Intervista a Péter Esterházy

[Intervista rilasciata nel 1998 dall’autore ungherese al poeta e critico Péter Zihaly]

Dove vivi? Come descriveresti il luogo nel quale abiti e i suoi dintorni?

esterhazy2Be’, sentendo parlare del luogo nel quale abito mi verrebbe subito in mente una risposta sorniona: “Ecco, vogliono sentirmi dire che vivo nell’Europa Centrale”. Poi, pensando all’Europa Centrale, mi vien fatto di pensare al Danubio, perché de facto vivo in riva al Danubio, e allora mi sovviene quanto sia privo di significato il fatto che viva in riva al Danubio. Non ho alcun rapporto con il Danubio. Di tanto in tanto gli dedico un libro, ma nient’altro. Dunque, dovrei rispondere che vivo nella mia stanza, cosa che si può fraintendere facilmente, ma comunque vera. Si può fraintendere perché è come affermare che uno non abbia altra esistenza al di fuori di quella che il lavoro gli consente … Ed è quasi vero.

Ho già sentito alcune tue uscite del tipo: l’Europa Centrale non esiste, Budapest non esiste. Ma poi ne scrivi in continuazione. Potrei anche dire che negare è il primo passo verso l’oggetto del desiderio. Dunque: esiste o non esiste un’Europa Centrale?

Se penso all’Europa Centrale della quale si legge in Kundera, allora sono portato ad affermare che non esiste. Se invece penso all’Europa Centrale della quale parla Danilo Kis, allora dico banalmente che esiste. Nel primo caso si è trattato di una bella lotta per l’indipendenza degli anni Ottanta, molto importante e molto pratica, e come tale è terminata. Poi è accaduto tutto diversamente. Con Danilo Kis, invece, si asserisce una peculiarità esistenziale.

Intendi dire che nel primo caso si trattava di manifesto politico, mentre nel secondo si parla di sentimento della vita?

Sì, si tratta di un altro genere di rapporto con la storia. Un’esperienza a Belgrado è differente da un’esperienza parigina.

A mio avviso, il problema scaturisce dall’impossibilità di delimitare l’Europa Centrale sia dal punto di vista geografico sia dal punto di vista concettuale. Perché è una creatura vivente, come il corallo, come gli animali, vi si depositano una grande sapienza e ignoranza, un bel vaso… A noi hanno detto che eravamo europei orientali, e questo ci metteva un po’ in imbarazzo. Esiste anche un’Europa Centrale, che non è tanto Orientale quanto proprio Centrale.

Sì, credo che il Kundera – ma si potrebbe dire anche il Konrád – degli anni Ottanta, sostenevano quel “non”. Ma fra i due, allora, c’era quel qualcosa di interessante, di vivo che – come stanno le cose ora – non interessa più. Oggi non vi è nulla che accenni al futuro, quella speranza che allora dava un senso a tutte queste espressioni: A Central Europe Dream, di questo non si parla più. Si parla dei complessi di inferiorità , della situazione dei vespasiani.

Potrei citare espressioni estetizzanti come “cuore d’Europa” – non ce ne sono di più belle – oppure “danubiano”…

Si tenta di difendersi dai cliché, ma essi non esistono per caso, si dice che una città venga caratterizzata proprio dai suoi cliché.

Un cliché tipico dell’Europa Centrale – forse un tantino più ungherese che ceco – è ritenere la vita una storia di onere, destino e dolore. Riusciresti a immaginarti un quadro centroeuropeo: dandy, pensiero positivo, piscine, alberi di palme e donne?

Secondo me, il fatto che il dream sia andato perduto, significa appunto che anche la sua drammaticità è casuale, quindi non èstoria di dolori, ma può essere anche il contrario, potrebbero esserci anche delle palme.

E questo ci nuocerebbe? Mi ha sempre infastidito il dover ammettere di essere ungherese con una punta di tragicità . E’ ridicolo.

Sì, è ridicolo, lo testimoniano anche i tentativi precedenti, ho anche scritto – in relazione a Hrabal – come si può fare di una scalogna un dramma, essere ungherese sarebbe dunque una scalogna, non un dramma o una tragedia o una commedia. Così ci avvicineremmo parecchio agli alberi di palma. Per quanto mi riguarda, è questa la posta in gioco per la scrittura, altrimenti rimarrebbe solo un’autocommiserazione di cattivo gusto.

A proposito dell’integrazione europea, se facessimo un paragone con gli U.S.A., quale sarebbe l’immagine dell’Ungheria nell’Europa unita? Un arcobaleno su un Kansas europeo con sconfinati campi di grano? Musica zigana al posto del blues, il tutto lardellato di gulyás in scatola? O ci attende un futuro migliore? In tale competizione avremo bisogno di un’identità più marcata, di qualcosa che rimanga attaccato dall’esterno, visto che entreremo a far parte di uno stato – stavo per dire monarchia – multinazionale?

Temo che i cliché faranno la loro parte …

E anche tu sarai un cliché. Ho appena letto da qualche parte che Péter Esterházy è il passaporto per l’estero della letteratura ungherese, che ne dici?

E’una grossa bestialità . Ma aspetta, volevo dire qualcosa, sì, non ho mai saputo rispondere alla domanda su che cosa ci sia di preminentemente ungherese in quello che faccio.

Forse il fatto che tu scriva in ungherese.

Sì, d’accordo, è questo che ci consente di distinguere Thomas Mann da Proust, per esempio.

Secondo me, tale virus si manifesta quando l’identità è frustrata, Joyce per esempio, per tutta la sua vita non ha fatto altro che scrivere di un paese nel quale non è mai vissuto.

Sì.

Per te non costituisce una frustrazione il fatto di essere ungherese, quindi non se ne legge nei tuoi libri. In verità , hai qualcosa che ti assilla?

La domanda adombra l’ipotesi sorniona che sono pienamente soddisfatto di tutto. In realtà , c’è del vero. Che ci sia qualcosa in me lo ritengo anche naturale. Se fossimo impegnati in un altro tipo di conversazione, direi che osservo l’esistenza con una gioia sconcertante..

Sfogliando il tuo libro sul Danubio, (tradotto in italiano col titolo Lo sguardo della contessa Hahan, Garzanti, 1995 n.d.r.) salta agli occhi quanto sia basato sulla pura esistenza delle cose: quello che esiste e quello che non esiste – nella maggior parte dei casi, quello che esiste – l’elogio dell’esistenza. Davanti agli occhi, l’immagine dello scrittore: come ti immergi nel fiume, ti ci lanci, ti lasci trasportare e, nel frattempo, descrivi quello che accade. Non sei nemmeno tu a farlo, semplicemente ne godi, vuoi esprimere la tua gioia. Significherebbe questo la scrittura?

In effetti, considero uno scrittore descrittivo, uno che guarda e descrive, è un emblema classico, ma tramite la descrizione va via via definendosi il mondo stesso, e questo fa parte del gioco.

Come la Creazione nella Bibbia, dove tutto è stato descritto?

Sì, questo fa parte del tutto, dell’Universo. Sì, mi lasciano quasi scandalosamente indifferente le questioni relative al futuro: come saranno la fine del millennio o il nuovo secolo, perché comunque in qualche modo saranno, e mi interessa sul serio sapere come.

Non sappiamo neanche che cosa stia accadendo ora.

Non parliamone nemmeno. Certo è una questione ricorrente, specialmente ora, alla fine del millennio.

Provi nostalgia?

No.

Di nessun tipo?

Di nessun tipo, ci riflettevo giusto poco tempo fa, e ancora ora pensando ai mondiali: provo nostalgia per il calcio? Sì, per quello sì, ma mi rendo conto che la mia costituzione non è adatta. Solo poche cose sono svanite in maniera così dolorosa.

Il calcio e la dittatura, a mio avviso, erano correlati. Nell’Europa Orientale, dove mancava il denaro e vigeva la dittatura, c’era del buon calcio: lo abbiamo sperimentato ancora oggi proprio con i nostri vicini meridionali. E il calcio ungherese e quello ceco funzionavano quando avevano anche un significato politico.

Be’, credo che ciò sia vero solo in parte, tuttavia c’è della verità , perché se la sola strada per emergere è lo sport, allora molti giovani giocano a calcio, e così via. Ma questo non spiega come mai i francesi abbiano vinto i mondiali.

Poco tempo fa ho seguito un’intervista in TV; uno scrittore diceva che allora non si poteva fare niente e se si voleva diventare qualcuno si decideva di fare il calciatore o lo scrittore. E tu?

A mio avviso, affermazioni di questo tipo raschiano il fondo all’autocommiserazione. Ho giocato un po’ a calcio, e in tutta la mia vita ho anche scritto un po’, ma questo non c’entrava assolutamente con la dittatura, alla quale andava associato, invece, il fatto che studiassi matematica.

Hai studiato matematica perché c’era la dittatura?

Per quanto ridicolo, è così. Alle superiori mi sono impegnato molto in matematica, in parte perché mi interessava, ma soprattutto perché, al liceo degli Scolopi, avevamo un professore che umiliava quelli che non sapevano. Giudicava la stupidaggine ribellione intenzionale, e quindi la reprimeva con il polso di ferro. Ricordo quando avevo 15 anni e riflettevo sul fatto che avrei dovuto o andarmene o rimanere e far qualcosa, e quando mi sono diplomato è saltato fuori che – avendo frequentato il liceo degli Scolopi, ancora così chiamato – non potevo iscrivermi a Lettere, perché avevano ipotecato la mia giovinezza. E quindi ho dovuto iscrivermi a matematica.

Ritornando all’argomento precedente, forse c’è qualcosa di vero nel fatto che taluni diventavano scrittori perché era da macho, bisognava affrontare la vita. E sono in molti oggi a ritenere che – questa è la cosa più buffa – essere uno scrittore ungherese, è da macho, e non si sono resi conto che non è più così.

Sì, non è più così. Ho capito cosa vuoi dire, cos’è quel qualcosa.

Diventare qualcuno facendo un gol o scrivendo una frase.

Sì, c’è qualcosa di vero, comunque, ho opposto resistenza perché io non ho scelto di fare queste cose. Gioco da quando mi ricordo, e con la scrittura è andata più o meno così.

Com’è andata?

Com’è andata, non saprei dirlo, perché è andata e basta. Non è che io abbia cominciato a scrivere romanzi di trecento pagine a dieci anni …

Soltanto a dodici anni?

No, ho letto molto, questo è quanto, avevo diciassette anni, più o meno, quando ho scritto un racconto, me ne ricordo perché mi lasciò il segno. Mi lasciò il segno, nemmeno a dirlo, perché era un racconto realista; c’era un personaggio che avevo inventato. C’era una cuoca, e dovevo riflettere su come dovesse essere: grassa, magra, vecchia, giovane, una che suda, una che non suda, e decisi una cosa per volta, e ricordo il sentimento borioso che tale potere mi suscitava, da piccolo dio. Quella fu la boria della creazione. E quando terminai tutto questo, credetti – del tutto erroneamente – di essere uno scrittore, ed ho lasciato che fosse così, per vari anni ho preso atto con serenità di essere uno scrittore.

E come trovi quel testo, ora?

Ora, abbastanza cattivo, anzi nemmeno cattivo. Non cattivo in maniera promettente. Se qualcuno, oggi, mi mostrasse un racconto simile, non batterei ciglio.

Lo rimanderesti indietro?

Lo rimanderei indietro.

Ritornando al calcio, che nel tuo caso non dipende dalla dittatura …

Da un punto di vista sociologico vi è correlato, ma sul piano personale, no. Gioco a calcio da quando mi ricordo, vale a dire dall’età di quattro anni … E in principio era il calcio, non il verbo, ho sempre anteposto il calcio a tutto: alla letteratura, alla lettura, alla scuola, alle ragazze.

Perché?

Ero molto felice quando giocavo, mi sentivo nel posto giusto. Quel quadrilatero, quel rettangolo, era per me l’Eliso.

Anche se rapportato alla letteratura?

Tempo dopo, ho considerato la letteratura alla stessa stregua, in un certo senso anche la matematica. Posso coinvolgere il calcio, la matematica e la letteratura nello stesso gioco, definendone le regole e gli spazi, validi solo in quel determinato contesto.

Si tratta di tre linguaggi completamente differenti: quello del corpo, quello formale-scientifico e quello verbale.

La cosa funziona comunque. In un determinato spazio algebrico sono valide determinate cose, altre non avrebbero senso. Nel calcio non c’è spazio per cose troppo importanti, per esempio, se la moglie del terzino destro sia fedele o meno. è irrilevante, come in matematica non sarebbe analizzabile il fatto che il pallone non si possa toccare con le mani, e così via. Questa è la differenza linguistica. Conta solo quello che accade all’interno del rettangolo, lì si decide ogni cosa.

Tutte e tre le cose hanno significato una libertà diversa.

Sì, la matematica era quella che di libertà ne riservava meno, perché lì le mie capacità erano più limitate, credo, comunque mi serviva a sperimentarne l’estetica fino a un certo livello.

In quale ordine le disporresti? Dove mostravi di possedere più talento?

Direi – modestamente parlando – che, per quanto riguarda la matematica e il calcio, mi avvidi subito dei miei limiti, per la letteratura no. Il talento può gravare molto duramente, talvolta ti impedisce alla grande di vedere le tue capacità , com’è naturale, del resto. Conosciamo quelle delicatissime creature che sanno incredibilmente tanto, ma vengono ostacolate dal loro stesso livello in qualsiasi cosa vogliano fare, e sono comunque più deboli di Dante. Per me avrebbe costituito un problema fare il matematico, non sarebbe stato un bene. E con il calcio sarebbe andata anche peggio, perché non dipende dalla volontà : o ti prendono in squadra oppure no.

Quando il calcio è tramontato, la letteratura e il pallone sono divenuti entrambi sport poco seri, almeno dal punto di vista della ricezione. Non intendo dire che c’erano talenti minori, ma evidentemente la situazione era cambiata.

Sì, in realtà era cambiata, e la letteratura è tornata al livello ridicolo al quale è sempre stata.

Possiamo affermare che la situazione attuale della letteratura sia di arretratezza?

E’ peggiorata, come tutto, perché non siamo riusciti a intuirne le correnti, non sappiamo come creare una libreria, trarne profitto, ecc.

Ritieni che in Ungheria il lettore faccia pressione sullo scrittore perché scriva? C’è una relazione creativa fra lo scrittore e il pubblico?

Non ho mai sentito di vivere in un paese o in una città che stimolino la mia attività .

Partiresti? Partiresti come scrittore?

Sono talmente vincolato, nemmeno vincolato, ma impalato o inchiodato da quello che faccio che, onestamente, non riesco nemmeno a pensare ad altro. Potrei viaggiare da scrittore solo se avessi un pretesto per viaggiare, ma allora sarebbe come andare in biblioteca.

Per il libro sul Danubio occorreva viaggiare.

Sì, ho dovuto farlo ed ho dovuto anche vincere dei conflitti, dal momento che ho dato inizio al viaggio e alla stesura contemporaneamente, e ho subito avvertito la problematica dell’essere viaggiatore. Non ho viaggiato sistematicamente. Per un viaggiatore sistematico si può presentare in ogni momento il pericolo di giungere in una cittadina polverosa dalla quale non riesce più a staccarsi, mentre io sapevo bene che, se fossi giunto in una polverosa cittadina rumena, me ne sarei ripartito in capo a due giorni, e c’è stato un momento in cui ho provato fastidio per il lento combaciare del ruolo di viaggiatore con quello di scrittore.

Com’era il tuo Danubio?

L’ho dimenticato.

Non era una questione personale?

Allora lo era.

Posso, quindi, domandarti con tranquillità , se nel libro che hai dedicato al Danubio c’è effettivamente una linea matematica. Hai proceduto lungo una linea, da un punto fisso a un altro punto fisso, prevedibile, è tutto lì, sulla carta geografica, ma il fine della ricerca è abbastanza ingarbugliato.

Se uno comincia a osservare, si avvede subito del fatto che quei cinque anni di studio hanno lasciato il segno un po’ ovunque. Queste proiezioni mi hanno sempre attratto, prendi due insiemi, cerca – tramite complicatissime vie – dei sistemi definiti, di modo che uno costituisca l’insieme delle parole, l’altro quello degli eventi. E un’altra cosa che mi attrae molto è la proiezione delle strutture. Prendiamo una forma musicale, la sonata, e facciamone una proiezione. L’ho anche fatto di tanto in tanto, ma mi sono reso conto che non volevo farlo sistematicamente, non sono esigente in queste cose, perché in genere non lo sono. Se voglio lavorare bene, sono molto preciso, ma non esigente. Non faccio con esattezza nemmeno queste proiezioni, quando ne parlo ècome se facessi dei pettegolezzi, perché non è scontato che anche il testo parlerà così di se stesso.

Quando hai cominciato a studiare matematica, c’era già una teoria del caos?

No, all’epoca non la studiavamo ancora, ma sappiamo che nei romanzi, di tanto in tanto, deve pur fare capolino una farfalla, che con un unico battito d’ali metta in movimento una slavina in un’altra parte del romanzo. In un buon romanzo è sempre così.


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