel 1952 il premio del Gruppo, andato alla Aichinger, era stato sovvenzionato dalla Deutsche Verlags-Anstalt (DVA), una dinamica casa editrice di Stoccarda interessata alla produzione lirica. Con essa, in quella occasione, il poeta poté entrare in contatto. Ebbe così inizio la trattativa per una pubblicazione in volume. Sperando in una rapida intesa, Celan già in luglio – come scrive in una lettera del 23 a Demus – fa una puntata, purtroppo del tutto infruttuosa, a Stoccarda: «Un soggiorno di mezza giornata, che non ha soddisfatto una sola speranza – le poesie non vengono pubblicate e non ho avuto assegnata neppure una traduzione». Ma due mesi dopo la DVA cambia opinione e Celan, in data 27 ottobre, dopo essersi lamentato perché la sua richiesta di cittadinanza francese è stata respinta, può aggiungere trionfalmente: «Ma – un grosso ma – le mie poesie usciranno! Perfino molto presto, in dicembre. Sono sessanta poesie – tu hai l’elenco –, un sottile volumetto, legato in tela, dunque proprio come avevamo desiderato. Rallegriamoci, Klaus!
Papavero e Memoria
Il titolo Mohn und Gedächtnis fu scelto, si deve supporre, non prima dell’estate del 1952, nell’imminenza della pubblicazione.
Per il resto Mohn und Gedächtnis costituisce una selezione – più rigorosa che non quella, ripudiata, del 1948 – di tutta la poesia precedente, con netta prevalenza della produzione anteriore al trasferimento a Parigi. In connessione con il binomio del titolo, i nuclei tematici sono essenzialmente due: dolente ricordo dei lutti familiari e della strage, e viva rappresentazione di situazioni amorose.
Il primo tema trova la sua massima e celeberrima espressione nella Todesfuge, di cui Celan sottolineò allora la centralità ponendola a sé, tra le venticinque poesie del primo ciclo e le trenta del secondo e terzo ciclo. Per più anni questo poemetto fu quasi una sigla distintiva della poesia di Paul Celan e veicolo primario della sua rapida notorietà iniziale: non senza buone ragioni, perché nella Todesfuge musicalità del dettato ed efficacia dell’evocazione metaforica raggiungono un perfetto equilibrio. Questa cantabile elegia fu a un tratto il cavallo di Troia di un tema che in quei primi anni Cinquanta era ancora largamente tabuizzato in Germania. (…)
Il poeta del resto ne ebbe una consapevolezza anticipata rispetto alla coscienza critica comune. Già in Argumentum e silentio, una composizione ampiamente orchestrata e non a caso dedicata a René Char, aveva denunciato il fatto che «la notte», ossia i tempi bui della storia recente, è «messa alla catena / tra oro e oblio». Questa poesia sta in Von Schwelle zu Schwelle del 1955 e, con gli altri versi che formano l’ultimo ciclo di questa raccolta, si protende già verso una tematica destinata a diventare predominante nella raccolta successiva.
Todesfuge è la più nota ma non la sola poesia di Papavero e Memoria che tratti della persecuzione e della strage. In posizione eminente è anche Ein Lied in der Wüste, poiché questo “canto” apre il volume, come già stava all’inizio del secondo ciclo di Der Sand aus den Urnen. Qui la stilizzazione melodica è ancora più manifesta; lo scenario è trasposto entro l’orizzonte di un’immaginaria città dal nome misteriosamente orientale o biblico. Vi sono immagini indubbiamente suggestive, come quelle degli anelli che arrugginiscono alle dita dei morti, ma tutto è sfumato e avvolto in un’aura favolosa, sicché non meraviglia che Karl Schwedhelm, recensendo il volume d’esordio di Celan, scrivesse: «Le sue visioni non sono sapute, sono sognate come nei quadri di Chagall (http://lonestar.texas.net/~mharden/artchive/ftptoc/chagall_ext.html). […] Con Celan ha fatto la sua comparsa una potenza poetica che afferra l’indicibile per i suoi margini e prende sul serio, come una realtà estrema, la parola». La parola che intende Schwedhelm non è certo quella che di lì a poco vorrà intendere Celan nel suo Argumentum e silentio, ossia das erschwiegene Wort, la parola «conquistata tacendo».
Di Soglia in Soglia
Nella già citata lettera del 23 luglio 1952 dalla località alpina di St. Johann ob Hohenburg, nella quale Celan comunicava il deludente risultato presso la DVA, vi è un’altra notizia che allora poté sembrare marginale ma, alla luce degli sviluppi posteriori, si rivelò ricca di implicazioni: Celan fa sapere ai suoi amici viennesi, che si trovano in villeggiatura in Carinzia, poco lontano da St. Johann, di volerli incontrare, anche perché desidera presentare loro la persona che lo accompagna: Gisèle de Lestrange. Alla coppia che di recente si era unita in matrimonio Celan vuole far conoscere codesta gentile Fräulein Seltsam: vuole evidentemente ufficializzare la nuova unione. (…) E l’incontro avviene, grazie all’accogliente ospitalità nella casa natale di Nani Maier, sulle sponde del lago di Millstatt, uno dei più bei luoghi della Carinzia. Pochi mesi dopo Paul e Gisèle si univano in matrimonio. Inizia così sullo scorcio di quel 1952, segnato anche dalla prima importante pubblicazione, la convivenza del poeta con la giovane e avvenente parigina conosciuta due anni prima e dedita all’arte grafica.
L’ansia di integrazione nella nuova realtà – e di una ritrovata normalità di vita – si può dedurre anche dal fatto che già un anno dopo, nell’ottobre del 1953, nasce un primo figlio: che purtroppo muore alla nascita, con cocente e quasi presaga delusione del poeta. Ma per fortuna un secondo figlio, Eric (Claude, come secondo nome, in omaggio a Klaus), nasce neppure due anni più tardi, nel giugno del 1955: e Celan sarà un padre premurosissimo e orgoglioso. Questa paternità inizialmente felice ebbe un importante ruolo di stabilizzazione e certamente contribuì alla fioritura poetica che contrassegna il periodo creativo a cavallo del 1960.
(…) Il bellissimo e denso poema intitolato Vor einer Kerze è il più ampio di Von Schwelle zu Schwelle e ha sicuramente una funzione di cerniera e di centralità, anche tenuto conto del fatto, forse non casuale, che è il ventiquattresimo testo fra i quarantasette che formano la raccolta. Rivolgendosi alla madre scomparsa il poeta presenta la sposa come «del tuo esser morta, / la figlia», espressione ripresa in termini analoghi nell’ultima strofa: e non mi sembra dubbio che questo significhi che la sposa assume una posizione vicaria, subentra alla madre in quanto essa è morta. Segue una presentazione della persona fisica dell’amata come rifusa con il candelabro rituale che illumina la cerimonia nuziale ebraica. E infine il soggetto della poesia si fa officiante che consacra – con solenni espressioni benedicenti in nome dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe – l’assunzione della sposa nella comunità d’Israele. Il tema del passaggio di funzione dalla “madre morta” alla neofita sposa è forse anche adombrato nella poesia che apre la raccolta. Il pioppo può ben alludere al paesaggio nativo, come altrove il gelso; il soggetto della poesia non lo segue nel suo inabissarsi, ma in compenso da quel terreno egli coglie “una briciola” che ha la nobiltà e la forma (a mandorla?) “del tuo occhio”, un tu che potrebbe ben essere quello della persona più strettamente legata a quel paesaggio sommerso, ossia appunto la madre. Dal collo di lei, il soggetto prende la “catena dei detti”, ossia delle norme di vita, e con questa orla la briciola che ora ha trovato posto sul desco: un nuovo desco, bisogna supporre. Da quel mondo che è scomparso si salva una parte infima, una briciola; ma questa potrà essere il nutrimento di una nuova vita, se è posta al centro di un desco che è luogo deputato di una nuova casa, cui si accede da una nuova soglia. Sono tutte forme di pars pro toto. Come nel titolo: ripreso dalla già citata Chanson, e precisamente dalla strofa in cui, secondo l’interpretazione che propongo, viene esaltato l’amore saldamente fondato e consacrato. Nel 1952, sette anni dopo che l’emblematico pioppo è scomparso alla vista («sette rose più tardi», metaforizza il poeta), si tenta di portare un germe di vita e un patrimonio di norme e tradizioni da una soglia che non c’è più ad altra, e nuova. Mi pare essere questo il senso globale o comunque prevalente della raccolta nella quale Celan nel 1955 raduna le poesie sorte nei primi tre anni di matrimonio. Questa raccolta reca una dedica: per Gisèle.
(…) Il ciclo centrale della raccolta porta il titolo Mit wechselndem Schlüssel. La poesia da cui Celan l’ha ripreso tratta proprio il tema anzidetto: «Con alterna chiave / tu schiudi la casa dove / la neve volteggia delle cose taciute». Sappiamo che nella simbologia celaniana la neve è la gelida coltre che copre l’ignota tomba delle persone care deportate e uccise nell’inverno ucraino; per estensione essa diventa sigla dell’intero genocidio. Il tu della poesia deve far sì che la nuova casa, alternando la chiave, sia accessibile a quel tragico passato; che non deve sprofondare nell’oblio. Il tu deve trovare la parola «cui è concesso volteggiare coi fiocchi». Attorno a questo tema ruotano altre poesie. Quella che segue immediatamente (Hier) indica con il qui il luogo della soglia ricostituita. È la città retta dal tu che aiuta il fiore di ciliegio – altro albero simbolico del perduto laggiù – a rifiorire; a essere più nero, dice il poeta: paradosso solo apparente perché questa è una delle non infrequenti inversioni celaniane che sono l’apice di una qualità concepita in termini iperbolici. Il contrario è la forma mistica del superlativo. Al di là del massimo biancore vi è soltanto il nero. Si possono osservare in Celan parecchi altri esempi di tale procedimento. (…) Il ciclo centrale di Von Schwelle zu Schwelle si conclude con la “rimembranza” di un defunto dagli occhi a mandorla, ossia ebreo. Infatti il terzo ciclo avvia il tema che diventerà predominante nelle tre raccolte successive e trova la sua più esplicita formulazione in quella che, a sua volta, è l’ultima poesia del volume; essa anzi dà il titolo al terzo ciclo: Inselhin.
Qui comincia a delinearsi un movimento che avrà ben presto un conseguente sviluppo; ed è, in un certo senso, inverso a quello osservato finora: non più le ombre sono invitate a render visita e a invadere conciliate la nuova casa, bensì il poeta si sente attratto e chiamato a visitare le ombre nel loro remotissimo laggiù, a muoversi per ritrovare la prima soglia. Questo luogo fantomatico diventa nel terzo ciclo di Von Schwelle zu Schwelle molto concretamente un paesaggio: e si va dall’alpe desolata del testo iniziale, dove i corvi, o più propriamente le grandi e lugubri cornacchie di montagna (Dohlen), sorvolano senza sosta i ghiacciai, all’isola dei morti di vago sapore böckliniano con cui il ciclo si chiude. Nel terzo testo della serie (Flügelnacht) il paesaggio è già ridotto ai due elementi nudi ed essenziali che avrà sistematicamente più tardi: neve a distesa, e sassi, arida e inerte petrosità, gesso e calcare; così sarà ad esempio in Heimkehr e nel vasto poema catabasico intitolato Engführung.
Grata di parole
Con il terzo volume di poesie pubblicato da Celan, le difficoltà, di nuovo, cominciano dal titolo: Sprachgitter. Come si deve intendere? Che il titolo risultasse tutt’altro che semplice e comprensibile era apparso chiaramente già all’accorto lettore del S. Fischer Verlag, Rudolph Hirsch, il quale – prima di procedere alla stampa della raccolta – propose al poeta di sostituirlo con altro. Ma Celan si oppose rigorosamente, peraltro adducendo ragioni soltanto allusive a un accamparsi imperioso di quella parola nel profondo del suo animo; e ammettendo una pluralità di significati, che si presentano in tensione; infatti nella sua risposta a Hirsch Celan si richiama, da un lato, alla precarietà di ogni dire, dall’altro, alla perfetta geometria che rende perspicua la struttura dei cristalli e vorrebbe trovare riscontro nella struttura del testo poetico. Come tradurre Sprachgitter? Secondo quanto accade in casi simili, ci si è attenuti a una versione letterale che riproduce la prima accezione denotativa e che è ormai invalsa. Materialmente significa la grata attraverso cui avviene il dialogo in un confessionale o nel parlatorio di un convento di clausura. È dunque qualcosa che pone un limite, un diaframma, un impedimento quantomeno parziale alla piena e libera attuazione di un dialogo, di un contatto. Forse ci avviciniamo al senso allusivo implicito nel titolo se vogliamo tenere presente che il tema dominante della raccolta è l’aspirazione, il tentativo estremamente arduo di istituire un rapporto con il mondo dei “sommersi”. E qui può essere utilmente ripreso il collegamento, già proposto da più autori, con l’uso metaforico che Jean Paul – scrittore molto letto da Celan – fece in varie sue opere del termine Sprachgitter. Così in Hesperus si legge: «Il silenzio è il linguaggio del mondo degli spiriti, il cielo stellato è la loro grata di parole [Sprachgitter] – ma dietro il cielo stellato non appariva ora nessuno spirito, e neanche Dio». La frase è riferita al personaggio di Emanuel, sul quale incombe l’ombra della morte imminente. E giustamente Böschenstein sottolinea che il rapporto tra Jean Paul e Celan avviene nella sfera del lutto, della morte come movente per ampie parti dell’opera. In un altro passo di Hesperus Jean Paul usa il termine Sprachgitter per dire che un suo personaggio ha dinanzi ai propri occhi malati qualcosa come una nera cortina. E infine altrove di un vecchio si dice che «egli parla attraverso la grata linguistica del sonno [Sprachgitter des Schlafs] con i morti, che assieme a lui avevano percorso i prati mattinali della giovinezza». L’ipotesi suesposta circa il senso da attribuire a Sprachgitter mi sembra dunque da preferire a quella, pur sostenuta con ingegnosi argomenti, secondo cui il titolo indicherebbe la griglia linguistica che il poeta avrebbe inteso gettare sulla realtà per dominare il caos che regna in essa. (…)
Nel primo periodo del triennio entro cui cade la composizione delle poesie raccolte in Sprachgitter Celan attese alla traduzione del commento che Jean Cayrol scrisse appositamente per il film che Alain Resnais (http://site037103.primehost.com/cineclubnews/resnais1.htm) stava producendo sulla deportazione e sui campi di sterminio nazisti. Nuit et brouillard, del 1956, è il primo documentario girato ad Auschwitz (http://netrunner.net/~holomem/menu.html). Non ho notizie precise al riguardo, ma bisogna supporre che Celan abbia potuto vedere il materiale per il quale stava traducendo il testo di Cayrol, anche perché era necessario far coincidere la durata del commento con quella delle immagini, come è provato dal fatto che Celan dovette a tratti tralasciare o accorciare una frase del parlato originale francese, più conciso del tedesco.
(…) Concludendo direi che al titolo apposto alla terza raccolta di Celan va lasciata tutta la polisemia che il poeta ha voluto attribuirgli, ma solo in seconda istanza si può anche ritenere che il titolo alluda a una funzione linguistica – il linguaggio come sistema di coordinate da usare di fronte a una realtà altrimenti sfuggente – e sia dunque la spia di un principio poetologico.
La Rosa di Nessuno
Le sessantotto poesie che formano Die Niemandsrose furono scritte nel giro di quattro anni, tra i primi di marzo del 1959 e la fine di marzo del 1963. Ma ben trentasette risultano scritte nel 1961; la produzione nel corso di quell’anno può dirsi quanto mai copiosa, anche perché sono numerose le poesie datate 1961 che Celan escluse poi dalla pubblicazione. Merita dunque di ritornare brevemente a qualche considerazione di carattere biografico, per cogliere eventuali fattori esteriori di questa alta produttività per altro non solo quantitativa ma anche qualitativa. Già dopo la pubblicazione di Von Schwelle zu Schwelle si può dire che nessuno – tra i lettori qualificati di poesia tedesca – ebbe più dubbi sul fatto che si fosse alzata una voce nuova, inconfondibile, di grande valenza e significato. Il nuovo libro era l’attesa controprova di quanto i più sensibili avevano riconosciuto già in Mohn und Gedächtnis. Così cominciarono a fioccare i riconoscimenti ufficiali. Un primo premio Celan lo ebbe nel 1957; veniva dall’Assessorato alla Cultura della Confindustria della Repubblica Federale. L’accettare premi letterari tedeschi, magari dotati anche di una somma cospicua, fu un aspetto secondario ma non del tutto trascurabile del difficile rapporto di Celan con la sua odiosamata patria linguistica e culturale. Ricordo di aver assistito a una serrata discussione tra un alto funzionario del governo Kreisky e Ingeborg Bachmann circa le precauzioni e gli argomenti più opportuni per convincere Celan ad accettare il Großer Österreichischer Staatspreis für Literatur. Ma si era già verso la fine degli anni Sessanta e la morte del poeta rese inutile quella discussione. Una decina d’anni prima la suscettibilità e la ritrosia erano meno marcate, specie se la composizione della giuria, l’origine e la sede del premio erano associabili a precedenti culturali e politici insospettabili, o addirittura grati. Fu questo il caso del premio di poesia della Città di Brema, assegnato a Celan ai primi del ’58. (…)
Dopo quanto si è detto nelle pagine precedenti non meraviglia che la quarta raccolta, uscita nel 1963, rechi in epigrafe il nome di Mandel’stam: è il solo libro di Celan, dopo quello per Gisèle, che rechi una dedica. Il riferimento al poeta dei Tristia ci aiuta forse anche a interpretare il titolo. La traduzione letterale di Die Niemandsrose non presenta spinosi problemi: La rosa di nessuno è un titolo suggestivo ed efficace anche in italiano. Ma conserva l’ambiguità dell’originale. Chi è nessuno? Di che è emblema la rosa? Che tipo di genitivo è inteso? Ancora una volta converrà cercare luce nel testo dove l’espressione ricorre. In questo caso il testo è contenuto nella stessa raccolta cui fornisce il titolo, ed è Psalm:
(…)
Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango,
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno.
È per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
te.
Noi un Nulla
fummo, siamo, reste-
remo, fiorendo:
la rosa del Nulla,
la rosa di Nessuno.
Con
lo stimma anima-chiara,
lo stame ciel-deserto,
la corona rossa
per la parola di porpora
che noi cantammo al di sopra,
ben al di sopra
della spina.
La poesia si apre con un evidente richiamo biblico: «Allora Jahve Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (Genesi 2, 7), ma con due significative varianti. Anzitutto quel wieder del primo verso vuol dire non creazione ma ri-creazione: di qualcuno che, già vivente, fu ridotto a terra, fango e polvere. E poi l’azione indicata dai due predicati biblici non avviene perché il soggetto che dovrebbe realizzarla è nullo. Là dove dovrebbe essere Jahve Dio non c’è nessuno. Questo incipit è un’altra drastica formulazione della teologia negativa di Celan. Il terzo verso ripete il Niemand iniziale come per una riflessione: e il risultato è un cambio sia grammaticale che semantico della parola. Come già da più commentatori è stato notato, quello che era un pronome indeterminato, scritto minuscolo nella prima strofa, diventa sostantivo; tanto da essere oggetto di lode e di amore, forse anche di accostamento perché l’entgegen dell’ottavo verso, che dai commentatori è stato interpretato come contrario di zulieb, può anche significare un moto di avvicinamento, una ricerca di contatto. Un Nessuno per la cui gloria il soggetto (wir) intende fiorire prende il posto vuoto di un dio creatore che si è rivelato inesistente; e non si può ignorare l’uso provocatorio, se non addirittura blasfemo, di una forma rituale cristiana (laudetur ) e vagamente francescana (laudato sii…). Alla prima domanda posta sopra bisognerà quindi dare una risposta bivalente: niemand è il calco del vuoto divino, Niemand per contro designa colui, o meglio, collettivamente, coloro cui fu negata la possibilità di essere ri-creati: in una parola i morti ignoti, cancellati totalmente dalla dimensione dell’esistere perché privati anche della sopravvivenza o reviviscenza nella memoria e nella pietà dei viventi. Ma a questa cancellazione il poeta, che qui s’indossa di un pronome plurale significante pluralità, tenta di opporsi. Come? Fiorendo per amore di quel Niemand , avviandosi a incontrarlo, suscitando il prodigio di far sbocciare una rosa dal nulla che avvolge entrambi, avvolge i “sommersi” perché sono tali, e i “salvati” perché, se non giungono a ridare un’ideale esistenza ai primi, sono essi stessi ridotti a nullità. Se il Nostos fallisce il poeta è anch’egli Niemand e davanti a lui si apre il baratro di un nulla definitivo. Per ora, pur nel paradossale coincidere dell’annichilimento e del fiorire, la rosa sembra affermata come esistente; essa è, nella strofa finale, parola che fa rosseggiare di porpora regale (e di sangue?) la corona di spine, ma in quanto si fa canto s’innalza al di sopra di essa. La poesia può trascendere il martirio, qui evocato con una simbologia cristologica che si ritrova in altre composizioni celaniane. Così si può tentare di rispondere alle altre due domande poste all’inizio. La rosa è emblema di una poesia con un compito preciso che il coro dei sopravvissuti – in cui il poeta si riconosce – si è posto imperativamente: spingersi incontro al Niemand , sempre e comunque, con chiarità d’anima (seelenhell ) pur entro un cielo che è deserto. Quanto al valore del genitivo implicito nell’espressione die Niemandsrose, dopo quanto si è detto sopra, si deve dedurre che esso pure va considerato bivalente, ossia genitivo allo stesso tempo soggettivo e oggettivo: la rosa appartiene tanto al wir che la produce pur sapendosi un perenne Nichts, quanto al Du cui la fioritura è intesa, pur essendo quel tu un Niemand. Nella sua doppia e contraddittoria valenza la parola Niemandsrose, che occupa il centro dell’opera di Celan, ne focalizza la tensione utopica.
Svolta di respiro
Nell’affrontare questa quinta raccolta, questo libro dal doppio volto, in bilico tra il vertice della poesia celaniana e l’inizio del susseguente periodo di tormentosa involuzione, converrà riallacciarsi a quel momento critico cui si è già fatto cenno brevemente: nell’estate del ’60 le notizie allarmanti che giungono dalla Svezia circa le condizioni di salute dell’amica Nelly Sachs, che l’8 agosto sarà urgentemente ricoverata nella sezione psichiatrica dell’ospedale di Stoccolma, inducevano Celan a interrompere le felici ferie estive in Bretagna e a ritornare con la famiglia a Parigi. Durante tutto il mese di agosto Celan segue ansiosamente l’evolversi della situazione, anche tramite persone amiche della Sachs: la quale lo sollecita a farle visita, persino con Gisèle ed Eric, poi rinvia, poi sollecita nuovamente, poi – con la ragione evidentemente pretestuosa che in tutti gli alberghi di Stoccolma non vi è una sola stanza libera – perentoriamente disdice l’invito. Ma quest’ultimo telegramma arriva qualche ora dopo che Celan è partito, in treno, per Stoccolma.
I sette giorni trascorsi nella capitale svedese rappresentano uno degli episodi più oscuri e conturbanti nella vita del nostro poeta. Forse non sapremo mai con esattezza cosa sia accaduto; certo è che quel soggiorno ebbe su di lui un effetto traumatico. A un colloquio tra i due, o forse a più d’uno, si giunse soltanto dopo aver superato non ben precisate difficoltà; pare che la Sachs si rifiutasse dapprima di ricevere l’amico che aveva affrontato un viaggio tanto lungo e disagiato per avere un incontro che lei stessa aveva ansiosamente richiesto. Né sappiamo quale sia stato il contenuto e il tenore di questo – o di questi colloqui. Il turbamento fu enorme: «È stato così spaventoso in Svezia! Spaventoso». Così si espresse Celan qualche settimana dopo il rientro da Stoccolma. Non vi è dubbio che «così spaventose» furono le circostanze dell’incontro con la Sachs, e non altro. Forse Celan si specchiò nell’amica ricoverata in quel triste luogo, forse ebbe il presentimento di quanto egli stesso di lì a pochi anni avrebbe dovuto sperimentare. Ma ci dovette anche essere una frattura: infatti dopo di allora, come risulta dal carteggio, il rapporto tra i due poeti lontani, e che non si sarebbero mai più riveduti, riprese formalmente su un tono di cordialità; ma adesso, si direbbe, a senso unico. Nei dieci anni di vita che a entrambi rimasero (la Sachs morì il 12 maggio 1970, un paio di settimane dopo Celan) si può dire che a “scrivere” fu soltanto lei; Celan, a ben guardare, si limitò a rispondere; e magari in termini formalmente amichevoli, ma sempre brevemente, e con formule ripetute, convenzionalmente accattivanti. Allorché, nel novembre 1966, la Sachs invitò a Stoccolma Paul e Gisèle per presenziare alla cerimonia di conferimento del premio Nobel indetta per il 10 dicembre, da Parigi partì un cortese cenno di rinuncia; la ragione addotta (o pretesto?): Celan avrebbe avuto imbarazzo a chiedere qualche giorno di permesso all’École Normale dopo che già nel precedente anno accademico era stato a lungo assente per motivi di salute.
Il turbamento di quella prima settimana di settembre trascorsa nella capitale svedese si manifestò pure in rapporto a un’altra grave vicenda acutizzatasi proprio in quel cruciale 1960: da lassù Celan revocò telegraficamente la delega ad alcuni fidati amici che avevano l’incombenza di contrastare pubblicamente un’accusa di plagio cui si trovava esposto. È vero che poi ritornò sui suoi passi, ma l’episodio rimane indicativo della grave tensione e dello sconcerto che segnarono le giornate di Stoccolma.
Questa penosa storia di plagio, su cui già molto si è detto e si è scritto, si era profilata vagamente già vari anni prima. Si ricorderà che Celan era stato molto vicino a Ivan Goll (http://www.netdanse.com/poesie/goll1.htm) durante gli ultimi quattro mesi della sua vita nell’inverno 1949-50. Dopo la morte avvenuta il 27 febbraio, aveva accettato di tradurre in tedesco le poesie francesi dell’autore alsaziano. Come è stato affermato da chi ha potuto vederne il testo, inedito, queste traduzioni erano forse state redatte un po’ frettolosamente e senza la cura e l’inimitabile perizia che in futuro sarà propria del Celan traduttore di poesia: fatto sta che la casa editrice zurighese cui erano state proposte le ritenne indegne e le respinse.
Può essere che il fallimento di questo progetto abbia acuito l’acrimonia della vedova Claire Goll: poco tempo dopo infatti essa indirizzò all’editore di Celan e ad altri destinatari una lettera in cui lo accusava di plagio. Tre anni più tardi, nel 1956, la Goll rinnovava l’accusa suscitando in Celan grande allarme e amarezza. E, ancora, nella primavera del 1960, dopo che era stato annunciato il conferimento a Celan del prestigioso premio Büchner, la Goll iniziava una sistematica campagna diffamatoria appoggiandosi a una rivista monacense abbastanza diffusa. La sollecitudine e l’impegno con cui tanti autorevoli autori e pubblicisti, da Peter Szondi a Wieland Schmied, dalla Kaschnitz a Walter Jens, da Demus a Enzensberger, da Reinhard Döhl alla Bachmann, rintuzzarono l’infamante accusa dimostrandone tutta l’inconsistenza, non bastarono a placare il cruccio deleterio che l’episodio, in fondo piuttosto irrilevante, annidò in permanenza nell’animo di Paul Celan. Contemporaneamente e sinergicamente, montava in lui il convincimento di un vasto ritorno dell’antisemitismo e dell’ideologia fascista, in Germania e anche altrove; e come caso particolare di tutto questo montava anche, oscuramente e minacciosamente, l’inconsistente persuasione di essere oggetto di un accerchiamento persecutorio volto a distruggerlo come autore. Oltre a quelle del poeta stesso, numerose lettere di Gisèle Celan testimoniano questo convincimento, che risulta dunque non abbastanza contrastato in ambito familiare, certo per amorosa solidarietà.
L’avventura di Stoccolma, l’accusa di plagio, il ritorno dell’antisemitismo – supposto in misura eccessiva –, l’esasperata suscettibilità per critiche e incomprensioni marginali e del resto largamente compensate dalle autorevoli e numerose attestazioni di stima, tutto questo creò in quei primi anni Sessanta le premesse per il turbamento psichico che segnò l’ultimo decennio di vita di Paul Celan, costringendolo a reiterate e sempre più lunghe degenze in varie cliniche per malattie nervose. (…)
Atem: questo respiro, o pneuma, è metafora essenziale nella poetica celaniana; e fu mutuata probabilmente da Mandel’stam. Essa compare già nel discorso di Darmstadt del 1960 dove si dice che «Lucile percepisce il linguaggio come figura e direzione e respiro». Ma poco più avanti si legge ancora: «Lenz – ossia Büchner – qui ha compiuto un ulteriore passo avanti rispetto a Lucile. Il suo “Viva il Re” non è più parola, è un pauroso ammutolire, qualcosa che toglie a lui – e anche a noi – il respiro e la capacità di parlare. / Poesia: ciò può significare una svolta del respiro [Atemwende]. Chi può saperlo? La Poesia percorre forse il cammino – anche il cammino dell’Arte – proprio in vista di una simile svolta?».
Nel 1960 Celan ancora ammette la possibilità della poesia come «Atemwende», ossia – così possiamo intendere – come possibilità che all’atto dell’inspirazione, ossia dell’assunzione «dell’aria che ci tocca di respirare», segua una espirazione che, giovandosi del mezzo artistico, restituisca come poesia la realtà che ci circonda. È quello che Celan tenta ancora di fare negli anni immediatamente successivi a Darmstadt, da ultimo delegando a un remoto fantasma la creazione di quel “cristallo di respiro”. Ma non passerà molto tempo e anch’egli compirà l’ulteriore passo che attribuisce a Lenz (http://hoepfner.inovis.de/lenz.htm), il poeta che nel racconto büchneriano appare al punto terminale della sua triste e tragica vicenda terrena. Allora il «respiro» diventerà “pietroso” (Steinatem, in Das aufwärtsstehende Land).
Nel 1967 Celan raccoglie in volume quasi tutte le poesie scritte tra il settembre 1963 e il settembre 1965. La strutturazione di questa raccolta – a parte la ripresa in prima sede del ciclo Atemkristall, scontata – risulta dai documenti pubblicati nell’edizione critica di Bonn molto più travagliata che non quella delle raccolte anteriori. Contrariamente a quanto Celan aveva fatto in precedenza, qui è alterato l’allineamento cronologico. Inoltre è documentato che Celan prese in considerazione altri titoli della raccolta, per poi scartarli in favore di Atemwende. (…)
I manoscritti sono più tormentati che mai, le audacie lessicali, specie nei composti, non hanno più alcun limite, gli anelli mancanti nella catena metonimica sono sempre più numerosi e quindi la riconduzione del discorso lirico quantomeno a una tematica individuabile nella sua genericità diviene per l’interprete sempre più azzardata. Non sappiamo ancora con sufficiente chiarezza quale sia stata l’evoluzione interiore di Celan, certo anche legata a fatti esterni, dopo la fiammata di Atemkristall. Sappiamo che questa si spense. L’ultima poesia del ciclo conteneva una grande speranza; l’io si annichiliva ma l’arcana mediatrice dischiudeva nel profondo crepaccio della Storia la testimonianza a lungo cercata. Sappiamo che questa grande promessa non ebbe seguito; è come se, su quel cristallo, si fosse nuovamente richiusa quella coltre di ghiaccio e di neve che il poeta, fin da Heimkehr, aveva steso sulla meta del suo “ritorno a casa” per significare quanto questo fosse arduo.
La terza, breve sezione di Zeitgehöft – gli ultimi versi di Celan a noi pervenuti – pare una pietra definitiva sulla parentesi israeliana che occupa la parte centrale del libro. Il cerchio si è chiuso. Il 21 marzo di quel 1970 Celan ancora va a Stoccarda e poi il 26 a Friburgo per una pubblica lettura di versi da Lichtzwang, la raccolta che era già in bozze. L’accoglienza è rispettosa, ma non priva di perplessità. E le testimonianze su quell’ultimo scorcio di vita del poeta sono discordanti. Chi lo ospita a Friburgo lo trova invecchiato, stanco, distaccato; altri invece lo ricordano, nelle ultime settimane, in uno stato di singolare gaiezza, come sollevato. Può essere che quest’ultima condizione derivasse dal fatto di avere ormai preso una decisione precisa? O forse a determinare quest’ultima fu una grave crisi depressiva intervenuta negli ultimi giorni e, per conseguenza, la prospettiva di un nuovo imminente ricovero? Il mondo doveva apparirgli pieno di segni: invitato da un amico ferma la sua attenzione su un fiore (Krokus) cui lo unisce «una comune verità»: sapeva – magari da Erwin Rohde – che il croco per gli antichi ebbe anche un significato di oracolo funereo? Qualche tempo prima, passando per il Pont des Arts, sulla spalletta, a metà del ponte, aveva visto che qualcuno vi aveva lasciato un orologio. Nell’ultima poesia, scritta il 13 marzo, compare «l’orologio delle ore buie»; e una ventina di giorni prima, in Die gesenkten, dopo aver preso atto che gli dèi hanno dato pollice verso, dice che il tempo presto si fermerà: «bald ist / heute, für immer…» («presto è / oggi, per sempre…»).